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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Eragon rimase a guardarla finché non scomparve dalla sua visuale e lui non poté più restarle accanto con la mente. Poi, col cuore pesante come piombo, raddrizzò le spalle, volse la schiena al sole e a tutte le cose vive e luminose, e ricominciò a scendere nei tunnel delle tenebre.

CAVALIERE E RA'ZAC

Eragon sedeva immerso nel bagliore freddo del suo fuoco fatuo cremisi, nel corridoio fiancheggiato di celle vicino al cuore dell'Helgrind. Teneva il bastone di traverso sulle gambe.

La sua voce riverberava sulla roccia mentre ripeteva incessantemente una frase nell'antica lingua. Non era magia, ma un messaggio per il Ra'zac superstite. La sostanza era questa: «Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia. Tu sei ferito, e io sono stanco. I tuoi compagni sono morti, e io sono solo. Siamo pari. Ti prometto che non userò la magia contro di te, né ti ferirò o ti intrappolerò con incantesimi già evocati. Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia...»

Il tempo trascorso a parlare gli parve infinito: un vuoto temporale in un'atmosfera spettrale, inalterato per un'eternità di parole ripetute che per lui non avevano più significato né ordine. D'un tratto i suoi pensieri tacquero, ed Eragon si sentì pervadere da una strana calma.

Rimase con la bocca aperta, poi la chiuse e rimase in vigile attesa.

A trenta piedi da lui c'era il Ra'zac. Sangue gli gocciolava dall'orlo del mantello logoro. «Il mio padrone non desssidera che ti uccida» sibilò.

«Ma questo non ha più importanza per te, adesso.»

«No. Ssse cado sssotto i tuoi colpi, che sssia Galbatorix a occuparsssi di te. Lui ha più cuori di te.»

Eragon si mise a ridere. «Cuori? Io sono il campione del popolo, non lui.»

«Ssstupido ragazzo.» Il Ra'zac inclinò la testa di lato, guardando oltre, verso il cadavere dell'altro Ra'zac riverso sul pavimento del tunnel. «Lei era la mia compagna di covata. Sssei diventato più forte dalla prima volta che ci sssiamo incontrati, Ammazzassspettri.»

«Se così non fosse, sarei morto.»

«Sssei disssposto a fare un patto con me, Ammazzassspettri?» «Che genere di patto?»

«Io sssono l'ultimo della mia razza, Ammazzassspettri. Sssiamo antichi e non voglio esssere dimenticato. Nelle tue ssstorie e nelle tue canzoni, ricorderai ai tuoi compagni umani il terrore che issspiravamo nella tua razza?... Ricordaci come patirai»

«Perché dovrei fare questo per te?»

Abbassando il becco sull'esile torace, il Ra'zac ridacchiò e cinguettò qualche istante. «Perché» disse «ti rivelerò un sssegreto, sssì, lo farò.»

«Allora parla.»

«Dammi prima la tua parola, potresssti imbrogliarmi.»

«No. Prima parla tu, poi deciderò se stringere il patto oppure no.»

Passò più di un minuto senza che nessuno dei due si muovesse, anche se Eragon teneva i muscoli tesi, pronto a un attacco a sorpresa. Dopo un'altra serie di ticchettii col becco, il Ra'zac disse: «Ha quasssi ssscoperto il nome.»

«Chi?»

«Galbatorix.»

«Il nome di cosa?»

Il Ra'zac sibilò di frustrazione. «Non possso dirtelo! Il nome! Il vero nome!»

«Mi devi dire di più.»

«Non possso.»

«Allora niente patto.»

«Che tu sssia maledetto, Cavaliere! Che tu non posssa mai trovare tana o rifugio o pace della mente in quesssta tua terra. Che tu posssa lasciare Alagaësssia e non tornare mai più!»

Eragon si sentì rizzare i peli sulla nuca al freddo tocco della paura. Nella sua mente echeggiarono le parole di Angela l'erborista, quando aveva lanciato gli ossi di drago davanti a lui e gli aveva letto il futuro e predetto lo stesso destino.

Una lunga scia di sangue separava Eragon dal suo nemico, che scostò il lembo del mantello fradicio per rivelare un arco con la freccia già incoccata. Con un gesto fulmineo sollevò l'arma e lasciò partire il dardo, mirando al petto di Eragon.

Eragon deviò la freccia con il bastone.

Come se il tentativo non fosse stato altro che un preliminare imposto dall'etichetta prima di passare al vero confronto, il Ra'zac si chinò a posare l'arco per terra, poi raddrizzò la gobba, e con deliberata lentezza sguainò la spada a lamina da sotto il mantello. Nel frattempo Eragon si era alzato per assumere una posizione frontale, con i pugni stretti intorno al bastone.

Si lanciarono l'uno contro l'altro. Il Ra'zac cercò di menare un fendente dalla clavicola all'anca di Eragon, ma il giovane scartò di lato e schivò il colpo. Con un affondo, infilò il puntale metallico del bastone sotto il becco del Ra'zac, insinuandolo fra le placche che proteggevano la gola della creatura.

Il Ra'zac fu scosso da un brivido e stramazzò a terra.

Eragon fissò il suo più odiato nemico, guardò gli occhi neri senza palpebre, e improvvisamente gli cedettero le ginocchia e vomitò, accasciato contro la parete del corridoio. Si asciugò la bocca e liberò il bastone, mormorando: «Per nostro padre. Per la nostra casa. Per Carvahall. Per Brom... Ho avuto la mia vendetta. Che tu possa marcire qui per sempre, Ra'zac.»

Si avviò alla cella di Sloan, si gettò in spalla il macellaio, ancora sprofondato nel sonno stregato, e ripercorse i propri passi per tornare alla grotta principale dell'Helgrind. Lungo la strada, si fermò spesso per adagiare Sloan a terra ed esaminare una stanza o una nicchia che non aveva visitato prima. Scoprì diversi strumenti di tortura e quattro fiaschette di metallo contenenti olio di Seithr, che subito distrusse perché nessun altro potesse usare quell'acido corrosivo per scopi malvagi.

La calda luce del sole gli bruciò le guance quando emerse dal labirinto di gallerie. Trattenendo il fiato, oltrepassò in fretta il cadavere del Lethrblaka e si fermò sul ciglio della vasta caverna. Fece scorrere lo sguardo lungo lo strapiombo dell'Helgrind fino alle colline ai suoi piedi. A ovest vide una nuvola arancione gonfiarsi e muoversi lungo la strada che collegava l'Helgrind a Dras-Leona: cavalli in avvicinamento.

Il lato destro gli faceva male per lo sforzo di sostenere il peso di Sloan, così passò il macellaio sull'altra spalla. Batté le palpebre per liberarsi dalle goccioline di sudore che gli imperlavano le ciglia e si spremette le meningi in cerca di una soluzione al problema di come scendere, con Sloan in spalla, per gli oltre cinquemila piedi che lo separavano dal suolo.

«Quasi un miglio» mormorò. «Se ci fosse un sentiero, potrei scendere facilmente, anche portando Sloan. Dovrò ricorrere alla magia... già, ma in questo caso mi toccherebbe concentrare troppa energia in un periodo di tempo limitato e rischierei di uccidermi. Come mi ha insegnato Oromis, il corpo non è in grado di convertire le proprie riserve in energia tanto in fretta da evocare la maggior parte degli incantesimi per più di qualche secondo. Ho a disposizione soltanto una determinata quantità di energia in una determinata frazione di tempo, e una volta esaurita quella, devo aspettare finché non mi riprendo... E parlare da solo non mi porta da nessuna parte.»

Stringendo la presa su Sloan, Eragon puntò lo sguardo su una stretta cengia a circa cento piedi più in basso. Farà male, pensò, preparandosi al tentativo. Poi latrò: «Audr!»

Si librò di un paio di pollici dal pavimento della grotta. «Fram» disse, e l'incantesimo lo spinse fuori dall'Helgrind nel vuoto, dove rimase sospeso come una nuvoletta solitaria. Pur essendo abituato a volare con Saphira, non vedere altro che aria sotto di sé gli procurava ancora un certo disagio.

Manipolando il flusso di magia, Eragon discese rapidamente dalla tana dei Ra'zac - che la parete illusoria di roccia nascose di nuovo - fino alla cengia. Quanto atterrò, lo stivale gli scivolò su una pietra viscida. Per una manciata di terrificanti secondi, agitò il braccio libero per recuperare l'equilibrio, ma non guardò di sotto per paura di sbilanciarsi. La gamba sinistra gli scivolò oltre il bordo della cengia, facendolo sbandare di lato. Gridò. Ma prima che potesse ricorrere alla magia per salvarsi, la caduta si arrestò bruscamente perché il piede sinistro si era infilato in una fessura della roccia. I bordi della spaccatura gli affondarono nel polpaccio dietro il gambale, ma lui non ci badò, perché in quel modo almeno il volo si era interrotto.

Eragon appoggiò la schiena all'Helgrind, usando la parete di roccia per sostenere il corpo inerte di Sloan. «Non è andata troppo male» si disse. Lo sforzo gli era costato, ma non tanto da non poter continuare. «Ce la faccio.» Inspirò aria fresca, aspettando che i battiti del cuore rallentassero; gli sembrava di aver corso venti iarde di scatto, con Sloan in spalla. «Ce la faccio...»

Gli uomini a cavallo catturarono di nuovo la sua attenzione. Erano parecchio più vicini rispetto a poco prima e galoppavano sull'arido terreno a un ritmo preoccupante. È una gara fra loro e me, pensò. Devo riuscire a fuggire prima che raggiungano l'Helgrind. Di sicuro ci sono dei maghi fra di loro, e io non sono in condizione di combattere gli stregoni di Galbatorix. Scoccando un'occhiata alla faccia inespressiva di Sloan, disse: «Magari tu puoi darmi una mano, eh? È il minimo che puoi fare, considerando che rischio la vita e, peggio ancora, la sto rischiando per te.» La testa del macellaio addormentato ciondolò; l'uomo era smarrito nel suo mondo di sogni.

Con un grugnito, Eragon si staccò dalla parete dell'Helgrind. Disse di nuovo «Audr» e di nuovo si levò in aria. Questa volta ricorse alla forza di Sloan - per quanto esigua - oltre che alla propria. Insieme planarono come due strani uccelli lungo il fianco accidentato dell'Helgrind, verso un'altra cengia abbastanza larga da offrire un appoggio sicuro.

Fu in questo modo che Eragon orchestrò la discesa. Non procedeva in linea retta, ma tenendo un'angolatura che lo fece curvare a destra intorno all'Helgrind, affinché la sua mole li nascondesse ai cavalieri.

Più si avvicinavano al suolo, più rallentavano. La stanchezza prese il sopravvento, riducendo la distanza che Eragon poteva percorrere in un unico tratto, e gli era sempre più difficile recuperare nelle pause tra uno sforzo e l'altro. Perfino alzare un dito ormai gli costava una fatica enorme, e fu avvolto nelle calde pieghe di una strana nebbia che gli ottenebrava i sensi e i pensieri, tanto che persino la roccia più dura gli parve soffice come un cuscino per riposare i muscoli indolenziti.

Quando alla fine toccò il terreno riarso dal sole - troppo stanco per non franare nella polvere con Sloan in spalla - Eragon rimase con le braccia ripiegate sotto il torace e fissò con gli occhi ridotti a fessure le gialle inclusioni di citrino nel piccolo sasso a un paio di pollici dal suo naso. Sloan gli pesava sulla schiena come una pila di lingotti di ferro. L'aria gli uscì sibilando dai polmoni, ma parve non voler rientrare. La vista gli si oscurò come se una nuvola avesse coperto il sole. Un intervallo letale separava ogni battito del suo cuore, e quando arrivava, la pulsazione non era più forte di un fievole sfarfallio.

Eragon non era più capace di pensieri coerenti, ma in un angolo remoto del cervello era consapevole che stava morendo. Non aveva paura: al contrario, la prospettiva lo confortava, perché era stanco oltre ogni dire, e la morte lo avrebbe liberato dal suo logoro involucro di carne donandogli finalmente il riposo eterno.

D'un tratto sopra la sua testa arrivò un bombo grosso quanto il suo pollice. L'insetto gli volò intorno all'orecchio, poi si fermò sul sasso saggiando i cristalli di citrino, che erano dello stesso giallo brillante dei fiori di campo sulle colline. La peluria del bombo riluceva nel fulgore del mattino - ogni setola si stagliava nitida davanti agli occhi di Eragon - e le ali frementi producevano un delicato ronzio. Le zampette erano impolverate di polline.

Il bombo era così vibrante di vita e così bello che la sua presenza infuse in Eragon una nuova voglia di vivere. Un mondo che conteneva una creatura così stupefacente come quel bombo era un mondo in cui valeva la pena di vivere.

Con la sola forza di volontà, liberò la mano sinistra da sotto il torace e afferrò lo stelo legnoso di un arbusto vicino. Come una sanguisuga o una zecca o un altro parassita, estrasse la vita dalla pianta, lasciandola vizza e floscia. Il flusso di energia che lo percorse gli fece tornare il senno: adesso aveva paura. Oltre al desiderio di vivere appena riconquistato, non provava altro che terrore.

Trascinandosi sui gomiti, afferrò un altro arbusto e ne trasferì la vitalità nel proprio corpo, poi un terzo e un quarto, e così via, fino a riguadagnare completamente le forze. Si alzò e si guardò indietro: sentì un sapore amaro in bocca quando vide la scia di piante morte che aveva lasciato alle sue spalle.

Eragon sapeva di aver abusato della magia e che il suo comportamento avrebbe condannato i Varden a una sicura sconfitta se lui fosse morto. Col senno di poi, si vergognò della propria stupidità. Brom mi avrebbe strappato le orecchie per come mi sono cacciato in questo pasticcio, pensò.

Tornò da Sloan e riprese in spalla il macellaio ancora inerte. Poi si avviò a grandi balzi verso est, allontanandosi dall'Helgrind verso il riparo del letto di un torrente asciutto. Dieci minuti dopo, quando si fermò per controllare gli inseguitori, vide una nube di polvere turbinare alla base dell'Helgrind, segno che i cavalieri erano arrivati alla nera torre di roccia.

Eragon sorrise. Gli emissari di Galbatorix erano troppo lontani perché eventuali stregoni tra le loro fila potessero individuare la mente sua o di Sloan. Prima che abbiano il tempo di scoprire i cadaveri dei Ra'zac, pensò, avrò già percorso almeno una lega o due. Per giunta quelli cercano un drago e il suo Cavaliere, non un uomo che viaggia a piedi.

Lieto di non doversi preoccupare di un attacco imminente, Eragon riprese il suo ritmo di corsa, una falcata fluida e costante che avrebbe potuto mantenere per l'intera giornata.

Sopra di lui il sole splendeva caldo e abbagliante. Davanti a lui una natura arida e selvaggia si estendeva per miglia e miglia prima di lambire i margini di qualche villaggio sperduto. E nel suo cuore ardevano una nuova gioia e una nuova speranza.

Almeno i Ra'zac erano morti!

Alla fine la sua sete di vendetta era stata placata. Alla fine aveva estinto il suo debito con Garrow e Brom. E alla fine si era liberato del sudario di paura e di rabbia che lo aveva avvolto da quando i Ra'zac erano comparsi per la prima volta a Carvahall. Per ucciderli si era spinto più lontano di quanto avesse previsto, ma l'avventura era conclusa, ed era stata una grande avventura. Si crogiolò nella soddisfazione di aver portato a termine quella difficile impresa, pur con l'aiuto di Roran e Saphira.

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