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Volodyk - Paolini2-Eldest

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«Viviamo nel Palazzo di Tialdari, la residenza dei nostri antenati, nella zona ovest di Ellesméra. Mi piacerebbe mostrarti la nostra casa, un giorno.»

«Ah.» Una domanda tecnica s'intromise nei pensieri confusi di Eragon, scacciando l'imbarazzo. «Arya, tu hai dei fratelli o delle sorelle?» Lei fece di no con la testa. «Allora sei l'unica erede al trono degli elfi?»

«Naturalmente. Perché me lo chiedi?» Suonò perplessa per la sua curiosità.

«Non capisco come mai ti sia stato concesso di diventare ambasciatrice presso i Varden e i nani, come anche di portare l'uovo di Saphira avanti e indietro da qui a Tronjheim. È una missione troppo pericolosa per una principessa, ancor più per una futura regina.»

«Vuoi dire troppo pericoloso per una donna umana. Ti ho già detto che non sono una delle vostre femmine inermi. Quello che non riesci a capire è che noi consideriamo i nostri sovrani in maniera diversa da quella vostra o dei nani. Per noi, la più grande responsabilità di un re o di una regina è quella di servire il popolo comunque e dovunque. Se questo significa sacrificare la nostra vita, abbracciamo con gioia l'occasione di dimostrare la nostra devozione, come dicono i nani, alla patria, al clan e all'onore. Se fossi morta nello svolgimento del mio dovere, sarebbe stato scelto un successore negli altri vari casati. Perfino adesso non è detto che diventi regina, se trovassi sgradevole la prospettiva. Noi non scegliamo monarchi che non siano disposti a dedicarsi del tutto ai loro obblighi.» Esitò, poi si strinse le ginocchia al petto e ci posò sopra il mento. «Non sai quanti anni ho passato a discutere questo argomento con mia madre.» Per un minuto, il cri-cri delle cicale proseguì indisturbato nella radura. Poi lei gli domandò: «Come vanno gli studi con Oromis?»

Eragon borbottò nel sentir riaffiorare il malumore indotto dai brutti ricordi che avvelenarono il piacere di stare con Arya. In quel momento desiderò soltanto ficcarsi sotto le coperte, dormire e dimenticare tutto. «Oromis-elda» disse, facendo attenzione a ogni parola prima di pronunciarla «è alquanto meticoloso.»

Lui trasalì quando l'elfa gli strinse il braccio con forza. «Qualcosa è andato storto?»

Lui cercò di liberarsi dalla stretta. «Niente.»

«Ho viaggiato con te abbastanza a lungo da sapere quando sei felice, arrabbiato... o sofferente. È successo qualcosa fra te e Oromis? Se è così, devi dirmelo perché si possa rimediare il prima possibile. O è stata la schiena? Potremmo...» «Non si tratta dell'addestramento!» Malgrado l'irritazione, Eragon notò che l'elfa sembrava sinceramente preoccupata, e in cuor suo ne fu contento. «Chiedi a Saphira. Lei può dirtelo.»

«Voglio sentirlo da te» rispose lei in tono sommesso.

Eragon strinse i denti, con la mascella contratta percorsa dagli spasmi. A bassa voce, non più di un sussurro, prima le descrisse come aveva fallito nella meditazione nella conca, poi l'incidente che gli ammorbava il cuore come una vipera in seno: la benedizione.

Arya gli liberò il braccio e si afferrò alla radice dell'albero di Menoa, come se stesse per cadere. «Barzul.» L'imprecazione dei nani lo allarmò; non l'aveva mai sentita pronunciare blasfemie prima, e quella era particolarmente adatta, poiché significava sciagura. «Sapevo del tuo gesto nel Farthen Dùr, ma non avrei mai pensato... mai sospettato che fosse successo una cosa del genere. Imploro il tuo perdono, Eragon, per averti costretto a lasciare la tua stanza, questa notte. Non ho compreso la tua pena. Volevi restare da solo.»

«No» disse lui, «no. Apprezzo la compagnia e le cose che mi hai mostrato.» Le sorrise e, dopo un istante, lei ricambiò il sorriso. Insieme rimasero seduti alla base dell'antico albero e contemplarono la luna che tracciava un arco nel cielo sopra la foresta silenziosa, prima di essere nascosta da un banco di nubi. «Mi chiedo solo che ne è stato della bambina.»

In alto sopra le loro teste, Blagden arruffò le penne candide e gridò: «Wyrda!»

Nasuada incrociò le braccia senza preoccuparsi davanti a lei.

Quello a destra aveva il collo così grosso che la testa gli sporgeva dalle spalle quasi ad angolo retto, dandogli un'aria ottusa. Per giunta aveva la fronte sporgente solcata da due sopracciglia così cespugliose da nascondergli quasi gli occhi, e labbra carnose che teneva strette a formare un fungo rosa, anche quando parlava. Ma Nasuada sapeva bene di non doversi fidare di quell'apparenza ripugnante. Per quanto alloggiata in un muso da idiota, la lingua dell'uomo era tagliente come un rasoio.

L'unica nota distintiva dell'altro era la pelle pallida, che si rifiutava di scurirsi persino sotto il sole inclemente del Surda, anche se i Varden si trovavano ad Aberon, la capitale, ormai da settimane. Dal suo colorito, Nasuada capì che era nato nelle propaggini più settentrionali dell'Impero. Teneva in mano un berretto di lana che continuava a torcere come uno straccio.

«Tu» fece lei, puntandogli un dito contro. «Quante galline dici che ti ha ucciso?»

«Tredici, signora.»

Nasuada rivolse la sua attenzione a quello brutto. «Un numero sempre sfortunato, mastro Gamble. Così è stato per te. Sei colpevole di furto e distruzione di proprietà altrui, senza aver offerto la ricompensa adeguata.» «Non l'ho mai negata.»

«Mi chiedo soltanto come hai fatto a mangiare tredici galline in quattro giorni. Non ti senti mai pieno, mastro Gamble?» Lui le rivolse un ghigno scherzoso e si grattò una guancia. Il rumore prodotto dalle unghie sulla barba incolta la infastidì, e fu soltanto grazie a un immane sforzo di volontà che evitò di chiedergli di smettere. «Be', non per mancare di rispetto, signora, ma riempirmi lo stomaco non sarebbe un problema se tu ci nutrissi come si deve, con tutto il lavoro che facciamo. Io sono un uomo grande e grosso, e devo riempirmi la pancia dopo mezza giornata passata a spaccare pietre con una mazza. Ho fatto del mio meglio per resistere alla tentazione, davvero. Ma tre settimane di razionamento, passate a guardare questi contadini che allevano grasso bestiame senza volerlo condividere con un morto di fame... Be', devo ammetterlo, ho ceduto. Non sono forte quando si tratta di cibo. Mi piace caldo e in abbondanza. E non credo di essere l'unico a volersi servire da solo.»

È questo il problema, si disse Nasuada. I Varden non potevano permettersi di sfamare a dovere tutti i loro membri, nemmeno con l'aiuto di Orrin, il re del Surda. Orrin aveva spalancato i suoi forzieri, ma si rifiutava di comportarsi come faceva Galbatorix quando spostava l'esercito nell'Impero, ossia requisire le scorte alimentari dei suoi sudditi senza pagarli. Un nobile sentimento, che però rende più difficile il mio compito. Eppure sapeva che proprio quel comportamento era ciò che distingueva lei, Orrin, Rothgar e Islanzadi dalla tirannia di Galbatorix. Sarebbe così facile valicare questo confine senza darvi importanza.

«Comprendo le tue ragioni, mastro Gamble. Tuttavia, sebbene i Varden non siano una nazione e non rispondano a nessuna autorità se non la nostra, questo non autorizza né te né nessun altro a ignorare le leggi emanate dai miei predecessori o quelle osservate qui nel Surda. Pertanto ti ordino di pagare una moneta di rame per ogni gallina che hai rubato.»

Gamble la sorprese accettando senza protestare. «Come desideri, signora.»

«Tutto qui?» esclamò l'uomo pallido, torcendo ancora di più il berretto. «Non è un prezzo equo. Se le avessi vendute al mercato, avrei...»

Nasuada non riuscì più a trattenersi. «Sì! Avresti guadagnato di più. Ma si da il caso che io sappia che mastro Gamble non può permettersi di pagarti il prezzo pieno delle galline, perché sono io che gli pago il salario! Come il tuo. Dimentichi che se decidessi di acquistare i tuoi polli per il bene dei Varden, te li pagherei non più di una moneta di rame ciascuno, e saresti fortunato. Intesi?»

Contrasti

di nascondere la sua impazienza mentre esaminava i due uomini «Ma non può...»

«Intesi?»

Dopo un momento, l'uomo pallido si arrese e mormorò: «Sì, signora.»

«D'accordo. Con voi due ho finito.» Con un'espressione di sardonica ammirazione, Gamble si sfiorò la fronte e s'inchinò a Nasuada, prima di indietreggiare lungo la sala di pietra insieme al suo avversario avvilito. «Anche voi potete andare» disse lei alle guardie appostate sull'uscio.

Non appena fu rimasta sola, si accasciò nella sedia con un sospiro sconsolato e prese il ventaglio, sventolandosi in un inutile tentativo di dissipare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Il caldo afoso la privava di energia e le rendeva difficile anche il compito più semplice.

Ma aveva la sensazione che si sarebbe sentita esausta anche se fosse stato inverno. Per quanto informata sui segreti più intimi dei Varden, le era costato molto più del previsto spostare l'intera organizzazione dal Farthen Dùr, attraverso i Monti Beor, fino al Surda e Aberon. Rabbrividì

al ricordo dei lunghi e disagevoli giorni passati in sella. Pianificare la partenza e metterla in pratica era stato oltremodo difficile, come lo era adesso il compito di integrare i Varden nel nuovo ambiente, preparando al tempo stesso un attacco all'Impero. Le mie giornate sono troppo brevi per risolvere tutti questi problemi, si lamentò fra sé. Alla fine, lasciò il ventaglio e tirò il cordone della campanella per chiamare la sua ancella, Farica. Lo stendardo appeso alla destra della scrivania di ciliegio sventolò quando si aprì la porta nascosta dietro di esso. Farica entrò nella stanza e si affiancò a Nasuada, a occhi bassi.

«Ce ne sono altri?» chiese Nasuada.

«No, signora.»

Nasuada cercò di non mostrare troppo sollievo. Una volta la settimana, riceveva a porte aperte i Varden che avevano bisogno di risolvere le loro dispute. Chiunque pensasse di aver subito un torto poteva chiederle udienza per ottenere giustizia. Nasuada non sapeva immaginare un compito più difficile e ingrato. Come le diceva spesso suo padre, dopo uno dei tanti negoziati con Rothgar, "un buon compromesso lascia tutti insoddisfatti". E così pareva. Rivolgendo l'attenzione alla questione sul tappeto, disse a Farica: «Voglio che a quel Gamble sia affidato un nuovo incarico. Dategli un lavoro dove possa mettere a frutto il suo talento con le parole. Furiere, per esempio, purché sia un lavoro con il quale ottenga razioni complete. Non voglio più vederlo davanti a me per aver rubato ancora.» Farica annuì e andò alla scrivania, dove annotò le istruzioni di Nasuada su una pergamena. Già il fatto che sapesse scrivere la rendeva indispensabile. Farica chiese: «Dove posso trovarlo?»

«In una delle squadre che lavorano nella cava.»

«Sì, signora. Oh, mentre eri impegnata, re Orrin ha chiesto che andassi da lui nel suo laboratorio.» «Che ha fatto questa volta, si è accecato?» Nasuada si lavò i polsi e il collo con acqua di lavanda, poi controllò l'acconciatura nello specchio di argento lucido che Orrin le aveva dato e si assestò la sopravveste per lisciarsi le maniche.

Soddisfatta del suo aspetto, uscì dalle sue stanze con Farica al seguito. Il sole era così splendente quel giorno che non occorrevano torce per illuminare l'interno del Castello Farnaci, né il loro calore sarebbe stato tollerabile. Fasci di luce penetravano dalle feritoie a croce che si aprivano nella parete del corridòio a intervalli regolari, tagliando l'aria con sbarre di polvere dorata. Nasuada guardò fuori da una feritoia verso il barbacane, dove oltre trenta elementi della cavalleria di Orrin, in tuniche arancio, si apprestavano al solito giro di perlustrazione nelle campagne che circondavano Aberon.

Non potrebbero fare molto se Galbatorix decidesse di attaccare, pensò amareggiata. La loro unica difesa era l'orgoglio di Galbatorix e, sperava, la sua paura di Eragon. Tutti usurpatori stessi avevano doppiamente paura della rappresentare. Nasuada sapeva di giocare un gioco molto pericoloso con il più potente pazzo di Alagaésia. Se si fosse sbagliata nel calcolare fino a quanto poteva provocarlo, lei e i Varden sarebbero stati distrutti, e con loro la speranza di porre fine al regno di Galbatorix.

L'odore di pulito del castello le rammentava le volte che vi era stata da bambina, ai tempi in cui il padre di Orrin, re Larkin, regnava ancora. All'epoca non vedeva spesso Orrin. Lui era più grande di lei di cinque anni, ed era già impegnato con i suoi incarichi di principe. Adesso però aveva la sensazione di essere lei la più grande. Davanti alla porta del laboratorio di Orrin, fu costretta a fermarsi e ad aspettare che le sue guardie del corpo, schierate sulla soglia, annunciassero la sua presenza. La voce di Orrin rimbombò nell'androne. «ledy Nasuada! Sono così felice che sei venuta. Ho qualcosa da mostrarti.»

Facendosi forza, Nasuada entrò nel laboratorio con Farica. Un labirinto di tavoli carichi di uno spropositato numero di alambicchi, ampolle e storte le aspettava, come un bosco di vetro in attesa di afferrare un lembo dei loro vestiti con un fragile ramo. L'odore acre dei vapori metallici fece lacrimare gli occhi di Nasuada. Sollevando l'orlo delle vesti da terra, le due donne si fecero strada verso il fondo della sala, passando davanti a clessidre e bilance, arcani volumi rilegati di ferro nero, astrolabi minuscoli, e pile di prismi di cristallo fosforescente che producevano lampi di luce azzurra. Trovarono Orrin chino su un banco dal piano di marmo, dove rimestava in un crogiolo di mercurio con un tubo di vetro chiuso a un'estremità e aperto dall'altra, che doveva misurare almeno tre piedi di lunghezza, anche se era spesso soltanto un quarto di pollice.

«Sire» disse Nasuada. Come si conveniva a una persona di rango pari al re, lei rimase ferma, mentre Farica faceva la riverenza. «A quanto pare ti sei ripreso dall'esplosione della settimana scorsa.»

Orrin le rivolse un sorriso bonario. «Ho imparato che non è saggio mescolare fosforo e acqua in uno spazio chiuso. Il risultato può essere alquanto violento.»

i sovrani conoscevano il rischio dell'usurpazione, ma gli

minaccia che un singolo individuo determinato poteva «Ti è tornato l'udito?»

«Non del tutto, ma...» Sorridendo come un ragazzino davanti al suo primo pugnale, il re accese una sottile candela con i carboni di un braciere - Nasuada non riusciva a capire come potesse sopportarlo con quel clima torrido -, poi riportò la fiammella al banco di lavoro e la usò per accendere una pipa riempita di foglie di cardo.

«Non sapevo che fumassi.»

«Infatti» confessò lui. «Solo che, grazie al mio timpano non ancora del tutto rimarginato, ho scoperto di essere capace di fare questo...» Trasse una boccata dalla pipa e gonfiò le guance finché un sottile filo di fumo non gli uscì dall'orecchio sinistro, come un serpentello che lasciava la tana e risaliva a spirale al lato della testa. Fu una scena così inaspettata che Nasuada scoppiò a ridere. Dopo un momento, anche Orrin prese a ridere, liberando uno sbuffo di fumo dalla bocca. «È una sensazione molto particolare» le confidò. «Fa un solletico terribile mentre esce.» Tornando seria, Nasuada gli chiese: «C'è qualcos'altro di cui vuoi discutere con me, sire?»

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