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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Tu menti! Non puoi...»

«Mentire?» ruggì Eragon. «Io non mento!» Espandendo di colpo la mente, avvolse la coscienza di Sloan nella propria e costrinse il macellaio ad accettare ricordi che confermavano la verità delle sue affermazioni. Voleva anche che Sloan percepisse il suo potere e capisse che non era più interamente umano. E pur riluttante ad ammetterlo, Eragon godette nell'esercitare il controllo su un uomo che gli aveva spesso creato problemi e lo aveva tormentato con il suo scherno e con gli insulti rivolti sia a lui che alla sua famiglia. Mezzo minuto dopo si ritrasse.

Sloan continuò a tremare, ma non crollò a terra implorante come Eragon aveva pensato. Al contrario, l'atteggiamento del macellaio si fece duro e glaciale. «Maledizione» disse. «Non ti devo nessuna spiegazione, Eragon Figlio di Nessuno. Ma sappi questo: ho fatto quello che ho fatto per amore di Katrina, e nient'altro.»

«Lo so. Ed è l'unica ragione per cui sei ancora in vita.»

«Allora fa' di me quello che vuoi. Non m'importa, basta che lei sia sana e salva... Be', avanti! Cosa mi aspetta? Frustate? Una marchiatura a fuoco? Mi hanno già strappato gli occhi, che ne diresti di prendermi una mano? Oppure mi lascerai qui a morire di fame, o alla mercé degli uomini dell'Impero?»

«Non ho ancora deciso.»

Sloan annuì con un brusco cenno del capo e si strinse negli abiti logori per ripararsi dal freddo della notte. Se ne stava seduto impettito, con un cipiglio militaresco, fissando con le nere orbite vuote le ombre che lambivano il bivacco. Non supplicò. Non chiese pietà. Non negò i propri crimini né cercò di blandire Eragon. Si limitò a restare seduto in attesa, armato di un perfetto stoicismo.

Il suo coraggio impressionò Eragon.

La buia landa desolata che li circondava sembrava sconfinata, e al tempo stesso dava a Eragon la sensazione che convergesse su di lui, una sensazione che accrebbe la sua ansia per la decisione che doveva prendere. Il mio verdetto influirà sul resto della sua vita, pensò.

Abbandonando per un momento il problema della punizione, Eragon si soffermò a pensare alle cose che conosceva di Sloan: l'immenso amore del macellaio per Katrina - per quanto ossessivo, egoista e malsano, un tempo era stato puro e misurato; il suo odio e il suo timore per la Grande Dorsale, fonte del suo cordoglio per la moglie defunta, Ismira, che era caduta sfracellandosi fra quei picchi ammantati di nubi; il suo allontanamento dai restanti rami della famiglia; il suo orgoglio nel lavoro; le storie che Eragon aveva sentito sull'infanzia di Sloan; e l'esperienza stessa di Eragon su ciò che significava vivere a Carvahall.

Eragon raccolse quell'insieme di nozioni sparse e frammentarie e cominciò a studiarle, come se fossero le tessere di un mosaico da ricomporre. Non sempre ci riuscì, ma insistette, e alla fine tracciò una miriade di collegamenti fra gli eventi e le emozioni della vita di Sloan, e da qui costruì un'intricata ragnatela, il cui disegno rappresentava la vera essenza di Sloan. Una volta tessuto l'ultimo filo della ragnatela, Eragon ebbe la sensazione di aver finalmente compreso le ragioni del comportamento di Sloan. E per questo provò compassione.

Anzi, più che compassione: sentiva di capire Sloan, di aver isolato gli elementi fondamentali della sua personalità, quegli aspetti che non si possono eliminare senza cambiare irrevocabilmente la persona. A quel punto gli vennero in mente tre parole nell'antica lingua che sembravano incarnare Sloan e, senza pensarci, le mormorò sottovoce.

Era impossibile che Sloan le avesse sentite, eppure il macellaio si mosse, le sue mani abbandonate sulle cosce si contrassero e sul suo viso comparve una smorfia di disagio.

Eragon sentì un gelido formicolio al fianco sinistro, e gli venne la pelle d'oca sulle braccia e sulle gambe mentre osservava il macellaio. Prese in considerazione diverse spiegazioni per la reazione di Sloan, ciascuna più complicata della precedente, ma soltanto una sembrava plausibile, e al tempo stesso assai improbabile. Sussurrò le tre parole ancora una volta. E ancora una volta Sloan si agitò, ed Eragon lo sentì borbottare: «... mi è passata vicino la morte.»

Eragon si lasciò sfuggire un sospiro tremante. Non riusciva ancora a crederci, ma il suo esperimento non lasciava spazio ad altri dubbi: per puro caso, si era imbattuto nel vero nome di Sloan. La scoperta lo turbò profondamente. Conoscere il vero nome di qualcuno era una pesante responsabilità, poiché conferiva potere assoluto su quella persona. A causa dei rischi connessi, gli elfi rivelavano di rado il proprio vero nome, e quando lo facevano, era solo davanti a coloro di cui si fidavano senza riserve.

Eragon non aveva mai conosciuto il vero nome di nessuno prima di allora. Si era sempre aspettato che, se un giorno fosse capitato, sarebbe stato un dono da parte di qualcuno che amava. Carpire il vero nome di Sloan senza il suo permesso era una svolta negli eventi a cui Eragon era impreparato, un evento che non sapeva come controllare. Poi pensò che per aver indovinato il vero nome di Sloan doveva aver compreso il macellaio molto meglio di quanto capisse se stesso, perché non aveva la più pallida idea di quale fosse il proprio.

Quella rivelazione fu come una doccia fredda. Sospettava che - data la natura dei suoi nemici - non sapere tutto di sé avrebbe potuto rivelarsi fatale. Giurò allora di dedicare più tempo all'introspezione e alla scoperta del proprio vero nome. Forse Oromis e Glaedr sapranno dirmelo, pensò.

Quali che fossero i dubbi e le incertezze suscitati dal vero nome di Sloan, la rivelazione gli fece nascere un abbozzo di idea su che cosa fare del macellaio. Una volta elaborato il concetto di base, impiegò un'altra decina di minuti per rifinire il piano e assicurarsi che funzionasse nella maniera voluta.

Sloan inclinò la testa dalla sua parte quando Eragon si alzò dal bivacco e si allontanò nella notte rischiarata dalle stelle. «Dove vai?» chiese Sloan.

Eragon non rispose.

Camminò nella landa desolata fino a trovare un macigno basso e piatto, coperto di licheni, con un incavo al centro. «Adurna rïsa» disse. Intorno al masso, una miriade di minuscole gocce d'acqua filtrarono dal terreno e si condensarono in tanti rivoletti d'argento che risalirono il macigno e si raccolsero nello spazio concavo. Quando l'acqua cominciò a traboccare e a tornare nel terreno, solo per essere riportata in superficie dal suo incantesimo, Eragon recise il flusso di magia.

Aspettò che la superficie dell'acqua diventasse perfettamente immobile - tanto da sembrare uno specchio in cui si riflettevano le stelle del firmamento - e poi disse «Draumr kópa» e molte altre parole, recitando un incantesimo che gli avrebbe permesso non solo di vedere una persona a distanza, ma anche di parlare con lei. Oromis gli aveva insegnato le variazioni della divinazione due giorni prima che lui e Saphira partissero da Ellesméra per il Surda.

L'acqua si fece tutta nera, quasi che qualcuno avesse spento le stelle come candele. Uno o due secondi dopo, una forma ovale scintillò al centro dell'acqua ed Eragon vide l'interno di una grande tenda bianca, illuminata dalla luce senza fiamma di una Erisdar rossa, una delle lanterne magiche degli elfi.

Di norma, Eragon non sarebbe stato capace di divinare una persona o un luogo che non aveva mai visto prima, ma lo specchio degli elfi era stato stregato per trasmettere un'immagine di quanto lo circondava a chiunque lo avesse evocato. Allo stesso modo, l'incantesimo di Eragon avrebbe proiettato un'immagine di se stesso e dell'ambiente dove si trovava sulla superficie dello specchio. Questo consentiva a estranei di entrare in relazione reciproca da qualsiasi punto della terra, una facoltà molto preziosa in tempi di guerra.

Un elfo longilineo, dai capelli d'argento e dall'armatura ammaccata, entrò nel campo visivo di Eragon, che riconobbe in lui Lord Däthedr, uno dei consiglieri della regina Islanzadi, un amico di Arya. Se Däthedr rimase sorpreso nel vedere Eragon, non lo mostrò; chinò il capo, si toccò le labbra con l'indice e il medio della mano destra, e disse con la sua voce flautata: «Atra esterní ono thelduin, Eragon Shur'tugal.»

Passando mentalmente all'antica lingua, Eragon ripeté il gesto con le dita e disse: «Atra du evarínya ono varda, Däthedrvodhr.»

Däthedr disse, ancora nella sua lingua madre: «Sono lieto di vedere che stai bene, Ammazzaspettri. Arya Dröttningu ci ha informati della tua missione qualche giorno fa, e siamo stati molto in pensiero per la tua sorte e per quella di Saphira. Confido che sia andato tutto bene.»

«Sì, ma ho incontrato un problema imprevisto e, se posso, vorrei consultarmi con la regina Islanzadi per chiederle il suo saggio parere.»

Gli occhi da gatto di Däthedr si ridussero a due fessure ancora più sottili e oblique, che gli diedero un'espressione feroce e indecifrabile. «So che non lo chiederesti se non fosse della massima importanza, Eragon-vodhr, ma attento: la corda troppo tesa di un arco può facilmente spezzarsi e ferire l'arciere, non solo scoccare la freccia... Se così ti aggrada, allora aspetta, e andrò a chiamare la regina.»

«Aspetterò. Ti sono riconoscente per l'aiuto, Däthedrvodhr.» Quando l'elfo volse le spalle allo specchio, Eragon fece una smorfia. Detestava il formalismo degli elfi, e detestava ancora di più la fatica d'interpretare le loro frasi enigmatiche. Voleva avvertirmi che fare piani e progetti alle spalle della regina è un passatempo pericoloso o che Islanzadi è una corda tesa pronta a spezzarsi? O voleva dire tutt'altra cosa?

Almeno sono riuscito a trovare gli elfi, pensò Eragon. Gli incantesimi di protezione degli elfi impedivano a chiunque di entrare nella Du Weldenvarden con espedienti magici, compresa l'arte della divinazione. Finché gli elfi restavano confinati nelle proprie città, si poteva comunicare con loro solo inviando messaggeri nella foresta. Ma ora che gli elfi erano sul piede di guerra e avevano lasciato l'ombra dei pini dagli aghi neri, i loro incantesimi non li proteggevano più ed era possibile usare strumenti come lo specchio magico.

La sua ansia cresceva col passare dei minuti. «Andiamo» mormorò. Guardò da una parte e dall'altra per assicurarsi che nessuna persona o animale potesse coglierlo di sorpresa mentre era intento a fissare la pozza d'acqua.

Con un rumore di stoffa strappata, il lembo che chiudeva l'ingresso della tenda si levò di colpo e la regina Islanzadi entrò come un turbine, fermandosi davanti allo specchio. Indossava un lucido corsaletto dorato a placche, arricchito da una cotta di maglia, un paio di schinieri e un elmo tempestato di opali e altre pietre preziose che le tratteneva la fluente chioma corvina. Un mantello rosso orlato di bianco le scendeva in ampie pieghe dalle spalle. Nella mano sinistra, Islanzadi impugnava una spada sguainata. Alla destra sembrava indossare un guanto cremisi, ma dopo un istante Eragon si accorse che quello che le ricopriva le dita e il polso era sangue.

La regina inarcò le sopracciglia oblique quando vide Eragon. Con quella espressione, la somiglianza con Arya era sorprendente, anche se la sua statura e il suo portamento erano molto più notevoli di quelli della figlia. Era bellissima e terribile, come una spaventosa dea guerriera.

Eragon si toccò le labbra con le dita, poi voltò la mano destra portandola al petto, secondo il gesto degli elfi che indica lealtà e rispetto, e recitò la frase di esordio del saluto tradizionale, parlando per primo, com'era consuetudine nel rivolgersi a una persona di rango superiore. Islanzadi gli diede la risposta di rito, ed Eragon, nel tentativo di compiacerla e di dimostrarle che conosceva le loro usanze, concluse con la terza frase facoltativa del saluto: «E che la pace regni nel tuo cuore.»

La ferocia dell'atteggiamento di Islanzadi si mitigò un poco, e un debole sorriso le affiorò sulle labbra, come se avesse intuito la manovra di Eragon per blandirla. «E nel tuo, Ammazzaspettri.» La sua voce bassa e corposa conteneva tracce del fruscio degli aghi di pino e del mormorio dei ruscelli e della musica suonata con flauti di canna. Rinfoderò la spada e si avvicinò a un tavolinetto da campo, dove si lavò il sangue dalla mano con l'acqua di una brocca. «La pace è cosa assai rara di questi tempi, temo.»

«La battaglia è stata dura, maestà?»

«Lo sarà presto. Il mio popolo si sta ammassando lungo il margine occidentale della Du Weldenvarden, dove ci prepariamo a uccidere o a essere uccisi restando vicini agli alberi che tanto amiamo. Siamo una razza dispersa e non marciamo in ranghi serrati e file ordinate come fanno gli altri... per non arrecare danno alla terra... perciò ci occorre del tempo per radunarci dagli angoli più remoti della foresta.»

«Capisco. Solo che...» Eragon cercò un modo per porre la domanda senza suonare scortese. «Se la battaglia non è ancora cominciata, non posso fare a meno di chiedermi come mai la tua mano è sporca di sangue.»

Islanzadi si scrollò le goccioline d'acqua dalla mano, mostrandogli il perfetto avambraccio color ambra, e in quel momento Eragon si rese conto che era stata lei la modella per la scultura delle due braccia intrecciate all'ingresso della sua casa sull'albero a Ellesméra. «Non è più sporca. L'unica macchia che lascia il sangue su una persona si trova sulla sua anima, non sul suo corpo. Ho detto che la battaglia si farà più dura in un prossimo futuro, non che dobbiamo ancora cominciare.» Abbassò la manica della tunica fino al polso. Dalla cintura ingioiellata che le cingeva la vita sottile trasse un guanto intessuto di fili d'argento e se lo infilò. «Tenevamo sotto osservazione la città di Ceunon, perché era nostra intenzione attaccare lì per prima cosa. Due giorni fa, i nostri ricognitori hanno individuato squadre di uomini e muli che da Ceunon puntavano verso la Du Weldenvarden. Abbiamo pensato che volessero raccogliere del legname ai margini della foresta, come spesso accade. È una pratica che tolleriamo, perché sappiamo che gli umani hanno bisogno del legno, e gli alberi ai margini della foresta sono giovani e quasi al di là della nostra sfera d'influenza, e perché prima non avevamo mai voluto esporci. Le squadre però non si sono fermate ai margini, ma si sono addentrate nella Du Weldenvarden, seguendo le piste lasciate dagli animali che evidentemente conoscevano bene. Cercavano gli alberi più alti e grossi... alberi antichi come Alagaësia stessa, alberi che erano già vecchi e sviluppati quando i nani scoprirono il Farthen Dûr. Quando li hanno trovati, hanno cominciato ad abbatterli.» La sua voce vibrava di collera. «Dai loro commenti, abbiamo compreso il motivo per cui erano lì. Galbatorix voleva impossessarsi degli alberi più grandi per ricostruire le macchine d'assedio e gli arieti perduti durante la battaglia delle Pianure Ardenti. Se le loro motivazioni fossero state pure e oneste, avremmo potuto perdonare la perdita di uno dei sovrani della nostra foresta. Magari anche due. Ma non ventotto.»

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