Volodyk - Paolini3-Brisingr
Eragon si tappò la bocca con la mano, lo stomaco sottosopra, e rivolse altrove la sua attenzione per non vomitare.
A qualche passo di distanza, Roran giaceva rannicchiato contro la parete della grotta addosso alla quale era stato scagliato. Sotto lo sguardo preoccupato di Eragon, il cugino riuscì a mettersi carponi e poi in piedi. Aveva gli occhi vitrei e barcollava come un ubriaco.
Alle spalle di Roran, da una delle gallerie emersero i due Ra'zac. Con le mani deformi impugnavano lunghe spade livide di antica fattura. A differenza dei loro genitori, i Ra'zac avevano dimensioni e forma vagamente umane. Erano rivestiti da capo a piedi da un esoscheletro nero come l'ebano, che si intravvedeva a stento, dato che perfino nell'Helgrind indossavano mantelli e cappucci scuri.
Si spostavano con una rapidità impressionante, con improvvisi movimenti a scatti simili a quelli degli insetti.
Eppure Eragon non riusciva ancora a percepirli, e nemmeno i Lethrblaka. Anche loro sono illusioni? si chiese. Ma no, era una sciocchezza: la carne che Saphira lacerava coi suoi artigli era decisamente vera. Allora gli venne in mente un'altra spiegazione: forse era impossibile rilevare la loro presenza. Forse i Ra'zac potevano nascondersi alla mente degli umani - le loro prede - come i ragni si nascondono alle mosche. Se le cose stavano così, allora si capiva come mai i Ra'zac fossero riusciti a dare la caccia a maghi e Cavalieri per conto di Galbatorix, pur non essendo capaci di usare la magia.
Dannazione! Eragon avrebbe potuto trovare imprecazioni molto più colorite, ma quello era il momento di agire, non di maledire la sfortuna. Brom gli aveva detto che i Ra'zac non erano alla sua altezza in piena luce del giorno, e poteva anche essere vero - Brom aveva avuto decine di anni per inventare incantesimi da usare contro i Ra'zac - ma Eragon sapeva che senza il vantaggio della sorpresa lui, Saphira e Roran sarebbero stati fortunati a portare in salvo la pelle, figurarsi Katrina.
Levando in alto la mano destra, Eragon gridò: «Brisingr!» e scagliò una ruggente sfera di fuoco contro i Ra'zac. I mostri la schivarono e la sfera andò a infrangersi contro il pavimento di roccia, sfarfallò per un istante, poi si dissolse. Era stato un incantesimo stupido e infantile, che non avrebbe potuto arrecare alcun danno ai Ra'zac se Galbatorix li aveva protetti come i Lethrblaka. Ma almeno gli diede soddisfazione e distrasse i Ra'zac abbastanza a lungo da permettergli di correre da Roran e mettersi spalle a spalle col cugino.
«Tienili a bada per un minuto» gridò, sperando che Roran lo sentisse. Roran afferrò il senso, perché si riparò con lo scudo e levò il martello preparandosi a combattere.
L'enorme potenza in ogni singolo, terribile colpo dei Lethrblaka aveva già esaurito le difese magiche contro il pericolo fisico che Eragon aveva eretto intorno a Saphira. Senza più barriere a ostacolarli, i Lethrblaka avevano inflitto una serie di graffi - lunghi ma poco profondi - alle cosce della dragonessa e l'avevano infilzata tre volte col becco: ferite piccole, ma profonde e molto dolorose.
Dal canto suo, Saphira aveva aperto uno squarcio nel torace di un Lethrblaka e staccato con un morso buona parte della coda dell'altro. Il sangue dei Lethrblaka, notò Eragon sbigottito, era di un verdazzurro metallico, simile alla patina verdastra che si forma sul rame ossidato.
Le due creature cambiarono tattica e si allontanarono da Saphira, ma continuarono ad accerchiarla, avventandosi su di lei di tanto in tanto per tenerla a bada in attesa che si stancasse o del momento propizio per ucciderla con un colpo di becco.
Saphira era meglio equipaggiata dei Lethrblaka per il combattimento corpo a corpo, grazie alle squame - più dure e resistenti della loro pellaccia grigia - e ai denti - di gran lunga più letali del loro becco in uno scontro ravvicinato - ma in quella situazione, con il basso soffitto della caverna che le dava scarsa libertà di manovra per saltare o volare, aveva non poche difficoltà a tenere testa a due creature che l'attaccavano contemporaneamente. Eragon temeva che se anche avesse avuto la meglio, i Lethrblaka l'avrebbero mutilata prima che lei li uccidesse.
Il giovane Cavaliere trasse un profondo respiro e lanciò un singolo incantesimo che conteneva ciascuna delle dodici tecniche per uccidere che Oromis gli aveva insegnato. Lo formulò con estrema cautela, pronunciando una frase dopo l'altra di modo che, se le difese di Galbatorix lo avessero respinto, avrebbe potuto arrestare il flusso di magia. Altrimenti l'incantesimo avrebbe potuto consumargli le forze fino a ucciderlo.
La precauzione si rivelò quanto mai opportuna. Nel lanciarlo, Eragon si accorse subito che la magia non aveva effetto sui Lethrblaka, e rinunciò all'assalto. Non che si fosse aspettato di avere successo con le tradizionali parole di morte, ma aveva dovuto almeno provarci, nella remota possibilità che Galbatorix avesse commesso qualche errore o negligenza nel creare le difese per i Lethrblaka e la loro progenie.
Alle sue spalle, Roran gridò: «Yah!» Un istante dopo, una spada cozzò sul suo scudo; poi si udirono il tintinnio della maglia metallica che si lacerava e il clangore di una seconda spada che rimbalzava sull'elmo.
Fu così che Eragon si accorse che il suo udito stava migliorando.
I Ra'zac continuavano ad attaccare, ma ogni volta le loro armi scivolavano sull'armatura di Roran, o mancavano il suo volto e il suo corpo di un soffio, anche se mulinavano le lame con una stupefacente rapidità. Roran era troppo lento per contrattaccare, ma i Ra'zac non riuscivano a ferirlo. Sibilavano di frustrazione e sputavano una serie ininterrotta di invettive, che suonavano ancora più immonde per come i becchi duri e chioccianti alteravano le parole.
Eragon sorrise fra sé. Il bozzolo di incantesimi che aveva tessuto intorno a Roran stava funzionando. Sperava che l'invisibile rete di energia reggesse finché lui non avesse trovato il modo di fermare i Lethrblaka.
All'improvviso, i due Lethrblaka strillarono all'unisono, e tutto tremò e si fece grigio intorno a Eragon. Per un istante perse ogni determinazione e non riuscì a muoversi, poi si riebbe, scrollandosi come fanno i cani, per liberarsi dalla loro nefanda influenza. Il suono stridulo gli ricordò due bambini che urlano di dolore.
Allora cominciò a cantare nell'antica lingua, più in fretta che poteva senza rischiare di sbagliare pronuncia. Ogni frase, ed erano una schiera, conteneva il potenziale per provocare una morte istantanea, e ogni morte era diversa dall'altra. Mentre Eragon recitava il suo improvvisato soliloquio, Saphira subì un'altra ferita sul fianco sinistro. Per contro spezzò un'ala del suo aggressore, riducendo con gli artigli la sottile membrana in tante striscioline. Ancora spalle a spalle col cugino, Eragon avvertì i contraccolpi trasmessi dalla schiena di Roran alla sua, mentre i Ra'zac sferravano attacchi in rapida successione. Il più grosso cominciò ad aggirare Roran, nel tentativo di attaccare direttamente Eragon.
Poi, nel frastuono di acciaio contro acciaio e acciaio contro legno, e di artigli contro pietra, si udì lo stridore di una spada che lacerava una maglia, seguito da un rumore liquido. Roran gridò, ed Eragon sentì un fiotto di sangue inzuppargli il polpaccio destro.
Con la coda dell'occhio si accorse che la creatura gibbosa spiccava un salto verso di lui, la spada a lamina puntata come a volerlo impalare. Il mondo parve contrarsi intorno alla lama aguzza e sottile, la punta scintillò come una scheggia di cristallo, ogni graffio un filo d'argento pulsante nella chiara luce dell'alba.
Eragon ebbe il tempo di formulare un solo altro incantesimo prima di dedicarsi al Ra'zac per impedirgli d'infilzarlo con la spada, trafiggendolo tra il fegato e i reni. Cessò l'attacco diretto contro i Lethrblaka e gridò: «Garjzla, letta!»
Era un incantesimo rozzo, evocato in fretta, con poche parole, eppure funzionò. Gli occhi bulbosi del Lethrblaka con l'ala spezzata divennero due ammassi di specchi, ciascuno un emisfero perfetto: la magia di Eragon rifletté la luce che altrimenti sarebbe entrata nelle pupille del Lethrblaka e, accecata, la creatura inciampò, frustando l'aria nel vano tentativo di colpire Saphira.
Eragon fece roteare il bastone di biancospino fra le mani e deviò la spada del Ra'zac quando era a meno di un pollice dalle sue costole. Il Ra'zac atterrò davanti a lui e fece scattare il collo in avanti. Eragon balzò all'indietro quando vide un becco corto e tozzo comparire da sotto il cappuccio. L'appendice chitinosa schioccò a un soffio dal suo occhio destro. Con un singolare distacco, Eragon ebbe modo di notare che la lingua del Ra'zac era violacea, ricoperta di barbigli, e si contorceva come un serpente senza testa.
Unendo le mani al centro del bastone, Eragon spinse avanti le braccia e colpì il Ra'zac sul torace incavato. Il mostro fu scaraventato a diverse iarde di distanza, rimbalzò sulla parete di roccia e atterrò su mani e ginocchia. Eragon aggirò Roran, che aveva il fianco sinistro intriso di sangue, e parò la spada dell'altro Ra'zac. Fece una finta, diede un colpetto alla lama del Ra'zac per provocarlo, e quando il Ra'zac tentò un affondo contro la sua gola, fece mulinare l'altra estremità del bastone e deviò il colpo. Senza un attimo di tregua, Eragon si slanciò in avanti e piantò l'estremità di legno del bastone nell'addome del Ra'zac.
Se Eragon avesse impugnato Zar'roc, la creatura sarebbe morta all'istante. Ma qualcosa si spezzò dentro il Ra'zac, che rotolò sul pavimento della grotta per diversi passi. Subito però si rimise in piedi di scatto, lasciando una scia di sangue bluastro sulla roccia scabra.
Mi serve una spada, pensò Eragon.
Assunse una posizione di attesa mentre i due Ra'zac convergevano su di lui: non aveva scelta se non resistere all'attacco simultaneo, perché era l'unica cosa che si frapponeva fra quei mangiacarogne artigliati e Roran. Cominciò a formulare lo stesso incantesimo che aveva funzionato contro il Lethrblaka, ma i Ra'zac sferrarono una rapida successione di fendenti dal basso e dall'alto prima che lui riuscisse a pronunciare una sola sillaba.
Le spade si abbatterono sul legno di biancospino con un tonfo sordo, ma non riuscirono a intaccare né a graffiare il legno stregato.
Sinistra, destra, in alto, in basso. Eragon non pensava: agiva e reagiva sotto gli affondi incessanti dei Ra'zac. Il bastone era l'ideale per combattere più avversari, perché si poteva colpire e parare con entrambe le estremità, spesso simultaneamente, ed Eragon lo trovò utilissimo in quel frangente. Ansimava; il sudore gli gocciolava dalla fronte e si raccoglieva agli angoli degli occhi; aveva la schiena e le ascelle madide. La foschia rossastra della battaglia gli annebbiava la vista e pulsava al ritmo delle contrazioni del suo cuore.
Non si sentiva mai così vivo, e così spaventato, come quando combatteva.
Le sue difese magiche erano deboli, dato che aveva dedicato la maggior parte della sua attenzione a Saphira e Roran. Quando alla fine si esaurirono, il Ra'zac più piccolo lo ferì al lato esterno del ginocchio sinistro. Non una ferita mortale, ma pur sempre grave, perché la gamba sinistra non riusciva più a sostenere il peso del corpo.
Afferrando il bastone dal puntale, Eragon lo roteò come una mazza e colpì con violenza la testa di un Ra'zac. La creatura crollò a terra, ma era impossibile dire se fosse morta o soltanto svenuta. Avanzando contro il Ra'zac rimasto, Eragon lo colpì alle braccia e alle spalle e, con un'improvvisa torsione del polso, gli fece volare via la spada dalla mano.
Prima che Eragon potesse finirlo, il Lethrblaka accecato e con l'ala rotta attraversò in volo la grotta e si schiantò contro la parete opposta, provocando una pioggia di detriti rocciosi staccatosi dal soffitto. La scena e il fragore furono così impressionanti che Eragon, Roran e il Ra'zac si rannicchiarono d'istinto.
Balzando sul Lethrblaka ferito, che aveva appena colpito con un calcio, Saphira affondò le zanne nella nuca muscolosa della creatura. Il Lethrblaka si dimenò in un estremo tentativo di liberarsi, poi Saphira scrollò la testa da un lato e dall'altro e gli spezzò la spina dorsale. Levandosi al di sopra del cadavere insanguinato, la dragonessa squassò la grotta con un selvaggio ruggito di trionfo.
L'altro Lethrblaka non esitò. Si avventò su Saphira e le affondò gli artigli sotto il bordo delle squame, trascinandola in un vortice incontrollato. Le due creature rotolarono avvinghiate fino all'imboccatura della grotta, rimasero in bilico sul ciglio per un istante e poi piombarono di sotto, continuando a lottare. Allontanarsi dal raggio di azione di Eragon era una tattica astuta da parte del Lethrblaka, perché al giovane era difficile scagliare un incantesimo su ciò che non poteva percepire con almeno uno dei cinque sensi.
Saphira! gridò Eragon.
Pensa a te stesso. Questo non mi sfugge.
Eragon si volse di scatto, appena in tempo per vedere i due Ra'zac svanire nelle viscere della galleria più vicina, il più grande abbandonato contro il più piccolo. Chiuse gli occhi e identificò le menti dei prigionieri dell'Helgrind, mormorò qualche frase nell'antica lingua e poi si rivolse a Roran. «Ho sigillato l'ingresso della cella di Katrina, così i Ra'zac non potranno usarla come ostaggio. Soltanto tu e io possiamo aprire quella porta, adesso.»
«Bene» disse Roran a denti stretti. «Non puoi fare qualcosa per questa?» Col mento indicò il punto che premeva con la mano destra. Il sangue gli scorreva fra le dita. Eragon tastò la ferita. Non appena la toccò, Roran trasalì e fece un salto indietro.
«Sei fortunato» disse Eragon. «La spada ha colpito una costola.» Con una mano sulla ferita e l'altra sui dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio, Eragon attinse al potere che aveva conservato nelle gemme. «Waíse heill!» Una serie di piccole onde increspò il fianco di Roran mentre la magia ricuciva la pelle e il muscolo.
Poi Eragon guarì la propria ferita, lo squarcio sul ginocchio sinistro. Una volta finito, si alzò e guardò verso il punto dov'era scomparsa Saphira. Il loro legame mentale si andava assottigliando via via che la dragonessa si allontanava verso il Lago di Leona all'inseguimento del Lethrblaka. Avrebbe tanto voluto aiutarla, ma sapeva che al momento Saphira avrebbe dovuto cavarsela da sola.
«Sbrigati» disse Roran. «Ci stanno sfuggendo!»
«Giusto.»
Soppesando il bastone, Eragon s'incamminò nella galleria semibuia, con lo sguardo che guizzava da una sporgenza rocciosa all'altra, ben sapendo che i Ra'zac avrebbero potuto tendergli un agguato in ogni momento. Si muoveva adagio, affinché i passi non echeggiassero nel tunnel tortuoso. Quando si appoggiò alla roccia per reggersi, scoprì che era coperta da una sostanza viscida.