Volodyk - Paolini2-Eldest
«Eragon possiede già una spada» disse Arya. Alzò la mano e mostrò Zar'roc all'elfa.
Rhunòn prese Zar'roc con espressione stupita. Accarezzò il fodero color vinaccia, indugiò sul simbolo nero inciso, tolse una piccola incrostazione di terra dall'elsa, poi chiuse le dita sull'impugnatura ed estrasse la spada con tutta l'autorità di un guerriero. Esaminò entrambi i fili della spada, e flette la lama fra le mani finché Eragon non ebbe paura che si spezzasse. Poi, con un unico movimento, Rhunòn fece roteare Zar'roc in alto e la calò con forza sulle tenaglie, spezzandole in due con un tintinnio sonoro.
«Zar'roc» mormorò Rhunòn. «Mi ricordo di te.» Cullò la spada come una madre avrebbe fatto con il suo primogenito. «Perfetta come il giorno in cui hai visto la luce.» Voltando la schiena, alzò lo sguardo ai rami nodosi, mentre seguiva con le dita i contorni del pomello. «L'intera vita ho trascorso a forgiare queste spade dal metallo grezzo. Poi arrivò lui e le distrusse. Secoli di fatica cancellati in un istante. Sapevo che soltanto quattro esemplari della mia arte erano sopravvissuti. La sua spada, quella di Oromis, e altre due custodite da famiglie che erano riuscite a sottrarle ai Wyrdfell.»
Wyrdfell? domandò Eragon ad Arya con la mente.
Un altro nome per chiamare i Rinnegati.
Rhunòn si rivolse a Eragon. «Ora Zar'roc è tornata da me. Di tutte le mie creazioni, questa è l'ultima che mi aspettavo di rivedere. Come sei entrato in possesso della spada di Morzan?»
«Mi è stata data da Brom.»
«Brom?» L'elfa soppesò la spada con aria distratta. «Brom... mi ricordo di Brom. Mi implorò di sostituire per lui la spada che aveva perduto. Avrei voluto aiutarlo con tutto il cuore, ma avevo già pronunciato il mio giuramento. Il mio rifiuto lo fece andare su tutte le furie. Oromis dovette stenderlo con un colpo perché non voleva andarsene.» Eragon accolse l'informazione con interesse. «La tua spada mi ha servito bene, Rhunòn-elda. Sarei morto da tempo se non fosse stato per Zar'roc. Con essa ho ucciso lo Spettro Durza.»
«Davvero? Allora un po' di bene l'ha fatto.» Rinfoderò la spada e la restituì a malincuore al giovane, poi rivolse lo sguardo a Saphira. «Ah, lieta di conoscerti, Skulblaka.»
Piacere mio, Rhunon-elda.
Senza nemmeno prendersi il disturbo di chiedere il permesso, Rhunòn si avvicinò alla spalla di Saphira e le sfiorò una squama con le unghie corte, inclinando la testa da un lato e dall'altro nel tentativo di esaminare la placca translucida. «Bel colore. Non come quei draghi marroni, tutti fangosi e scuri. A dire il vero, la spada di un Cavaliere dovrebbe essere dello stesso colore del suo drago, e questo azzurro sarebbe stato perfetto per una lama...» Il pensiero parve sottrarle energia. Tornò all'incudine e guardò avvilita le tenaglie spezzate, come se non le importasse più di sostituirle. Eragon aveva la sensazione che sarebbe stato un peccato chiudere la conversazione su quel mesto registro, ma non riusciva a pensare a un modo corretto per cambiare argomento. Il corsaletto scintillante catturò la sua attenzione e, mentre lo studiava, rimase sbalordito nel vedere che ogni anello era saldato. Poiché gli anelli così piccoli si raffreddavano rapidamente, di solito bisognava saldarli prima di unirli al pezzo di maglia principale, il che significava che anche la maglia più fine - come l'usbergo di Eragon - era composta da elementi alternativamente saldati e ribattuti. A meno che il fabbro non possedesse la rapidità e la precisione dell'elfa.
Eragon disse: «Non ho mai visto una maglia come la tua, nemmeno fra i nani. Dove trovi la pazienza di saldare ogni anello? Perché non usi la magia e ti risparmi la fatica?»
Non si sarebbe mai aspettato lo sfogo di passione che infiammò Rhunòn. L'elfa scrollò la testa dai corti capelli e disse: «E privarmi del piacere del lavoro? Certo, tutti noi elfi possiamo usare la magia per soddisfare i nostri desideri, e alcuni lo fanno, ma allora che significato ha la vita? Come riempiresti il tempo? Dimmelo.»
«Non lo so» ammise Eragon.
«Perseguendo ciò che più ami. Quando puoi ottenere tutto quello che vuoi pronunciando qualche parola, non ha più importanza la meta, ma il viaggio per raggiungerla. Una lezione che ti servirà. Ti troverai ad affrontare lo stesso dilemma, un giorno, se vivrai abbastanza... Ma ora andate! Sono stanca di queste chiacchiere.» A queste parole, Rhunòn tolse il coperchio dalla forgia, prese un nuovo paio di tenaglie e immerse un anello nelle braci, azionando il mantice con foga.
«Rhunòn-elda» disse Arya, «ricorda. Tornerò a prenderti alla vigilia di Agaetf Blòdhren.» Un borbottio fu l'unica risposta.
Il ritmico tintinnio dell'acciaio sull'acciaio, solitario come il verso di un allocco nella notte, li accompagnò mentre ripassavano nel tunnel di sanguinella e riprendevano il sentiero. Alle loro spalle, Rhunòn non era più che una sagoma nera china sul bagliore rosseggiante della forgia.
«Ha fabbricato tutte le spade dei Cavalieri?» chiese Eragon. «Fino all'ultima?»
«Questo e anche di più. È il più grande fabbro mai esistito. Ho pensato che sarebbe stato interessante incontrarvi, sia per lei che per te.»
«Grazie.»
È sempre così brusca? chiese Saphira.
Arya rise. «Sempre. Per lei nulla ha importanza tranne il suo lavoro, ed è famosa per non tollerare che qualcosa o qualcuno interferisca con esso. Tuttavia sopportiamo le sue stravaganze per le sue incredibili capacità.» Mentre parlava, Eragon cercò di trovare il significato di Agaeti Blodhren. Era sicuro che blodh stesse per sangue, e che blò'dhren significasse quindi giuramento di sangue, ma non aveva mai sentito la parola agaeti.
«Celebrazione» gli spiegò Arya. «La Celebrazione del Giuramento di Sangue si tiene una volta ogni secolo, per onorare il nostro patto con i draghi. Siete entrambi fortunati a trovarvi qui in questa occasione, perché siamo molto vicini...» Le sopracciglia oblique si incontrarono quando aggrottò la fronte. «Il fato ha predisposto la più augurale delle coincidenze.»
Continuò a condurre Eragon sempre più nel folto della Du Weldenvarden, lungo sentieri fiancheggiati da ortiche e cespugli di uvaspina, finché la luce intorno a loro svanì e si addentrarono nella natura selvaggia. Nel buio, Eragon dovette affidarsi all'acuta visione notturna di Saphira per non smarrirsi. Gli alberi nodosi e contorti diventarono sempre più grandi e fitti, minacciando di formare una barriera impenetrabile. Proprio quando sembrava che non fosse possibile proseguire oltre, la foresta terminò per aprirsi su una radura bagnata dal chiaro di luna della falce che splendeva nel cielo a oriente.
Un pino solitario svettava al centro della radura. Non più alto del resto dei suoi simili, era però largo quando un centinaio di tronchi messi insieme; in confronto, gli altri pini sembravano giovani alberelli in balia del vento. Un tappeto di radici si estendeva dal tronco massiccio, coprendo il terreno di venature legnose che davano l'impressione che l'intera foresta nascesse dall'albero, come se fosse il cuore della Du Weldenvarden stessa. L'albero troneggiava nel bosco come una matriarca benevola, proteggendo i suoi abitanti sotto il tetto dei suoi rami.
«Questo è l'albero di Menoa» sussurrò Arya. «Festeggiamo l'Agaeti Blòdhren nella sua ombra.» Un brivido gelido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare quel nome. Dopo che Angela gli aveva predetto la sorte a Teirm, Solembum gli si era avvicinato dicendo: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto l'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon non riusciva a immaginare quale tipo di arma potesse nascondersi sotto l'albero, né come avrebbe potuto trovarla.
Vedi niente? chiese a Saphira.
No, ma dubito che le parole di Solembum avranno un senso finché non si presenterà l'occasione. Eragon riferì ad Arya l'ammonimento del gatto mannaro, anche se, come aveva fatto con Ajihad e Islanzadi, tenne per sé la profezìa di Angela a causa della sua natura personale, e perché temeva che potesse indurre Arya a indovinare la sua attrazione per lei.
Quando ebbe finito, Arya disse: «I gatti mannari di rado offrono aiuto, ma quando lo fanno non devono essere ignorati. Per quanto ne so, non c'è nessuna arma sepolta qui, e non ne parlano nemmeno i canti o le leggende. Per quanto riguarda la rocca di Kuthian... il nome mi riecheggia nella mente come una voce da un sogno dimenticato, familiare, eppure estraneo. L'ho già sentito, ma non ricordo dove.»
Mentre si avvicinavano all'albero di Menoa, l'attenzione di Eragon fu catturata dalla moltitudine di formiche che zampettavano sulle radici. Gli insetti non erano che minuscoli puntini neri, ma il compito che Oromis gli aveva affidato lo aveva reso più attento alle forme di vita che lo circondavano, e adesso riusciva a percepire la primitiva coscienza delle formiche nella mente. Abbassò le difese e consentì alla propria coscienza di fluire all'esterno, sfiorando Saphira e Arya per poi espandersi e vedere che cos'altro viveva nella radura.
All'improvviso incontrò un'immensa entità, un essere senziente di una natura così colossale da non poter trovare i confini della sua psiche. Persino il vasto intelletto di Oromis, con cui Eragon era entrato in contatto nel Farthen Dùr, era modesto in confronto a questa presenza. L'aria stessa sembrava ronzare di energia e forza emanata da... dall'albero? La fonte era inequivocabile.
Con deliberata e inesorabile volontà, i pensieri dell'albero si espansero a ritmo misurato, lento come l'avanzare del ghiaccio sul granito. Non si soffermò su Eragon, ne era certo, né sui singoli individui, ma abbracciò completamente tutte le cose che crescevano e prosperavano al sole, dall'apocino al giglio, dall'enagra alla serica digitale alla senape gialla che svettava alta dietro il melo selvatico dai boccioli purpurei.
«È sveglio!» esclamò Eragon, sbalordito. «Voglio dire... è intelligente.» Sapeva che anche Saphira lo percepiva; la dragonessa allungò la testa verso l'albero di Menoa, come in ascolto, poi volò su uno dei suoi rami, grosso quanto la strada che portava da Carvahall a Therinsford. Lì rimase appollaiata, facendo ondeggiare con grazia la coda penzoloni. Era uno spettacolo così inconsueto, un drago su un albero, che Eragon quasi scoppiò a ridere.
«Certo che è sveglia!» disse Arya. La sua voce era bassa e melodiosa nell'aria notturna. «Vorresti sentire la storia dell'albero di Menoa?»
«Volentieri.»
Una sagoma bianca sfrecciò nel cielo come un fantasma e si posò accanto a Saphira. Era Blagden. Le spallucce e il collo corto del corvo gli davano l'aspetto di uno spilorcio che si bea al fulgore dell'oro. Il corvo levò la pallida testa e lanciò il suo profetico grido: «Wyrda!»
«Ecco cosa accadde. Un tempo viveva una donna, Linnéa, negli anni delle spezie e del vino, prima della nostra guerra contro i draghi, e prima che diventassimo immortali, come lo può essere una creatura pur sempre fatta di carne vulnerabile. Linnéa era invecchiata senza il conforto di un compagno o dei figli, ma non ne aveva mai sentito la mancanza, poiché preferiva dedicarsi all'arte del cantare alle piante, di cui era maestra. Questo finché un giovane uomo non bussò alla sua porta e la circuì con parole d'amore. Il suo affetto risvegliò in lei una parte che non aveva mai sospettato di avere, un forte desiderio di sperimentare le cose che aveva inconsapevolmente sacrificato. L'offerta di una seconda opportunità era troppo allettante per ignorarla. Trascurò il suo lavoro e si dedicò al ragazzo, e per un certo periodo furono felici.
«Ma l'uomo era giovane, e cominciò a desiderare una compagna più vicina alla sua età. I suoi occhi caddero su una fanciulla, e lui la corteggiò e la conquistò. E per un certo periodo anche loro furono felici.
«Quando Linnéa scoprì di essere stata ripudiata, tradita e abbandonata, impazzì di dolore. Il giovane uomo aveva fatto la peggiore cosa possibile: le aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela senza farsi il minimo scrupolo, come un galletto che passa da una gallina all'altra. Linnéa lo trovò con la donna e, in un accesso d'ira, lo pugnalò a morte.
«Linnéa sapeva di aver fatto una cosa terribile. Sapeva anche che se anche l'avessero perdonata per il delitto, non sarebbe mai potuta tornare alla sua esistenza precedente. La vita aveva perso ogni gioia per lei. Così andò vicino all'albero più antico della Du Weldenvarden, premette il suo corpo contro il tronco e si cantò dentro l'albero, recidendo ogni legame con la propria razza. Per tre giorni e tre notti cantò, e quando ebbe finito, era diventata tutt'uno con le sue adorate piante. E da allora, nel corso dei millenni, ha fatto la guardia alla foresta. Così nacque l'albero di Menoa.»
Al termine del racconto, Arya ed Eragon si sedettero fianco a fianco su di un'enorme radice sporgente. Eragon faceva rimbalzare i talloni contro il legno, domandandosi se Arya gli avesse raccontato quella storia come monito o soltanto come semplice aneddoto.
Il suo dubbio divenne certezza quando lei gli domandò: «Credi che la colpa della tragedia sia del giovane uomo?» «Credo» disse lui, sapendo che una risposta inadeguata l'avrebbe fatta infuriare «che quello che fece lui fu crudele, e che Linnéa reagì in maniera spropositata. Erano entrambi in torto.»
Arya continuò a fissarlo, finché lui non abbassò lo sguardo. «Non erano fatti l'uno per l'altra.»
Eragon fece per obiettare, ma si fermò. Arya aveva ragione. E lo aveva manipolato perché fosse lui a dirlo ad alta voce, perché fosse lui a dirlo a lei. «Può darsi» ammise.
Il silenzio crebbe fra di loro come sabbia che si accumula a formare una barriera, senza che nessuno dei due avesse intenzione di abbatterla. L'acuto frinire delle cicale riecheggiava dai margini della radura. Alla fine, lui disse: «Sembri felice di essere tornata a casa.»
«Lo sono.» Con estrema naturalezza, l'elfa si chinò a raccogliere un rametto che era caduto dall'albero di Menoa e cominciò a intrecciare un cestino con una manciata di aghi di pino.
Eragon si sentì affluire il sangue al viso mentre la guardava. Sperò che il debole chiarore della luna non bastasse a rivelare le chiazze rosse che gli imporporavano le guance. «Dove... dove vivi? Tu e Islanzadi avete un palazzo o un castello...?»
«Viviamo nel Palazzo di Tialdari, la residenza dei nostri antenati, nella zona ovest di Ellesméra. Mi piacerebbe mostrarti la nostra casa, un giorno.»
«Ah.» Una domanda tecnica s'intromise nei pensieri confusi di Eragon, scacciando l'imbarazzo. «Arya, tu hai dei fratelli o delle sorelle?» Lei fece di no con la testa. «Allora sei l'unica erede al trono degli elfi?»
«Naturalmente. Perché me lo chiedi?» Suonò perplessa per la sua curiosità.