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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Malgrado ciò, si rese conto con sorpresa che il suo trionfo aveva un sapore dolceamaro, contaminato da un inspiegabile senso di perdita. La caccia ai Ra'zac era stata uno degli ultimi legami con la sua vita nella Valle Palancar, ed era riluttante ad abbandonarlo, nonostante fosse zuppo di sangue. La vendetta gli aveva dato uno scopo nella vita quando non ne aveva nessuno: era la ragione che lo aveva spinto ad abbandonare casa. Ma ora dentro di lui si era creato un vuoto dove prima aveva covato l'odio per i Ra'zac.

Il fatto di poter rimpiangere la fine di una missione così terribile lo atterrì, ed Eragon giurò a se stesso che non avrebbe più commesso lo stesso errore. Non mi farò ossessionare dalla lotta contro l'Impero e Murtagh e Galbatorix al punto da non volermi dedicare a nient'altro, quando e se il momento arriverà... o peggio, al punto da cercare di prolungare il conflitto piuttosto che adattarmi a quello che mi aspetta dopo. Decise quindi di ignorare quel suo malsano rimpianto e di concentrarsi sul sollievo: sollievo per essere finalmente libero dai biechi obblighi della vendetta che si era imposto e per dover assolvere soltanto quelli legati alla sua attuale situazione.

L'euforia gli alleggerì il passo. Con la fine dei Ra'zac, Eragon sentiva di poter finalmente vivere la sua vita fondandola non su chi era stato, ma su chi era diventato: un Cavaliere dei Draghi.

Sorrise all'orizzonte frastagliato, e mentre correva si mise a ridere, incurante del rischio di essere sentito. La sua voce riverberò fra le sponde del torrente in secca, e tutto ciò che aveva intorno gli parve nuovo, bellissimo e pieno di promesse.

GIUDIZIO E CONDANNA

Lo stomaco di Eragon brontolò.

Giaceva sulla schiena, le gambe ripiegate sotto le ginocchia - un esercizio per allungare i muscoli delle cosce dopo aver corso più a lungo e recando un peso maggiore di quanto gli fosse mai capitato prima - quando il sonoro borbottio eruppe dalle sue viscere.

Il rumore fu così inaspettato che Eragon si alzò a sedere di scatto, cercando il bastone a tentoni.

Il vento fischiava sulla landa deserta. Il sole era tramontato e senza la sua luce tutto aveva assunto una sfumatura blu e viola. Nulla si muoveva, tranne i fili d'erba nella brezza e Sloan, che apriva e chiudeva le dita in risposta a chissà quale visione nel suo sonno stregato. Un freddo pungente annunciava l'arrivo della vera notte.

Eragon si rilassò e si concesse un lieve sorriso.

La sua allegria si spense non appena si rese conto del motivo del suo disagio. Combattere i Ra'zac, evocare incantesimi e portare il peso morto di Sloan in spalla per la maggior parte della giornata gli aveva fatto venire una tale fame che se avesse potuto viaggiare indietro nel tempo avrebbe divorato l'intero banchetto che i nani avevano preparato in suo onore durante la visita a Tarnag. Il ricordo dell'aroma del Nagra arrostito - il cinghiale gigante - caldo, fragrante, condito di miele e spezie, grondante di lardo, gli fece venire l'acquolina in bocca.

Il problema era la mancanza di viveri. Procurarsi l'acqua era facile: gli bastava estrarre l'umidità dal terreno ogni volta che ne sentiva il bisogno. Ma trovare del cibo in quella terra desolata era molto più difficile, e per giunta lo poneva di fronte a un dilemma morale che aveva sperato di evitare.

Oromis aveva dedicato molte lezioni ai diversi climi e alle varie regioni geografiche di Alagaësia. Perciò quando Eragon si allontanò dal bivacco per studiare l'area attorno riuscì a riconoscere la maggior parte delle piante che incontrò sul suo cammino. Soltanto un paio erano commestibili e di queste nessuna era abbastanza grande o abbondante da offrire a due uomini adulti un pasto decente in un ragionevole lasso di tempo. Gli animali del posto avevano nascosto scorte di bacche e frutti nelle loro tane, ma Eragon non aveva idea di dove cercare. Né pensava che un topo del deserto avesse potuto ammassare più di qualche boccone di cibo.

Non gli restavano che due possibilità, nessuna delle quali lo allettava. Poteva - come aveva fatto in precedenza - estrarre energia dalle piante e dagli insetti intorno al bivacco. Il prezzo sarebbe stato lasciare una zona morta, una piaga della terra dove niente, nemmeno il più piccolo organismo, sarebbe sopravvissuto. Per giunta, anche se utili a lui e Sloan, le trasfusioni di energia erano ben poco gratificanti, perché non riempivano lo stomaco.

Oppure poteva andare a caccia.

Eragon aggrottò la fronte e infilò il puntale del bastone nel terreno, scavando una piccola buca. Dopo aver condiviso pensieri e desideri di tanti animali, l'idea di mangiarne uno gli ripugnava. Malgrado ciò non poteva correre il rischio d'indebolirsi e di farsi catturare dall'Impero solo per risparmiare la vita di un coniglio. Come avevano sottolineato sia Saphira che Roran, ogni essere vivente sopravvive cibandosi di altri esseri viventi. Il nostro è un mondo crudele, pensò, e non sarò io a cambiare le cose... Gli elfi possono anche avere le loro ragioni per astenersi dalla carne, ma al momento io ne ho un gran bisogno. Non voglio sentirmi in colpa se le circostanze mi impongono questa scelta. Non è un crimine assaporare un po' di pancetta o una trota o quello che si ha davanti.

Nonostante gli argomenti che trovava per giustificarla, l'idea continuava a disgustarlo. Per quasi mezz'ora rimase impalato dov'era, incapace di fare quello che la logica gli diceva essere necessario. Poi si accorse di quanto era tardi e si rimproverò di aver perso tempo: aveva bisogno di ogni minuto di riposo ancora a disposizione.

Facendosi forza, Eragon diffuse tentacoli di coscienza nel territorio circostante finché non riconobbe due grosse lucertole e una colonia di roditori raggomitolati in una tana di sabbia: uno strano incrocio fra un ratto, un coniglio e uno scoiattolo. «Deyja» disse Eragon, e uccise le lucertole e uno dei roditori. Le creature morirono all'istante, senza soffrire, ma il giovane digrignò i denti nell'estinguere le luminose fiammelle delle loro menti.

Recuperò le lucertole con le sue mani, rovesciando i sassi sotto cui stavano nascoste, ma estrasse il roditore dalla sua tana con la magia. Fu attento a non svegliare gli altri animali mentre attirava il cadavere in superficie; gli sembrava crudele terrorizzarli con la consapevolezza che un predatore invisibile poteva ucciderli anche nella tana più remota.

Sventrò, scuoiò e pulì le lucertole e il roditore, seppellendo i resti in una buca profonda per nasconderli ai mangiacarogne. Raccolse qualche sasso piatto e rotondo da disporre in circolo e accese un fuoco su cui cominciò ad arrostire la carne. Senza sale non poteva condire il cibo a dovere, ma alcune delle piante locali sprigionarono un gradevole aroma quando le sbriciolò fra le dita, le strofinò sulle carcasse e le infilò qua e là a ciuffetti.

Il roditore fu il primo a cuocere, essendo più piccolo delle lucertole. Eragon lo tolse dal fuoco e lo portò alla bocca. Fece una smorfia, e sarebbe rimasto paralizzato in una morsa di repulsione se non avesse dovuto occuparsi del fuoco e delle lucertole. Le due attività lo distrassero al punto che, senza pensarci, obbedì all'imperativo della fame e mangiò.

Il primo morso fu il peggiore: il pezzo di carne gli rimase bloccato in gola, e il sapore del grasso caldo minacciò di farlo vomitare. Rabbrividì, deglutì a vuoto due volte, e la nausea passò. Dopo fu più facile. In un certo senso era contento che la carne fosse insipida, perché la mancanza di gusto lo aiutava a dimenticare che cosa stava masticando.

Consumò tutto il roditore e parte di una lucertola. Strappando coi denti l'ultimo morso da una coscia sottile, sospirò di soddisfazione, poi esitò, turbato nel rendersi conto che, suo malgrado, si era goduto il pasto. Aveva avuto tanta fame che la misera cena gli era sembrata deliziosa, una volta superate le remore. Magari, pensò, quando tornerò... se sarò invitato alla tavola di Nasuada, o a quella di re Orrin, e verrà servita della carne... magari, se ne ho voglia, e se rifiutare fosse una scortesia, potrei assaggiarne qualche boccone... Non mangerò carne come facevo un tempo, ma sull'argomento non sarò rigido come gli elfi. La moderazione è una politica più saggia dell'intransigenza, credo.

Alla luce della brace del falò, Eragon studiò le mani di Sloan: il macellaio era sdraiato a un paio di iarde di distanza, dove Eragon l'aveva adagiato. Un reticolo di sottili cicatrici bianche gli solcava le lunghe dita ossute, con le nocche sporgenti e le unghie lunghe, che ai tempi di Carvahall erano sempre meticolosamente curate, ora spezzate, frastagliate e intrise di sudiciume. Le cicatrici erano la testimonianza degli errori, pochi, per la verità, commessi da Sloan negli anni in cui aveva maneggiato i coltelli. La pelle era rugosa e segnata dal tempo, con le vene che sporgevano come vermi bluastri, eppure i muscoli al di sotto erano duri e tonici.

Eragon si sedette a gambe incrociate e posò le braccia sulle ginocchia. «Non posso lasciarlo andare» mormorò. Se lo avesse fatto, Sloan avrebbe potuto rintracciare Roran e Katrina, una prospettiva che Eragon riteneva inaccettabile. Per giunta, anche se non aveva intenzione di uccidere Sloan, credeva che il macellaio meritasse comunque una punizione per i suoi crimini.

Eragon non era stato particolarmente amico di Byrd, ma sapeva che era un brav'uomo, un lavoratore onesto, e ricordava con affetto la moglie di Byrd, Felda, e i loro figli, dato che lui, Garrow e Roran avevano mangiato e dormito a casa loro in diverse occasioni. L'assassinio di Byrd perciò rappresentava un atto particolarmente crudele ai suoi occhi; era convinto che la famiglia della sentinella meritasse giustizia, una giustizia di cui non avrebbe mai saputo.

Ma quale poteva essere la giusta punizione? Non ho alcuna intenzione di fare il boia, pensò Eragon, ma solo l'arbitro. Non so nulla di leggi.

Si alzò, si avvicinò a Sloan e si chinò per mormorargli all'orecchio: «Vakna.»

Con un sussulto, Sloan si svegliò, artigliando il terreno con le mani scheletriche. Quel poco di pelle che restava delle palpebre tremolò per istinto, come se il macellaio volesse aprirle per guardarsi intorno. Invece rimase intrappolato nella sua tenebra.

Eragon disse: «Tieni, mangia questo.» E spinse l'altra metà della sua lucertola verso Sloan, che non poteva vedere il cibo ma di sicuro ne aveva sentito il profumo.

«Dove sono?» chiese Sloan. Con le mani tremanti cominciò a tastare le rocce e le piante davanti a sé. Si toccò i polsi e le caviglie, e quando scoprì che non aveva più i ceppi gli si dipinse in volto un'espressione confusa.

«Gli elfi... e anche i Cavalieri dei tempi che furono... chiamavano questo posto Mírnathor. I nani lo definiscono Werghadn, e gli umani Landa Grigia. Ma se questo non risponde alla tua domanda, ti dirò che ci troviamo parecchie leghe a sud-est dell'Helgrind, dov'eri prigioniero.»

Sloan mormorò la parola Helgrind solo con le labbra. «Sei stato tu a liberarmi?»

«Sì.»

«E mia...»

«Basta con le domande. Prima mangia.»

Il suo tono aspro ebbe sul macellaio l'effetto di una frustata: Sloan trasalì e afferrò con le dita incerte la lucertola. Eragon lasciò la presa e tornò al suo posto accanto al falò, dove raccolse manciate di terriccio da gettare sulla brace per impedire al bagliore arancione di tradire la loro presenza, nell'improbabile caso che qualcuno passasse nelle vicinanze.

Dopo un timido boccone iniziale per capire che cosa aveva in mano, Sloan affondò i denti nella lucertola e strappò un grosso pezzo dalla carcassa. A ogni morso s'infilava in bocca quanta più carne poteva, e masticava solo una o due volte prima di mandare giù e ricominciare. Ripulì ogni osso con la maestria di un uomo che conosceva profondamente com'erano fatti gli animali e qual era il modo più rapido per sezionarli, e li accumulò in una pila ordinata alla sua sinistra. Quando l'ultimo boccone - la coda della lucertola - svanì nella pancia di Sloan, Eragon gli porse l'altro rettile ancora intero. Sloan grugnì un ringraziamento e continuò a ingozzarsi, senza nemmeno asciugare il grasso che gli colava sul mento.

La seconda lucertola era troppo grossa perché il macellaio riuscisse a finirla. Si fermò a metà della cassa toracica, e posò il resto della carcassa sul cumulo di ossa. Poi raddrizzò la schiena, si passò il dorso della mano sulla bocca, si scostò i capelli dietro le orecchie e disse: «Ti ringrazio, straniero, per la tua ospitalità. Era tanto tempo che non mangiavo come si deve e quasi apprezzo più il tuo cibo che la libertà... Se posso chiedertelo, conosci mia figlia Katrina e sai cosa le è successo? Era prigioniera con me nell'Helgrind.» Dalla sua voce trapelava un misto di emozioni: rispetto, timore e sottomissione in presenza di un'autorità sconosciuta; speranza e trepidazione per il destino di sua figlia; e una determinazione incrollabile, come le montagne della Grande Dorsale. L'unico elemento che Eragon si aspettava di sentire, e invece mancava, era lo sprezzo beffardo con cui Sloan era solito rivolgersi a lui quando si incontravano a Carvahall.

«È con Roran.»

Sloan rimase a bocca aperta. «Roran! Come ha fatto ad arrivare fin qui? I Ra'zac hanno preso anche lui? Oppure...»

«I Ra'zac e le loro cavalcature sono morti.»

«Li hai uccisi? Come?... Chi...» Per un istante, Sloan rimase pietrificato, come se stesse balbettando con tutto il corpo, poi le guance e la bocca si afflosciarono, le spalle s'incurvarono e dovette aggrapparsi a un arbusto per sostenersi. Scosse la testa. «No, no, no... No... Non può essere. I Ra'zac ne parlavano; pretendevano risposte che io non avevo, ma pensavo... Voglio dire, chi mai avrebbe creduto...» Sloan ansimava con una tale violenza che Eragon temette che si sarebbe sentito male. Con un filo di voce, come costretto a parlare dopo aver ricevuto un pugno allo stomaco, Sloan mormorò: «Tu non puoi essere Eragon.»

Eragon fu pervaso da una sensazione di destino ineluttabile, come fosse diventato lo strumento di quel signore spietato, e rispose di conseguenza, parlando con deliberata lentezza, affinché ogni parola colpisse con la forza di un maglio e trasmettesse tutta la potenza della sua dignità, della sua posizione e della sua collera. «Io sono Eragon e molto di più. Sono Argetlam e Ammazzaspettri e Spadarossa. Il mio drago è Saphira, conosciuta anche come Bjartskular e Lingua di Fuoco. Siamo stati allievi di Brom, che fu Cavaliere prima di noi, e dei nani e degli elfi. Abbiamo combattuto gli Urgali e uno Spettro e Murtagh, che è il figlio di Morzan. Serviamo i Varden e i popoli di Alagaësia. E ti ho portato qui, Sloan Aldensson, per emettere la condanna che ti meriti, assassino di Byrd e traditore di Carvahall.»

«Tu menti! Non puoi...»

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