Volodyk - Paolini2-Eldest
«Hai benedetto una bambina nell'antica lingua?» disse Oromis, allarmato. «Ricordi come hai formulato la benedizione?» «Sicuro.»
«Recitala per me.» Eragon ripete le parole, e un'espressione di puro orrore si dipinse sul volto di Oromis, che esclamò: «Hai usato skòlirl Sei sicuro? Non era skoliro?»
Eragon si accigliò. «No, skolir. Perché non avrei dovuto usarla? Skolir significa protetta... "e che tu possa essere protetta dalla sventura". Era una benedizione.»
«Non è stata una benedizione, ma una maledizione.» Oromis era agitato come Eragon non l'aveva mai visto. «Il suffisso o forma il participio passato dei verbi che finiscono in rei. Skoliro significa protetto, ma skolir significa protezione. Quello che hai detto è: "Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura". Invece di preservare quella bambina dai capricci del fato, l'hai condannata a sacrificarsi per gli altri, ad assorbire le loro miserie e le loro sofferenze perché possano vivere in pace.»
No, no! Non può essere! Eragon tentò di negare la possibilità con tutte le sue forze. «Gli effetti di un incantesimo non sono determinati soltanto dal senso delle parole, ma anche dalle intenzioni, e io non avevo intenzione di farle del male...»
«Non puoi rinnegare la natura intrinseca di una parola. Piegarla, sì. Guidarla, certo. Ma non contraddire la sua definizione per implicare l'esatto contrario.» Oromis congiunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sul tavolo, la bocca ridotta a una sottile riga bianca. «So bene che non intendevi farle del male, altrimenti i miei insegnamenti finirebbero qui. Se eri sincero e il tuo cuore puro, allora questa benedizione causerà meno tribolazioni di quanto temo, pur restando fonte di più sofferenze di quante vorremmo.»
Eragon fu scosso da un tremito violento nel rendersi conto di quanto aveva fatto alla vita della bambina. «Magari non cancellerà il mio errore» mormorò, «ma forse potrà alleviarlo: Saphira ha marchiato la bambina sulla fronte, come marchiò il mio palmo con il gedwéy ignasia.»
Per la prima volta in vita sua, Eragon vide un elfo restare di stucco. Oromis spalancò gli occhi e strinse così forte i braccioli della sedia che il legno gemette. «Una persona che porta il segno dei Cavalieri, ma non è un Cavaliere» mormorò alla fine. «In tutta la mia lunga vita, non ho mai conosciuto qualcuno come voi due. Ogni decisione che prendete sembra avere conseguenze che superano di gran lunga ogni previsione. Cambiate il mondo con il vostro arbitrio.»
«Ed è un bene o un male?»
«Né l'uno, né l'altro. È così e basta. Dove si trova adesso la bambina?» Eragon impiegò qualche istante per rimettere ordine nei propri pensieri. «Con i Varden, quindi nel Farthen Dùr o nel Surda. Credi che il marchio di Saphira l'aiuterà?» «Non lo so» rispose Oromis. «Non esistono precedenti su cui basarmi per capirlo.»
«Devono esserci dei modi per cancellare la benedizione, per annullare un incantesimo.» Eragon stava quasi implorando.
«Ci sono. Ma perché siano efficaci, dovresti essere tu a utilizzarli, e per il momento non puoi allontanarti da qui. Perfino nelle migliori circostanze, residui della tua magia perseguiteranno la bambina per sempre. Questo è il potere dell'antica lingua.» Fece una pausa. «Vedo che hai compreso la gravita della situazione, perciò te lo dirò soltanto una volta: su di te pesa la totale responsabilità del destino di quella bambina e a causa del torto che le hai fatto sarà tuo compito aiutarla, se mai dovesse presentarsi questa necessità. Per la legge dei Cavalieri, lei rappresenta la tua vergogna, come se l'avessi generata fuori dal vincolo matrimoniale, un disonore fra gli umani, se ben ricordo.»
«Sì» mormorò Eragon. «Capisco.» Capisco che ho costretto una bambina indifesa a seguire un certo destino senza averle dato scelta. Può qualcuno essere davvero buono se non ha mai avuto l'opportunità di comportarsi male? Io l'ho resa schiava. E sapeva anche che se lo avessero vincolato in quel modo senza il suo consenso, avrebbe odiato il suo carceriere con ogni fibra del suo essere.
«Allora non ne parleremo mai più.»
«Sì, Ebrithil.»
Eragon era ancora sconvolto, addirittura depresso, alla fine della giornata. A stento alzò lo sguardo quando uscirono per andare incontro a Saphira e Glaedr che tornavano. Gli alberi ondeggiarono per la furia del vento che i due draghi crearono con le loro ali. Saphira sembrava orgogliosa di sé; inarcò il collo e avanzò fiera verso Eragon, schiudendo le fauci in un ghigno lupesco.
Una pietra si frantumò sotto il peso di Glaedr, quando il vecchio drago puntò un occhio gigantesco - grande quanto un vassoio da portata - su Eragon, e chiese: Quali sono le tre regole per individuare le correnti discendenti, e le cinque regole per sfuggirle?
Riscosso dai propri pensieri, Eragon potè soltanto battere le palpebre perplesso. «Non lo so.»
Allora Oromis si rivolse a Saphira e le domandò: «Quali creature allevano le formiche, e come estraggono nutrimento da esse?»
Non saprèi, dichiarò Saphira. Sembrava offesa.
Un lampo di collera illuminò lo sguardo di Oromis, che incrociò le braccia, pur conservando un'espressione calma. «Dopo tutte le cose che voi due avete fatto insieme, credevo che aveste imparato la lezione basilare di uno Shur'tugal: condividere tutto con il proprio compagno. Taglieresti il tuo braccio destro? Voleresti con un'ala soltanto? Mai. Allora perché ignorare il legame che vi unisce? Così facendo, rinnegate il vostro dono più grande e il vantaggio che avete sugli avversari. Badate che non si tratta di parlarsi con la mente, ma di fondere le vostre coscienze fino ad agire e pensare come un'entità unica. Mi aspetto che entrambi sappiate cosa viene insegnato all'altro.»
«E la nostra intimità?» obiettò Eragon.
Intimità? disse Glaedr. Tenete per voi i vostri pensieri quando siete lontani da qui, se così vi aggrada, ma finché siamo i vostri maestri, non ci sarà posto per le cose private.
Eragon guardò Saphira, sentendosi peggio di prima. Lei evitò il suo sguardo, poi pestò una zampa per terra e si voltò di scatto. Allora?
Hanno ragione. Siamo stati negligenti.
Non è colpa mia.
Non ho detto che lo fosse. Ma la dragonessa intuì la sua opinione: era geloso delle attenzioni che rivolgeva a Glaedr e di come questo la allontanasse da lui. Faremo del nostro meglio, vero?
Naturale! ribatte lei.
Tuttavia Saphira si rifiutò di porgere le proprie scuse a Oromis e Glaedr, lasciando il compito a Eragon. «Non vi deluderemo più.»
«Ci conto. Domani vi interrogheremo su ciò che ha imparato l'altro.» Oromis aprì il palmo e mostrò un ninnolo rotondo di legno. «Finché ti ricorderai di caricarlo regolarmente, questo congegno ti aiuterà a svegliarti a tempo debito ogni mattina. Torna non appena ti sarai lavato e avrai mangiato.»
Quando Eragon lo prese in mano, si accorse che l'oggetto aveva un peso sorprendente. Grande quanto una noce, recava incise profonde spirali che si annodavano intorno a una piccola manopola, intagliata a forma di bocciolo di rosa muschiata. Provò a girare la manopola e udì tre scatti, mentre un meccanismo nascosto cominciava ad avanzare. «Grazie» disse.
Sotto l'albero di Menoa
Dopo aver salutato i maestri, Eragon e Saphira tornarono in volo alla loro casa sull'albero, con la nuova sella che penzolava fra gli artigli della dragonessa. Senza nemmeno accorgersene, a poco a poco aprirono le menti e permisero al loro legame di ampliarsi e approfondirsi, anche se nessuno dei due chiamò l'altro consapevolmente. Tuttavia le emozioni di Eragon dovevano essere così tumultuose che Saphira le percepì comunque, perché domandò: Che cosa è successo?
Eragon avvertì un dolore pulsante dietro agli occhi mentre le spiegava il terribile crimine che aveva commesso nel Farthen Dùr. Saphira rimase sgomenta quanto lui. Eragon disse: Il tuo dono potrebbe aver aiutato quella bambina, ma ciò che ho fatto non ha scuse e le procurerà solo del male.
La colpa non è soltanto tua. Io condivido la tua conoscenza dell'antica lingua, e non ho individuato l'errore come te. Quando Eragon rimase in silenzio, aggiunse: Se non altro la schiena non ti ha fatto male, oggi. Rallegrati di questo. Lui borbottò un assenso, riluttante ad abbandonare il cattivo umore. £ tu cos'hai imparato in questa bella giornata? A identificare ed evitare elementi atmosferici pericolosi. Fece una pausa, pronta a condividere i suoi ricordi con lui, ma Eragon era troppo angosciato per la benedizione distorta per indagare oltre. Né poteva tollerare il pensiero di entrare in intimità così presto. Quando non la interrogò sulla materia, Saphira si ritirò nel silenzio.
Tornati agli alloggi, Eragon trovò un vassoio di cibo accanto alla porta scorrevole, come la sera prima. Portò il vassoio a letto - che era stato cambiato con lenzuola fresche di bucato - e cominciò a mangiare, contrariato dalla mancanza di carne. Indolenzito dalla Rimgar, si appoggiò con la schiena ai cuscini, e stava per addentare il primo boccone quando sentì un lieve picchiettio all'uscio. «Avanti» ringhiò. Bevve un sorso d'acqua.
Per poco non soffocò quando Arya entrò nella stanza. Si era spogliata dei soliti indumenti di pelle per indossare una leggera tunica verde stretta in vita da una cintura tempestata di pietre di luna. Si era anche tolta la fascia per capelli, che adesso le ricadevano in morbide onde intorno al viso e sulle spalle. Il cambiamento più evidente, tuttavia, non era tanto nell'abbigliamento, quanto nell'atteggiamento: la lieve tensione che la permeava da quando Eragon l'aveva conosciuta era scomparsa.
Finalmente sembrava tranquilla.
Lui si affannò a scendere dal letto, notando che lei era a piedi nudi. «Arya! Come mai sei venuta?» Sfiorandosi le labbra con le dita, lei disse: «Hai intenzione di passare un'altra serata in casa?»
«Io...»
«Sei a Ellesméra da tre giorni, e ancora non hai visto niente della città. Eppure so che hai sempre desiderato visitarla. Dimentica la stanchezza e vieni con me.» Avvicinandosi a lui, prese Zar'roc e gli fece cenno di seguirla. Passarono nel vestibolo, dove scesero attraverso la botola e lungo la ripida scala a chiocciola che circondava il tronco. In alto, banchi di nuvole rosseggiavano per gli ultimi raggi del sole, che presto scomparve oltre i confini del mondo. Un pezzo di corteccia cadde sulla testa di Eragon, che guardò in alto per vedere Saphira affacciata dalla camera da letto, aggrappata al legno con gli artigli. Senza dispiegare le ali, la dragonessa spiccò un balzo e atterrò cento piedi più in basso, sollevando un turbine di polvere. Vengo anch'io.
«Naturale» disse Arya, come se non si aspettasse altro. Eragon si accigliò; avrebbe voluto restare da solo con lei, ma evitò di lamentarsi.
Camminarono sotto gli alberi, dove le tenebre già allungavano i loro tentacoli dai tronchi cavi, dalle crepe nei massi e dalle grondaie nodose. Qua e là, una lanterna tremolava dal fianco di un albero o all'estremità di un ramo, proiettando coni di luce su entrambi i lati del sentiero.
Gli elfi illuminati dal raggio delle lanterne erano perlopiù individui solitari, tranne qualche sporadica coppia. Molti erano seduti in alto fra i rami e suonavano leggiadre melodie con le loro siringhe di canne, mentre altri contemplavano il cielo con espressione serena, né del tutto svegli, né del tutto addormentati. Un elfo era seduto a gambe incrociate davanti a un tornio da ceramista che ruotava a ritmo costante, mentre un vaso delicato prendeva forma sotto le sue mani. La gatta mannara, Maud, era accovacciata al suo fianco nell'ombra, intenta a guardare l'opera. I suoi occhi lampeggiarono d'argento quando vide Eragon e Saphira. L'elfo seguì il suo sguardo e li salutò con un cenno del capo senza fermarsi. Attraverso gli alberi, Eragon intravvide un elfo maschio o femmina, chissà - accovacciato su un masso al centro di un torrente, impegnato a mormorare un incantesimo sul globo di vetro che teneva stretto fra le mani. Eragon tese il collo nel tentativo di vedere meglio, ma lo spettacolo era già svanito nel buio.
«Cosa fanno gli elfi» domandò Eragon a bassa voce per non disturbare nessuno «per vivere o come professione?» Arya rispose in tono altrettanto pacato. «La nostra profonda conoscenza delle arti magiche ci garantisce tutto il tempo libero che vogliamo. Non andiamo a caccia e non coltiviamo, e di conseguenza passiamo le giornate ad approfondire i nostri interessi, quali che siano. Non esistono molte cose per cui dobbiamo sforzarci.»
Attraverso una galleria di sanguinella tappezzata di rampicanti, entrarono nell'atrio di una casa cresciuta da un anello di alberi. Un rifugio senza pareti occupava il centro dell'atrio, che ospitava una forgia e un assortimento di strumenti che Eragon sapeva avrebbe fatto felice Horst.
Un'elfa impugnava un paio di piccole tenaglie infilate in un cumulo di braci ardenti, azionando un mantice con la mano destra. Con rapidità sorprendente, estrasse le tenaglie dal fuoco - rivelando un anello d'acciaio incandescente stretto fra le ganasce - poi infilò l'anello nel bordo di un corsaletto di maglia incompleto appeso sull'incudine, prese un martello e saldò le estremità dell'anello con un colpo solo, in un'esplosione di scintille.
Soltanto allora Arya si avvicinò. «Atra esterni ono thelduin.»
L'elfa li guardò, il collo e le guance arrossati dalla luce violenta delle braci. Come una fitta filigrana incisa nella pelle, il suo volto era solcato da un delicato intrico di rughe, la più grande dimostrazione di età che Eragon avesse mai visto in un elfo. Non rispose ad Arya, un gesto che lui sapeva essere scortese e offensivo, specie dal momento che la figlia della regina l'aveva onorata parlando per prima.
«Rhunòn-elda, ti porto a conoscere il nuovo Cavaliere, Eragon Ammazzaspettri.»
«Ho sentito che eri morta» disse Rhunòn ad Arya. La sua voce era rauca, molto diversa da quella degli altri elfi. Ricordava a Eragon quella dei vecchi di Carvahall, seduti sotto il portico di casa a fumare la pipa e narrare storie. Arya sorrise. «Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita di casa, Rhunòn?»
«Dovresti saperlo. È stato per quella Festa di Mezza Estate dove mi hai trascinata a forza.»
«Tre anni fa.»
«Sul serio?» Rhunòn aggrottò la fronte, mentre premeva sulle braci e le copriva con una grata. «E allora? Trovo irritante la compagnia. Soltanto un mucchio di chiacchiere insulse che...» S'interruppe per rivolgere un'occhiata torva ad Arya. «Perché parliamo in questa stupida lingua? Immagino che tu voglia farmi forgiare una spada per lui. Lo sai che ho giurato di non creare mai più strumenti di morte, non dopo che quel Cavaliere traditore ha portato morte e distruzione con la mia lama.»