Volodyk - Paolini3-Brisingr
ATTACCO ALL'HELGRIND
Mancavano quindici minuti all'alba quando Eragon si svegliò. Schioccò le dita due volte per svegliare Roran, poi raccolse le coperte e le arrotolò in uno stretto fagotto.
Alzatosi a fatica, Roran fece lo stesso con il suo giaciglio.
Si scambiarono un'occhiata, percorsi da un fremito d'eccitazione. «Se muoio» disse Roran, «ti prenderai cura di Katrina?»
«Lo farò.»
«Dille che sono andato in battaglia con la gioia nel cuore e il suo nome
sulle labbra.»
«Lo farò.»
Eragon mormorò una breve frase nell'antica lingua. Il calo di energia fu
quasi impercettibile. «Ecco fatto. Servirà a filtrare l'aria davanti a noi e ci proteggerà dagli effetti paralizzanti del fiato dei Ra'zac.»
Dalla bisaccia trasse l'involto di tela grezza dove aveva conservato la sua cotta di maglia e lo aprì. Il corsaletto un tempo scintillante era ancora incrostato di sangue dalla battaglia sulle Pianure Ardenti, e il misto di sangue rappreso, sudore e incuria aveva permesso alla ruggine d'infiltrarsi fra gli anelli. La maglia però era integra, dato che Eragon l'aveva riparata prima di partire per l'Impero.
Eragon indossò il corsaletto di maglia con il dorso di cuoio, arricciando il naso per il lezzo di morte e disperazione che lo impregnava, poi si legò i bracciali agli avambracci e i gambali agli stinchi. Sulla testa infilò una calotta imbottita, un cappuccio di maglia e un semplice elmo d'acciaio. Aveva perduto il proprio - quello che aveva indossato nel Farthen Dûr e che i nani avevano inciso con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum - insieme allo scudo durante il duello aereo fra Saphira e Castigo. Le mani erano protette da guanti di maglia.
Roran si vestì allo stesso modo, con uno scudo di legno in più. Lo scudo era contornato da una fascia di ferro morbido che serviva a parare meglio i colpi e a trattenere la spada del nemico. Non c'era scudo a proteggere il braccio sinistro di Eragon: servivano tutte e due le mani per manovrare il bastone di biancospino.
A tracolla, Eragon portava la faretra che gli aveva donato la regina Islanzadi. Oltre alle venti frecce di legno di quercia dall'impennaggio di piume di cigno, conteneva l'arco di filigrana d'argento che la regina aveva cantato per lui da un albero di tasso. L'arco era già incordato e pronto all'uso.
Saphira grattò il terriccio sotto i piedi con impazienza. Vogliamo partire o no?
Dopo aver appeso bisacce e vettovaglie ai rami di un albero di ginepro, Eragon e Roran si arrampicarono sul dorso di Saphira. Non furono costretti a perdere tempo per sellarla; la dragonessa aveva tenuto addosso la bardatura per tutta la notte. Eragon sentì sotto di sé il calore del cuoio sagomato. Afferrò saldamente la punta cervicale che aveva davanti - per sorreggersi in caso di brusche virate - mentre Roran gli cingeva la vita con un braccio muscoloso, l'altra mano impegnata a brandire il martello.
Una lastra di ardesia s'incrinò sotto il peso di Saphira quando la dragonessa si accovacciò per prendere lo slancio e spiccare un unico balzo verso il ciglio del dirupo che affacciava sulla gola, dove rimase in equilibrio per un istante prima di spiegare le ali possenti. Le sottili membrane emisero un cupo ronzio quando Saphira le dispose perpendicolari al cielo. In quella posizione, sembravano due azzurre vele traslucide.
«Non mi stringere così» borbottò Eragon.
«Scusa» disse Roran, allentando l'abbraccio.
Non poterono più parlarsi, perché Saphira balzò di nuovo. Una volta raggiunto il culmine dello slancio, la dragonessa abbassò le ali con un sonoro fruscio prolungato e si spinse verso l'alto. A ogni battito d'ali si avvicinavano sempre di più ai sottili strati di nubi.
Mentre Saphira virava verso l'Helgrind, Eragon scoccò un'occhiata a sinistra e scoprì che, grazie all'altezza, riusciva a scorgere un buon tratto del Lago di Leona, a qualche miglio di distanza. Un denso strato di nebbia, grigia e spettrale nel tenue chiarore dell'aurora, aleggiava sull'acqua, come se sulla superficie liquida ardesse un enorme fuoco fatuo. Eragon aguzzò la vista, ma nonostante i suoi occhi da falco non riuscì a distinguere la sponda opposta né le propaggini meridionali della Grande Dorsale. Provò una fitta di nostalgia: non vedeva le montagne della sua infanzia da quando aveva lasciato la Valle Palancar.
A nord sorgeva Dras-Leona, una massa enorme e indistinta che si stagliava tozza contro il muro di nebbia che ne orlava i confini occidentali. L'unico edificio che Eragon riuscì a identificare fu la cattedrale dove i Ra'zac lo avevano attaccato; la sua guglia torreggiava sul resto della città come una punta di lancia munita di barbigli.
Eragon sapeva che da qualche parte, nella piana che scorreva sotto di loro, c'erano ancora i resti dell'accampamento dove i Ra'zac avevano ferito a morte Brom. Si lasciò invadere ancora una volta dal furore e dalla pena che aveva provato quel giorno lontano - come anche all'epoca della morte di Garrow e della distruzione della fattoria - affinché quei violenti sentimenti gli infondessero il coraggio, anzi, la brama di affrontare i Ra'zac in battaglia.
Eragon, disse Saphira. Oggi non dobbiamo schermare le nostre menti e tenere segreti i nostri pensieri, vero?
No, a meno che non compaia qualche stregone.
Un ventaglio di luce dorata si levò all'orizzonte quando spuntò la cupola fiammeggiante del disco solare. Il mondo, che fino a un istante prima era stato avvolto da un'uniforme coltre grigiastra, s'illuminò di tutti i colori dell'arcobaleno: la nebbia risplendette azzurrina, l'acqua scintillò di un blu intenso, le mura che cingevano il centro di Dras-Leona rivelarono il loro sudicio intonaco di fango giallo, gli alberi si rivestirono di ogni possibile sfumatura di verde e il terreno avvampò di rosso e arancio. L'Helgrind, tuttavia, rimase com'era sempre: nero.
Mentre si avvicinavano, la montagna di pietra s'ingrandiva a vista d'occhio. Perfino dall'alto appariva inquietante.
Nel tuffarsi verso la base dell'Helgrind, Saphira fece una virata a sinistra così stretta che Eragon e Roran sarebbero precipitati se non avessero avuto le gambe legate alla sella. La dragonessa sfrecciò intorno alla massicciata di ghiaia e sopra l'altare dove i sacerdoti dell'Helgrind celebravano i loro riti. Il vento s'insinuò sotto la visiera dell'elmo di Eragon, che fu assordato dal potente sibilo.
«Allora?» gridò Roran, che non riusciva a vedere davanti.
«Gli schiavi sono spariti!»
Eragon si sentì come schiacciato da un peso enorme quando Saphira interruppe bruscamente la picchiata per risalire a spirale intorno all'Helgrind, in cerca dell'ingresso del covo dei Ra'zac.
Nemmeno un buco sufficiente a far passare un ratto, dichiarò la dragonessa. Rallentò e restò sospesa davanti a un crinale che congiungeva il terzo dei quattro picchi, il più basso, alla cima dominante. Lo sperone irregolare amplificava il rombo prodotto da ogni battito d'ali tanto da renderlo simile al fragore di un tuono. Eragon aveva gli occhi colmi di lacrime mentre l'aria gli frustava la pelle.
Una ragnatela di venature bianche adornava le pareti in ombra dei dirupi e dei pilastri, dove la brina si era raccolta nelle fessure della roccia. Non c'era altro a disturbare la cupezza dei neri bastioni battuti dai venti dell'Helgrind. Non crescevano alberi sui pendii rocciosi, non c'erano arbusti o ciuffi d'erba o muschi o licheni; le aquile non osavano fare il nido sulle cornici frastagliate della torre. Fedele al suo nome, l'Helgrind era un luogo di morte, e si ergeva ammantato nelle pieghe rigide e affilate delle sue scarpate e dei suoi crepacci come uno spettro scheletrico sorto a perseguitare la terra.
Espandendo la mente, Eragon trovò conferma della presenza delle due persone che aveva scoperto imprigionate all'interno dell'Helgrind il giorno prima, ma lo turbò il fatto di non riuscire a localizzare i Ra'zac o i Lethrblaka. Se non qui, allora dove sono? si domandò. Cercando ancora, notò qualcosa che prima gli era sfuggito: un fiore solitario, una genziana, a meno di cinquanta piedi da loro, dove, secondo logica, non avrebbe dovuto esserci altro che solida roccia. Dove trova la luce per sopravvivere?
Saphira rispose alla sua domanda appollaiandosi su una sporgenza di roccia franosa distante qualche passo. Nel farlo, per un attimo perse l'equilibrio, e batté le ali per recuperarlo. Invece di urtare contro la massa compatta dell'Helgrind, la punta dell'ala destra affondò nella roccia e ne riemerse.
Saphira, hai visto?!
Sì.
Protesa in avanti, Saphira allungò la punta del muso verso la roccia, fermandosi a uno o due pollici di distanza, come in attesa che scattasse qualche trappola; poi continuò ad avanzare. Squama dopo squama, la testa di Saphira scivolò nell'Helgrind, finché di lei non rimasero visibili che il collo, il torso e le ali.
È un'illusione! esclamò la dragonessa.
Con un guizzo dei muscoli possenti, Saphira abbandonò la sporgenza di roccia e fece seguire alla testa il resto del corpo. Eragon fece appello a tutto il suo autocontrollo per non coprirsi il volto nel tentativo disperato di proteggersi mentre la parete rocciosa gli correva incontro.
Un istante dopo, si ritrovò a fissare una vasta caverna con la volta soffusa dal tiepido chiarore del mattino. Le squame di Saphira rifrangevano la luce, proiettando migliaia di tremuli puntini azzurri sulle pareti di roccia. Voltando la testa, Eragon non vide roccia alle loro spalle: soltanto l'ingresso della grotta e uno squarcio del panorama sottostante.
Sorrise amaro. Non gli era venuto in mente che Galbatorix avesse potuto nascondere la tana dei Ra'zac con la magia. Idiota! Devo fare di meglio, si disse. Sottovalutare il re era un modo sicuro per farsi uccidere tutti.
Roran imprecò fra i denti e disse: «La prossima volta prima di fare una cosa del genere, avvertimi.»
Chino in avanti, Eragon cominciò a slacciare le cinghie che gli tenevano le gambe legate alla sella, studiando nel frattempo l'ambiente in cerca di pericoli.
L'ingresso della caverna era un ovale irregolare, alto cinquanta piedi e largo una sessantina, che si apriva su di una camera grande il doppio. In fondo, a un buon tiro di freccia di distanza, la grotta terminava in un cumulo di lastre rocciose addossate l'una all'altra alla rinfusa. Una ragnatela di scalfitture solcava il pavimento, prova delle innumerevoli volte che i Lethrblaka avevano spiccato il volo, erano atterrati e avevano camminato su quella superficie. Come misteriosi buchi di serratura, sui lati della caverna si aprivano cinque basse gallerie e un arco ogivale abbastanza alto da far passare Saphira. Eragon studiò con attenzione le gallerie, ma erano nere come la pece e apparentemente vuote, un fatto a cui trovò conferma con una rapida esplorazione della mente. Strani mormorii confusi riecheggiavano dalle profondità dell'Helgrind, evocando immagini di cose sconosciute che sgattaiolavano nel buio, insieme a un incessante gocciolio d'acqua. Al coro di sussurri si univa il respiro regolare di Saphira, amplificato dalle ridotte dimensioni della caverna.
La caratteristica più notevole della grotta, tuttavia, era il misto di odori che la pervadeva. Sotto l'odore predominante della pietra fredda, Eragon fiutò il tanfo dell'umidità e della muffa, e anche qualcosa di peggio: il fetore dolciastro e nauseabondo della carne in putrefazione.
Dopo essersi slacciato le ultime cinghie, Eragon scavalcò il dorso di Saphira e restò seduto in sella di lato, pronto a saltare giù. Altrettanto fece Roran dall'altra parte.
Un attimo prima di lanciarsi, Eragon udì, confusi fra i diversi fruscii che gli solleticavano le orecchie, una serie di picchiettii simultanei, come se qualcuno colpisse la roccia con delle piccozze. Il rumore si ripeté mezzo secondo dopo.
Volse la testa in direzione del rumore, e Saphira lo imitò.
Un'enorme figura deforme si avventò dall'arco ogivale. Occhi neri, sporgenti, senza palpebre. Becco lungo diversi piedi. Ali da pipistrello. Torso nudo, glabro, vibrante di muscoli. Artigli come punte di lancia.
Saphira guizzò di lato nel tentativo di schivare il Lethrblaka, ma fu inutile. La creatura cozzò contro il fianco destro della dragonessa con quella che a Eragon parve la potenza e la furia di una valanga.
Quanto accadde subito dopo, Eragon non lo capì, perché lo scontro lo spedì in aria senza che riuscisse a formulare un solo pensiero coerente. Il volo terminò bruscamente così com'era iniziato quando il giovane finì di schiena contro qualcosa di duro e piatto, per poi cadere a terra picchiando la testa un'altra volta. Il secondo, violento impatto gli sottrasse quel poco di aria che gli restava nei polmoni. Stordito, rimase raggomitolato su un fianco, ansante, e tentò di riprendere una parvenza di controllo sulle membra inerti.
Eragon! gridò Saphira.
Il tono angosciato della dragonessa fu come una sferzata di energia per Eragon. Mentre la vita gli tornava nella braccia e nelle gambe, protese la mano per afferrare il bastone caduto lì accanto. Piantò il puntale di ferro in una fessura nella roccia e si issò facendo forza sul ramo di biancospino. Barcollò. Uno sciame di puntini rossi gli danzò davanti agli occhi.
La situazione era così confusa che non sapeva dove guardare prima.
Saphira e il Lethrblaka rotolavano avvinghiati nella grotta, distribuendo calci, unghiate e morsi con tanta ferocia da scheggiare la roccia. Il clamore della lotta doveva essere assordante, ma per Eragon si azzuffavano in silenzio: le orecchie non gli funzionavano. Tuttavia avvertiva le vibrazioni sotto i piedi, mentre le colossali creature si schiantavano di qua e di là, minacciando di schiacciare chiunque capitasse loro vicino.
Un torrente di fuoco azzurro eruttò dalle fauci di Saphira e avvolse il lato sinistro della testa del Lethrblaka in una vampa infernale così ardente da riuscire a fondere l'acciaio. Le fiamme curvarono intorno al Lethrblaka senza procurare alcun danno alla creatura. Imperturbato, il mostro si avventò col becco contro il collo di Saphira, costringendola a interrompere la fiammata per difendersi.
Fulmineo come una freccia scoccata da un arco, il secondo Lethrblaka uscì dall'arco per avventarsi sul fianco di Saphira e spalancando il becco aguzzo emise un orribile stridio, così forte che Eragon si sentì accapponare la pelle e avvertì un gelido nodo di terrore formarsi nello stomaco. Digrignò i denti: quello lo aveva sentito.
L'odore adesso, con entrambi i Lethrblaka presenti, era paragonabile al fetore nauseabondo di una decina di libbre di carne rancida lasciate a fermentare in un barile di letame per una settimana in piena estate.