Volodyk - Paolini3-Brisingr
Insieme sollevarono la massiccia porta dalla sua intelaiatura e la scagliarono dall'altra parte del corridoio. La galleria di pietra restituì un boato echeggiante. Senza un attimo di esitazione, Roran si precipitò all'interno della cella, illuminata da una singola candela. Eragon lo seguì, mantenendosi a debita distanza.
Katrina si rannicchiò nell'angolo più lontano di una brandina di ferro. «Lasciatemi in pace, schifosi bastardi! Io...» S'interruppe, folgorata, quando Roran si fece avanti. Il suo viso era pallido per la mancanza di sole e striato di sudiciume, ma in quel momento s'illuminò di un tale stupore e di un amore così tenero che Eragon pensò di non aver mai visto tanta radiosa bellezza.
Senza distogliere lo sguardo da Roran, Katrina si alzò e con una mano tremante gli accarezzò una guancia.
«Sei venuto.»
«Sì, sono venuto.»
Roran proruppe in un singhiozzo di gioia mentre la cingeva con le braccia, attirandola a sé. Rimasero persi nel loro abbraccio per un lungo momento.
Poi Roran si ritrasse e la baciò tre volte sulle labbra. Katrina arricciò il naso ed esclamò: «Ti sei fatto crescere la barba!» Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, questa fu così inaspettata - e la ragazza aveva un'espressione tanto turbata e sorpresa - che Eragon ridacchiò sottovoce.
Per la prima volta, Katrina si accorse della sua presenza. Il suo sguardo vagò alle sue spalle, poi si fermò sul suo viso, che studiò con evidente stupore. «Eragon? Sei tu?»
«Sì.»
«È un Cavaliere dei Draghi, adesso» disse Roran.
«Un Cavaliere? Vuoi dire...» Le parole le vennero a mancare; la rivelazione parve turbarla profondamente. Scoccando un'occhiata a Roran, quasi in cerca di protezione, si strinse ancora di più a lui e si spostò dall'altro lato: sembrava che volesse allontanarsi da Eragon. A Roran disse: «Come... come avete fatto a trovarci? Chi altri c'è con voi?»
«Dopo, dopo. Dobbiamo andarcene dall'Helgrind prima che il resto dell'Impero venga a stanarci.»
«Aspettate! E mio padre? L'avete trovato?»
Roran guardò Eragon, poi tornò a guardare Katrina e in tono sommesso le disse: «Siamo arrivati troppo tardi.»
Katrina fu percorsa da un brivido. Chiuse gli occhi, e una lacrima solitaria le scese sulla guancia sudicia, lasciando una scia più chiara. «Così sia.»
Mentre parlavano, Eragon cercava disperato un modo per occuparsi di Sloan, tenendo nascosti i propri pensieri a Saphira; sapeva che la dragonessa avrebbe disapprovato il luogo dove lo stavano portando le sue elucubrazioni. Nella sua mente prendeva forma un piano. Bizzarro, irto di pericoli e incertezze, l'unico realizzabile date le circostanze.
Senza altri indugi, Eragon entrò in azione. Aveva tante cose da fare e pochissimo tempo a disposizione. «Jierda!» esclamò, puntando il dito. Con una pioggia di scintille azzurrognole e frammenti di metallo, gli anelli che cingevano le caviglie di Katrina si spezzarono. La ragazza trasalì, stupefatta.
«Magia...» sussurrò.
«Un incantesimo facile.» Katrina si ritrasse dal suo tocco quando Eragon tese una mano verso di lei. «Katrina, devo assicurarmi che Galbatorix o uno dei suoi maghi non ti abbia stregata con qualche trappola o costretta a giurare delle cose nell'antica lingua.»
«L'antica...»
Roran la interruppe. «Eragon! Fallo quando saremo all'accampamento. Non possiamo più restare qui.»
«No.» Eragon fece un brusco gesto con la mano. «Devo farlo adesso.» Con la fronte aggrottata, Roran si fece da parte e permise a Eragon di mettere le mani sulle spalle di Katrina. «Guardami negli occhi» le disse Eragon. La fanciulla annuì e obbedì.
Era la prima volta che Eragon aveva l'occasione di usare le formule che Oromis gli aveva insegnato per riconoscere l'opera di un altro mago, ed ebbe difficoltà a ricordare ogni singola parola letta sulle pergamene di Ellesméra. I suoi vuoti di memoria erano così gravi che in tre diverse occasioni dovette ricorrere a sinonimi per completare la formula.
A lungo Eragon fissò gli occhi splendenti di Katrina e mormorò frasi nell'antica lingua, esaminando di tanto in tanto - col permesso della ragazza - uno dei suoi ricordi per scoprire se qualcuno li aveva alterati. Fu più delicato che poté, al contrario dei Gemelli, che gli avevano frugato nella mente senza tante cerimonie il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr.
Roran vigilava, camminando avanti e indietro davanti alla porta aperta. A ogni istante la sua agitazione cresceva: si rigirava il martello fra le mani, battendo la testa dell'arnese contro la coscia, come se tenesse il tempo di un brano musicale.
Alla fine Eragon liberò Katrina. «Fatto.»
«Cos'hai trovato?» chiese lei con un filo di voce. Si strinse le braccia intorno al corpo, la fronte solcata da rughe di apprensione, mentre attendeva il verdetto. Il silenzio riempì la cella mentre Roran si fermava davanti alla soglia.
«Niente, se non i tuoi pensieri. Sei libera da qualsiasi incantesimo.»
«Ma certo che è libera» grugnì Roran, e la prese di nuovo fra le braccia.
Insieme, i tre uscirono dalla cella. «Brisingr, iet tauthr» disse Eragon, facendo un cenno al fuoco fatuo che ancora fluttuava sotto la volta del corridoio. Al suo comando, il globo lucente gli sfrecciò sopra la testa, dove rimase a galleggiare come un turacciolo fra le onde.
Eragon li guidò sulla via del ritorno, attraverso il labirinto di gallerie, verso la grotta dov'erano atterrati. Arrancando sulla roccia viscida, vigilava nel timore di un attacco del Ra'zac superstite e nel contempo erigeva difese per proteggere Katrina. Alle sue spalle, sentiva lei e Roran scambiarsi una serie di frasi interrotte. «Ti amo... Horst e gli altri sono salvi... Sempre... Per te... Sì... Sì... Sì... Sì.» La fiducia e l'affetto che li univano erano così profondi che Eragon si sentì pervadere da una dolorosa fitta di struggimento.
Quando furono a una decina di iarde dalla caverna principale, ed era ormai possibile vedere grazie alla fievole luce che ne scaturiva, Eragon spense il fuoco fatuo. Dopo appena qualche passo, Katrina rallentò, si appiattì contro la parete della galleria e si coprì il viso. «Non posso. C'è troppa luce. Mi fa male agli occhi.»
Roran si affrettò a pararsi davanti a lei, proteggendola con la sua ombra. «Quand'è stata l'ultima volta che sei stata all'aperto?»
«Non lo so...» Una traccia di panico s'insinuò nella sua voce. «Non lo so! Mai, da quando mi hanno portata qui. Roran, diventerò cieca?» La fanciulla tirò su col naso e cominciò a piangere.
Le sue lacrime sorpresero Eragon. La ricordava come una donna di grande forza e coraggio. D'altro canto aveva passato molte settimane rinchiusa al buio, senza sapere che cosa la aspettava. Fossi stato in lei, anch'io sarei crollato.
«No, stai bene. Hai solo bisogno di riabituarti alla luce del sole.» Roran le accarezzò i capelli. «Andiamo, non abbatterti. Andrà tutto bene... Sei al sicuro, adesso. Al sicuro, Katrina. Mi senti?»
«Sì.»
Pur detestando l'idea di sciupare una delle tuniche che gli avevano donato gli elfi, Eragon strappò una striscia di tessuto dall'orlo del proprio indumento. La porse a Katrina e disse: «Legatela sugli occhi. Attraverso la stoffa riuscirai a vedere abbastanza da non rischiare di cadere o urtare qualcosa.»
Lei lo ringraziò e si legò la benda sugli occhi.
Ripresero a camminare, e pochi istanti dopo il trio emerse nella caverna inondata di sole e di sangue - più odorosa di prima per i vapori tossici che emanavano dal cadavere del Lethrblaka - proprio mentre Saphira sbucava dall'arco ogivale sulla parete opposta. Nel vederla, Katrina trasalì e si strinse a Roran, affondandogli le dita nella carne del braccio.
Eragon disse: «Katrina, permetti che ti presenti Saphira. Io sono il suo Cavaliere. Ti capisce se le parli.»
«È un onore, o drago» riuscì a dire Katrina, poi piegò le ginocchia in un debole tentativo di riverenza.
Saphira ricambiò con un cenno della testa. Poi si rivolse a Eragon. Ho frugato nel nido dei Lethrblaka, ma non ho trovato altro che ossa, ossa e ancora ossa, comprese alcune che sapevano ancora di carne fresca. I Ra'zac devono aver mangiato gli schiavi la notte scorsa.
Avrei voluto salvarli.
Lo so, ma non possiamo proteggere tutti in questa guerra.
Indicando la dragonessa, Eragon disse agli altri: «Coraggio, salitele in groppa. Io vi raggiungo fra un istante.»
Katrina esitò, poi guardò Roran, che annuì e mormorò: «Va tutto bene. È stata Saphira a portarci qui.» La coppia aggirò il cadavere del Lethrblaka per salire in groppa a Saphira, che si era appiattita sul ventre per facilitare loro il compito. Intrecciando le dita a formare un appoggio, Roran sollevò Katrina, che s'inerpicò sulla zampa di Saphira. Da lì, usò i cappi delle cinghie della sella come i pioli di una scaletta e arrivò sulle spalle della dragonessa, dove sedette a cavalcioni. Come una capra di montagna che balza da una roccia all'altra, Roran fece lo stesso percorso.
Eragon si avvicinò per esaminare Saphira, valutando la gravità delle ferite: unghiate, colpi di becco, tagli, lacerazioni e lividi. Oltre a quello che vedeva, si affidò a ciò che la dragonessa sentiva.
Per amor del cielo, disse Saphira, risparmia le tue attenzioni per quando saremo fuori pericolo. Non sto sanguinando a morte.
Non è del tutto vero, e lo sai. Hai un'emorragia interna. Se non la fermo adesso, rischi di avere complicazioni che non posso guarire, e allora non torneremmo mai dai Varden. Non discutere; io non cambio idea, e non mi ci vorrà nemmeno un minuto.
Alla prova dei fatti, Eragon impiegò parecchi minuti per restituire a Saphira la piena salute. Le ferite erano così gravi che per formulare tutti gli incantesimi necessari fu costretto a svuotare di energia la cintura di Beloth il Savio e perfino a ricorrere alle immense riserve di forza di Saphira. Ogni volta che si spostava da una ferita più grande a una più piccola, la dragonessa protestava, gli diceva che era uno sciocco e lo pregava di lasciarla in pace, ma lui ignorò le sue lamentele.
Alla fine, Eragon si accasciò a terra, esausto per il grande dispendio di energie necessario agli incantesimi curativi e la fatica del combattimento. Indicando i punti dove il Lethrblaka l'aveva trafitta col becco, disse: Dovresti farti controllare da Arya o da qualche altro mago per quelli. Ho fatto del mio meglio, ma potrei aver tralasciato qualcosa.
Apprezzo la tua premura per la mia salute, replicò lei, ma questo non è il luogo per stucchevoli dimostrazioni d'affetto. Una volta per tutte, andiamo!
D'accordo. È ora di partire. Indietreggiando un passo dopo l'altro, Eragon si allontanò da Saphira verso la galleria alle sue spalle.
«Andiamo!» lo chiamò Roran. «Sbrigati!»
Eragon! esclamò Saphira.
Eragon scosse la testa. «No. Io resto qui.»
«Tu...» cominciò a dire Roran, ma fu interrotto dal feroce ringhio di Saphira. La dragonessa frustò con la coda la parete della grotta e artigliò il terreno con le zampe, tanto che ossa e pietra parvero gridare, percorsi da un dolore straziante.
«Ascoltate!» gridò Eragon. «Uno dei Ra'zac è ancora vivo. E pensate a ciò che potrebbe esserci d'altro nell'Helgrind: pergamene, pozioni, informazioni sulle attività dell'Impero... cose che possono rivelarsi molto utili. I Ra'zac potrebbero persino avere delle uova nascoste qui da qualche parte. Se così fosse, devo distruggerle prima che Galbatorix se ne impossessi.»
Poi, rivolto soltanto a Saphira, aggiunse: Non posso uccidere Sloan, né posso permettere che Roran o Katrina lo vedano; non posso lasciarlo morire di fame nella sua cella o permettere che gli uomini di Galbatorix lo catturino di nuovo. Mi dispiace, ma devo occuparmi di lui da solo.
«Come farai a uscire dai confini dell'Impero?» chiese Roran.
«Correrò. Sono veloce come un elfo ormai, lo sai.»
La punta della coda di Saphira ebbe un fremito, ma fu l'unico avvertimento che Eragon ricevette prima che la dragonessa si avventasse su di lui, con una zampa tesa. Eragon s'infilò nel tunnel una frazione di secondo prima che la zampa di Saphira si abbattesse sul punto dov'era fermo.
Saphira si arrestò con uno scivolone davanti all'imbocco della galleria e ruggì, delusa di non poterlo seguire nell'angusto passaggio. La sua mole sbarrava quasi tutta la luce. La roccia tremò intorno a Eragon quando la dragonessa cominciò a sgretolare l'ingresso con le unghie e con i denti, staccando grossi blocchi di pietra. I suoi ringhi ferali e la vista del suo muso, irto di zanne lunghe quanto un avambraccio umano, provocarono a Eragon un brivido di paura. Capì come si deve sentire un coniglio acquattato nel suo rifugio con un lupo che cerca di stanarlo.
«Ganga!» gridò.
No! Saphira posò il muso a terra ed emise un lugubre lamento, gli occhi sgranati e colmi di disperazione.
«Ganga! Ti voglio bene, Saphira, ma dovete andare.»
La dragonessa si ritrasse di qualche iarda dalla galleria e tirò su col naso, miagolando come una gatta. Piccolo mio...
Eragon odiava renderla infelice, e odiava doverla mandare via: era come separarsi da una parte di sé. Il dolore di Saphira che fluiva attraverso il loro legame mentale, unito alla sua stessa angoscia, quasi lo paralizzò. In qualche modo trovò la fermezza per dire: «Ganga! Non tornare indietro a prendermi e non mandare nessuno a cercarmi. Starò bene. Ganga! Ganga!»
Saphira ululò di frustrazione e poi, a malincuore, si avvicinò all'imboccatura della grotta. In sella, Roran disse: «Eragon, andiamo! Non fare lo stupido. Sei troppo importante per rischiare...»
Un vortice di movimento e rumore inghiottì il resto della frase mentre Saphira si lanciava fuori della caverna. Nel cielo limpido le sue squame brillarono come una miriade di diamanti azzurri. Eragon pensò che era magnifica: fiera, nobile, più bella di qualsiasi altra creatura vivente. Nessun cervo o leone poteva competere con la maestà di un drago in volo. Lei disse: Una settimana. È il massimo che ti concedo, Eragon. Poi tornerò a cercarti, dovessi combattere contro Castigo, Shruikan e mille stregoni insieme.
Eragon rimase a guardarla finché non scomparve dalla sua visuale e lui non poté più restarle accanto con la mente. Poi, col cuore pesante come piombo, raddrizzò le spalle, volse la schiena al sole e a tutte le cose vive e luminose, e ricominciò a scendere nei tunnel delle tenebre.