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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«So che cosa avrebbe ribattuto papà.»

«Già, e poi ci avrebbe dato una sonora legnata.»

Scoppiarono a ridere insieme, poi il silenzio che tanto spesso dilagava nelle loro discussioni prese di nuovo il sopravvento: un vuoto fatto in parti uguali di stanchezza, familiarità e delle molte differenze scavate dal destino fra coloro che un tempo avevano vissuto vite che erano soltanto variazioni di una stessa melodia.

Dovreste dormire, disse Saphira a Eragon e Roran. È tardi, e domattina dobbiamo svegliarci presto.

Eragon scrutò la nera volta del firmamento, giudicando l'ora dalla posizione delle stelle: la notte era più vecchia di quanto pensasse. «Saggio consiglio» disse. «Avrei preferito avere ancora un paio di giorni per riposare prima di attaccare l'Helgrind. La battaglia delle Pianure Ardenti ha prosciugato l'energia di Saphira e la mia, e non ci siamo ancora del tutto ripresi, dato che abbiamo volato fin qui e trasferito energia nella cintura di Beloth il Savio le ultime due sere. Sono ancora tutto indolenzito e ho più lividi di quanti ne riesca a contare. Guarda...» Slacciò i cordoncini del polsino della manica sinistra e arrotolò il morbido làmarae - un tessuto che gli elfi fabbricavano con lana intrecciata e fili di ortica - rivelando un solco giallastro nel punto in cui lo scudo gli aveva premuto sull'avambraccio.

«Ah!» disse Roran. «E quel segnetto sarebbe un livido? Mi sono fatto più male io stamattina quando ho battuto l'alluce. Adesso ti faccio vedere io un livido di cui andare fieri.» Si slacciò lo stivale sinistro, se lo tolse e arrotolò la gamba del pantalone per esporre una striatura nera larga un pollice che gli attraversava il quadricipite. «Mi sono beccato l'asta della lancia di un soldato che si girava.»

«Notevole, ma io ho di meglio.» Eragon si sfilò la casacca dalla testa, liberò la camicia dalla cintura dei pantaloni e si voltò di fianco per mostrare a Roran un'ampia lividura sulle costole e un'altra simile sul ventre. «Frecce» spiegò. Poi scoprì l'avambraccio destro, rivelando un'escoriazione gemella dell'altra, che si era procurato deviando un colpo di spada col bracciale.

Allora Roran gli mostrò una collezione di chiazze bluastre irregolari, ciascuna grande quanto una moneta d'oro, che andavano dall'ascella sinistra fino alla base della colonna vertebrale, il risultato di una caduta su un cumulo di pietre e un'armatura a sbalzo.

Eragon studiò le lesioni, poi ridacchiò e disse: «Puah, sembrano punture di spine! Ti sei perso e sei andato a finire in un cespuglio di rose? Ti faccio vedere io qualcosa che le farà vergognare.» Si tolse tutti e due gli stivali, si alzò e si calò i pantaloni, restando in camicia e braghe di lana. «Batti questa, se ci riesci» disse, e mostrò l'interno delle cosce. Una violenta combinazione di colori gli maculava la pelle, come un frutto esotico che maturava in maniera irregolare, dal verde acido al viola purulento.

«Ahia» disse Roran. «Come te lo sei fatto?»

«Sono saltato giù da Saphira durante il duello aereo con Murtagh e Castigo. Ecco come sono riuscito a ferire Castigo. Saphira si è gettata in picchiata sotto di me per prendermi al volo prima che mi schiantassi al suolo, ma sono atterrato sul suo dorso un po' più forte di quanto avrei voluto.»

Roran fece una smorfia e rabbrividì. «E continua fino a...» Lasciò la frase in sospeso e fece un vago gesto con la mano verso l'alto.

«Purtroppo sì.»

«Devo ammetterlo, è un gran bel livido. Dovresti esserne orgoglioso: non è da tutti procurarselo in quel modo, e proprio lì.»

«Sono contento che lo apprezzi.»

«Bene» proseguì Roran. «Tu puoi anche avere il livido più grosso, ma i Ra'zac mi hanno lasciato una ferita con cui non puoi competere, dato che i draghi, come mi pare di capire, ti hanno cancellato la cicatrice dalla schiena.» Mentre parlava si era liberato della camicia ed era entrato nel cono di luce pulsante creato dalla brace.

Eragon spalancò gli occhi per un istante prima di riprendersi e nascondere lo sconcerto dietro un'espressione più neutra. Si rimproverò di aver esagerato pensando Non può essere tanto grave, ma più studiava la ferita di Roran più era preoccupato.

Una lunga cicatrice raggrinzita, rossa e lucida, avvolgeva la spalla destra di suo cugino, partendo dalla clavicola per arrivare a metà del braccio. Era chiaro che il Ra'zac gli aveva reciso parte del muscolo e le due metà non si erano ricongiunte. Un malsano gonfiore deformava la pelle sotto la cicatrice, dove le fibre muscolari si erano ritratte su se stesse. Più in alto, la pelle era affondata, formando una depressione profonda mezzo pollice.

«Roran! Avresti dovuto mostrarmela giorni fa. Non avevo idea che i Ra'zac ti avessero ferito in questo modo... Riesci a muovere il braccio?»

«Non di lato o all'indietro» disse Roran, dandogli una dimostrazione. «Davanti riesco ad alzare la mano solo così... fino all'altezza del torace.» Con una smorfia riabbassò il braccio. «E comunque mi costa fatica. Devo tenere il pollice fermo, altrimenti il braccio s'intorpidisce. Ho scoperto che il modo migliore è farlo ruotare da dietro e calarlo sulla cosa che cerco di afferrare. Mi sono sbucciato le nocche non sai quante volte prima di imparare il trucco.»

Eragon si rigirò il bastone fra le mani. Devo? chiese a Saphira.

Penso di sì.

Domani potremmo pentircene.

Avrai più motivo di pentirti se domani Roran muore perché non è riuscito a brandire il martello nel momento del bisogno. Se prendi l'energia dalle fonti che ci circondano, eviterai di stancarti di più.

Lo sai che detesto farlo. Anche solo parlarne mi fa star male. Le nostre vite sono più importanti di quella di una formica, ribatté Saphira.

Non per una formica.

E tu sei una formica? Non cercare scuse, Eragon. Non è da te.

Con un sospiro, Eragon posò il bastone per terra e fece un cenno a Roran. «Vieni, ti guarisco io.»

«Puoi farlo?»

«Certo.»

Per un istante il viso di Roran s'illuminò di eccitazione, poi il giovane esitò e corrugò la fronte. «Adesso? È prudente?»

«Come ha detto Saphira, meglio curarti ora che ne ho l'occasione, perché la tua ferita potrebbe costarti la vita o mettere in pericolo gli altri.» Roran si avvicinò ed Eragon posò la mano destra sulla rossa cicatrice; intanto espandeva la coscienza per abbracciare gli alberi e le piante e gli animali che popolavano la conca, tranne quelli che ritenne troppo deboli per sopravvivere al suo incantesimo.

Poi cominciò a intonare un canto nell'antica lingua. L'incantesimo evocato era lungo e complesso. Guarire una ferita del genere andava ben oltre la semplice ricrescita di nuova pelle, ed era un'operazione molto difficile. Eragon si affidò alle formule curative che aveva studiato a Ellesméra e che aveva impiegato lunghe settimane a mandare a memoria.

Il marchio argentato sul suo palmo, il gedwëy ignasia, risplendette incandescente quando Eragon sprigionò la magia. Un istante dopo, emise un gemito involontario quando si sentì morire tre volte: due piccoli uccelli appollaiati su un ginepro poco distante e un serpente annidato fra le rocce. Davanti a lui, Roran gettò indietro la testa e arricciò le labbra in un muto ululato mentre il muscolo della spalla si allungava e si contorceva sotto la pelle palpitante.

E poi finì.

Eragon trasse un lungo respiro tremante e si prese la testa fra le mani, approfittando del fatto che il suo viso era celato per asciugarsi le lacrime prima di esaminare il risultato della sua opera. Vide Roran contrarre e rilassare le spalle più volte, poi stiracchiare le braccia e muoverle in cerchio. Roran aveva le spalle ampie e rotonde, il risultato di anni trascorsi a scavare buche per le palizzate, a sollevare massi, a raccogliere il fieno col forcone. Suo malgrado, Eragon provò una punta d'invidia. Poteva anche essere più forte di suo cugino, ma non sarebbe mai stato muscoloso come lui.

Roran sogghignò. «È tornata come prima! Anzi, meglio. Ti ringrazio.» «Figurati.»

«È stata una sensazione stranissima. Come se fossi sul punto di sgusciare fuori dalla pelle. E prudeva da morire; quasi mi mettevo a...»

«Mi prendi un po' di pane dalla bisaccia, per favore? Ho fame.»

«Abbiamo appena cenato.»

«Devo mangiare qualcosa dopo aver usato la magia in questo modo.» Eragon tirò su col naso, trasse un fazzoletto dalla tasca e si pulì. Poi tirò su col naso di nuovo. Quello che aveva detto non era del tutto vero. Era il tributo di vita che aveva estorto alla natura a turbarlo, non la magia in sé, e temeva di vomitare se non avesse mangiato qualcosa per placare lo stomaco.

«Non sarai malato?» chiese Roran.

«No.» Con il ricordo delle morti appena provocate che gli opprimeva il cuore, Eragon tese una mano verso l'orcio di idromele al suo fianco, sperando di arginare la marea di foschi pensieri.

Qualcosa di grosso, pesante e aguzzo gli inchiodò la mano al suolo. Eragon trasalì, alzò lo sguardo e vide la punta di una delle unghie d'avorio di Saphira pungergli la carne. La grande palpebra della dragonessa schioccò calando sull'iride scintillante che lo fissava. Dopo un lungo istante, Saphira levò la zampa ed Eragon ritrasse la mano. Deglutì e afferrò il bastone ancora una volta, cercando di ignorare l'idromele e di concentrarsi su ciò che era immediato e concreto invece che indugiare in cupe riflessioni.

Roran andò a prendere mezza pagnotta di pane lievitato dalla sua bisaccia, poi si fermò e con un sorriso appena accennato chiese: «Non preferiresti un po' di carne? La mia non l'ho mangiata tutta.» Tese lo spiedo che aveva ricavato da un ramo di ginepro, dov'erano infilzati tre bei pezzi di carne arrostita dalla crosticina dorata. Al naso sensibile di Eragon il profumo arrivò saporoso e pungente, carico di ricordi delle notti passate sulla Grande Dorsale e delle cene invernali quando lui, Roran e Garrow si stringevano intorno alla stufa, lieti della reciproca compagnia, mentre fuori imperversava la bufera. Gli venne l'acquolina in bocca. «È ancora calda» disse Roran, e agitò lo spiedo davanti agli occhi di Eragon.

Con un grande sforzo di volontà, Eragon scosse la testa. «No, mi basta il pane.»

«Sicuro? È perfetta: né troppo cotta, né troppo al sangue, e con la giusta dose di condimento. È così saporita che quando dai un morso ti sembra di mangiare il miglior arrosto di Elain.»

«No, non posso.»

«Guarda che ti piacerà.»

«Roran, smettila di provocarmi e dammi quel pezzo di pane!»

«Ah, lo vedi, stai già meglio. Magari quello che ti serve non è il pane, ma qualcuno che ti stuzzichi un po'.»

Eragon lo fulminò con un'occhiata, poi, più veloce di qualsiasi umano, strappò il pane dalla mano di Roran.

Il gesto parve divertire ancora di più il cugino. Mentre Eragon addentava il cibo, Roran disse: «Non capisco come fai a sopravvivere mangiando solo frutta, pane e verdura. Un uomo deve mangiare carne se vuole mantenersi in forze. Non ti manca?»

«Più di quanto immagini.»

«E allora perché insisti a torturarti così? Ogni creatura a questo mondo se vuole sopravvivere deve mangiare altri esseri viventi... anche se sono solo piante. È così che siamo fatti. Perché vuoi sovvertire l'ordine naturale delle cose?»

Gli ho detto la stessa cosa a Ellesméra, osservò Saphira, ma non ha voluto ascoltarmi.

Eragon si strinse nelle spalle. «Ne abbiamo già discusso. Voi fate come vi pare. Io non dico a voi né a nessun altro come dovete vivere. Ma non posso, in tutta coscienza, mangiare una creatura di cui ho condiviso pensieri e sensazioni.»

La punta della coda di Saphira fremette e le squame crocchiarono contro un masso rotondo che sporgeva dal terreno. Oh, è un caso disperato. Saphira levò e tese il collo, strappando la carne con tutto lo spiedo dalla mano di Roran. Il legno crepitò fra le sue zanne serrate mentre mordeva, poi lo spiedo e la carne svanirono nei famelici abissi del suo ventre. Mmm. Non esageravi, disse a Roran. Che bocconcino prelibato: così morbido, succulento, gustoso che mi dà brividi di piacere. Dovresti cucinare per me più spesso, Roran Fortemartello. Solo, la prossima volta sarà il caso di arrostire qualche cervo in più, altrimenti non avrò un pasto come si deve.

Roran esitò, come se non sapesse se la richiesta della dragonessa era seria e, in tal caso, in che modo sottrarsi con garbo a un tale obbligo non desiderato e decisamente oneroso. Scoccò un'occhiata implorante a Eragon, che scoppiò a ridere, sia per l'espressione di Roran che per la situazione.

La risata sonora di Saphira si unì a quella di Eragon e riverberò in tutta la conca. Le sue zanne scintillarono rosse alla luce della brace.

Un'ora dopo che i tre si erano sistemati per la notte, Eragon giaceva al fianco di Saphira, avvolto in diversi strati di coperte per ripararsi dal freddo della notte. Tutto era silenzioso e immobile. Sembrava quasi che uno stregone avesse evocato un incantesimo sulla terra e che ogni cosa fosse immersa in un sonno eterno, destinata a rimanere cristallizzata e immutata per sempre sotto lo sguardo vigile delle stelle tremanti.

Senza muoversi, Eragon sussurrò con la mente: Saphira?

Sì, piccolo mio?

Che cosa succede se ho ragione e lui si trova nell'Helgrind? Non so cosa fare... Dimmelo tu.

Non posso, piccolo mio. Questa è una decisione che devi prendere da solo. I modi degli uomini non sono i modi dei draghi. Toccasse a me, gli strapperei la testa e banchetterei col suo corpo, ma questo per te sarebbe sbagliato, immagino.

Resterai al mio fianco, qualunque cosa io decida?

Come sempre, piccolo mio. Ora riposa. Andrà tutto bene.

Confortato, Eragon fissò il vuoto fra le stelle e rallentò la respirazione,

scivolando nello stato di trance che ormai sostituiva in lui il sonno profondo. Pur restando consapevole di ciò che lo circondava, sullo sfondo delle brillanti costellazioni vide i protagonisti dei suoi sogni a occhi aperti farsi avanti per compiere azioni oscure e confuse, com'era loro abitudine.

ATTACCO ALL'HELGRIND

Mancavano quindici minuti all'alba quando Eragon si svegliò. Schioccò le dita due volte per svegliare Roran, poi raccolse le coperte e le arrotolò in uno stretto fagotto.

Alzatosi a fatica, Roran fece lo stesso con il suo giaciglio.

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