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Volodyk - Paolini2-Eldest

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Quando pioveva, la coltre di nubi e la densità del fogliame li facevano piombare in una fitta tenebra, come se fossero sepolti sottoterra. L'acqua scrosciante si raccoglieva sugli aghi di pino per poi gocciolare dall'alto sulle loro teste come un migliaio di piccole cascate. In quelle occasioni, Arya evocava un globo sfavillante di magia verde che fluttuava sulla sua mano destra, unica fonte di luce nella buia foresta. Si fermavano e si rannicchiavano sotto un albero finché il temporale non cessava, ma anche ore dopo l'acqua intrappolata nella miriade di rami si riversava sul gruppo alla minima sollecitazione.

Più si addentravano nel cuore della Du Weldenvarden, più gli alberi diventavano alti e massicci, sebbene più distanziati per ospitare la maggiore ampiezza dei rami. I tronchi - nudi pilastri marroni che svettavano fino alla volta scanalata e nera di ombre - superavano i duecento piedi, molto più alti di qualsiasi albero della Grande Dorsale o dei Monti Beor. Eragon girò intorno alla base di un tronco e misurò una circonferenza di settanta piedi. Quando lo disse ad Arya, lei annuì. «Significa che siamo vicini a Ellesméra.» L'elfa allungò una mano e la posò su una radice contorta, come a toccare, con familiare delicatezza, la spalla di un amico o di un amante. «Questi alberi sono fra le più antiche creature viventi di Alagaésia. Gli elfi se ne sono innamorati la prima volta che vedemmo la Du Weldenvarden, e abbiamo fatto tutto quanto era in nostro potere per aiutarli a prosperare.» Un debole raggio di luce attraversò la volta smeraldina e bagnò il suo braccio e il suo viso d'oro liquido, facendoli risaltare sullo sfondo scuro. «Abbiamo viaggiato molto insieme, Eragon, ma soltanto adesso stai per entrare nel mio mondo. Cammina piano, poiché la terra e l'aria sono carichi di ricordi, e niente è come sembra... Non volare con Saphira quest'oggi, poiché abbiamo già attivato alcuni degli incantesimi di difesa che proteggono Ellesméra. Non sarebbe prudente lasciare il sentiero.» Eragon chinò la testa e tornò da Saphira, che giaceva raggomitolata su un letto di muschio, divertendosi a soffiare dalle narici nuvolette di fumo che poi guardava dissolversi in aria. Senza tanti preamboli, lei disse: Ormai c'è abbastanza spazio per me sul terreno. Non avrò difficoltà.

Bene. Eragon montò su Folkvir e seguì Orik e gli elfi sempre più nel folto della foresta deserta e silenziosa. Saphira strisciava al suo fianco. La dragonessa azzurra e i cavalli bianchi rilucevano nella cupa penombra. Eragon sostò per qualche minuto, soggiogato dalla solenne bellezza che lo circondava. Tutto emanava un senso di gelida antichità, come se nulla fosse cambiato nel corso dei secoli sotto l'intrico di aghi di pino, e nulla potesse cambiare; il tempo stesso sembrava essere caduto in una specie di torpore da cui non si sarebbe mai svegliato. Nel tardo pomeriggio, dall'oscurità emerse un elfo, illuminato da un raggio di luce che pioveva fra i rami. Indossava una lunga veste fluttuante e un cerchietto d'argento sulla fronte. Il suo volto era vecchio, nobile e sereno. «Eragon» mormorò Arya. «Mostragli il tuo palmo e il tuo anello.»

Togliendosi il guanto Eragon alzò la mano destra a mostrare prima l'anello di Brom e poi il gedwéy ignasia. L'elfo sorrise, chiuse gli occhi e allargò le braccia in segno di benvenuto.

«La via è libera» disse Arya, poi mormorò un dolce comando e il suo cavallo riprese a camminare. Aggirarono l'elfo come l'acqua di un torrente si divide intorno alla base di un macigno - e quando furono tutti passati, l'elfo abbassò le braccia e scomparve, mentre la luce che lo illuminava cessava di esistere.

Chi è? domandò Saphira.

«Gilderien il Saggio» rispose Arya, «Principe del Casato di Miolandra, depositario della Bianca Fiamma di Vàndil, e guardiano di Ellesméra fin dai tempi della Du Fyrn Skulblaka, la nostra guerra contro i draghi. Nessuno può entrare nella città senza il suo permesso.»

Un quarto di miglio più avanti, la foresta si diradò e nella volta di rami comparvero squarci da cui filtravano raggi di sole simili a sbarre di un cancello di luce. Proseguirono sotto due alberi nodosi, inclinati l'uno verso l'altro, e si fermarono ai margini di una radura deserta.

Il suolo era ricoperto da un tappeto di fiori: rose, campanule, gigli, tutti gli effimeri tesori della primavera scintillavano come cumuli di rubini, zaffiri e opali. Il loro profumo inebriante attirava sciami di bombi. A destra, un ruscello gorgogliava dietro una siepe di arbusti, mentre due scoiattoli si rincorrevano intorno a una roccia. Al principio Eragon pensò che fosse un luogo ideale per i cervi, ma continuando a osservare, cominciò a scorgere sentieri nascosti fra gli alberi e i cespugli; una calda luce soffusa dove normalmente avrebbero dovuto esserci ombre scure; strane conformazioni nella disposizione dei rami e dei fiori, così sottili che si vedevano appena: tutti indizi del fatto che quanto vedeva non era del tutto naturale. Batte le palpebre, e la sua visione cambiò all'improvviso, come se si fosse posto davanti agli occhi una lente che rendeva riconoscibili le sagome. Sì, quelli erano sentieri. E sì, quelli erano fiori. Ma ciò che aveva scambiato per gruppi di alberi contorti erano in realtà eleganti costruzioni che crescevano direttamente dai pini.

Il tronco di un albero aveva un rigonfiamento intorno alla base che formava una casa di due piani, prima di affondare le radici nel terriccio. Entrambi i piani erano esagonali, anche se quello superiore era grande la metà del primo, dando alla casa un aspetto terrazzato. I tetti e le pareti erano rivestiti di falde di legno intrecciate, addossate a sei robuste nervature in rilievo. Muschio e licheni gialli orlavano le grondaie e pendevano sulle finestre che si affacciavano su ciascun lato. La porta d'ingresso era una misteriosa sagoma nera incassata sotto un arco intagliato di simboli. Un'altra casa era annidata fra tre pini, uniti a essa mediante una serie di rami ricurvi. Rinforzata da questi bastioni aerei, la casa si ergeva per ben cinque piani, leggera ed eterea; al suo fianco si apriva un pergolato fatto di salice e sanguinella, con numerose lanterne senza fiamma a foggia di galle.

Ogni edificio si integrava perfettamente con l'ambiente circostante, fondendosi con la foresta senza linee di demarcazione evidenti, tanto che era impossibile dire dove finisse l'artificio e cominciasse la natura: i due erano in perfetto equilibrio. Invece di dominare l'ambiente, gli elfi avevano scelto di accettare il mondo com'era e di adattarsi a esso.

Alla fine, gli abitanti di Ellesméra si rivelarono con un debole movimento che Eragon colse con la coda dell'occhio, non più di un fruscìo di aghi nella brezza. Poi vide mani, un volto pallido, un piede che calzava un sandalo, un braccio alzato. Uno dopo l'altro, con aria circospetta, gli elfi si palesarono, gli occhi a mandorla fissi su Saphira, Arya ed Eragon.

Le donne portavano i capelli sciolti, che ricadevano sulle loro spalle in morbide onde d'argento e d'ebano intrecciate di fiori freschi. Tutte possedevano una delicata, eterea bellezza che dissimulava la loro forza straordinaria; sembravano prive di qualsiasi difetto. Gli uomini erano altrettanto attraenti, con zigomi alti, nasi diritti e palpebre pesanti. Sia i maschi che le femmine indossavano rustiche tuniche verdi e marroni, bordate con i colori dell'autunno: arancio, ruggine e oro.

Questo è davvero il Popolo Leggiadro, pensò Eragon, e si toccò le labbra in segno di saluto.

Come un sol uomo, gli elfi si inchinarono. Poi sorrisero e levarono risate di gioia sfrenata. Dal centro della folla, una donna intonò:

Gala O Wyrda brunhvitr, Abr Berundal vandr-fódhr, Burthro laufsblàdar ekar undir, Eom kona dauthleikr... Eragon si tappò le orecchie con le mani, temendo che la melodia fosse un incantesimo simile a quello che aveva udito a Sìlthrim, ma Arya scosse il capo e gli scostò le mani dal volto. «Non è magia.» Poi si rivolse al cavallo. «Ganga.» Lo stallone nitrì e trottò via. «Congedate i vostri cavalli. Non abbiamo più bisogno di loro ed essi meritano di riposarsi nelle nostre stalle.»

La canzone crebbe d'intensità mentre Arya avanzava lungo un sentiero lastricato di frammenti di tormalina verde, che serpeggiava fra i cespugli di malvone e le case e gli alberi per poi attraversare un ruscello. Gli elfi danzavano intorno al gruppo, girando su se stessi e ridendo come bambini giocosi; di tanto in tanto qualcuno saltava su un ramo per correre sopra le loro teste. Lodavano Saphira con nomi quali Lungartiglio oppure Figlia dell'Aria e del Fuoco o anche la Possente.

Eragon sorrideva estasiato. Potrei restare a vivere qui, si disse, pervaso da un grande senso di pace. Nascosto nel cuore della Du Weldenvarden, con tanto spazio aperto e tanti anfratti sicuri, dimentico del resto del mondo... Sì, gli piaceva molto Ellesméra, molto più di qualsiasi città dei nani. Indicò una costruzione situata in un pino e chiese ad Arya: «Come fate?»

«Cantiamo alla foresta nell'antica lingua e le diamo la nostra forza per crescere nelle forme che desideriamo. Tutti i nostri manufatti sono realizzati così.»

Il sentiero terminava davanti a un fitto intrico di radici che formavano una serie di nudi gradini. Salirono verso un portale incassato in una parete di giovani alberelli. Il cuore di Eragon accelerò quando i battenti si spalancarono, all'apparenza da soli, per rivelare un'enorme sala alberata. Centinaia di rami si intrecciavano a formare un soffitto a nido d'ape; lungo ciascuna delle due pareti erano disposti dodici scranni.

Su di essi erano seduti ventiquattro elfi, fra dame e signori.

D'aspetto nobile e saggio, con volti lisci senza traccia di età e occhi sagaci che scintillavano di eccitazione, gli elfi si protesero con le mani strette sui braccioli degli scranni, e fissarono il gruppo di Eragon con evidente stupore e speranza. Diversamente dagli altri elfi, portavano spade alla cintura - le impugnature tempestate di berilli e granati - e cerchietti sulla fronte.

In fondo spiccava un padiglione bianco che ospitava un trono di radici nodose, su cui era seduta la regina Islanzadi. Bella come un tramonto d'autunno, altera e orgogliosa, con due scure sopracciglia oblique come ali spiegate, labbra rosse e lucenti come bacche di agrifoglio e capelli neri come la notte cinti da un diadema di diamanti. La sua veste era cremisi. Intorno ai fianchi portava una cintura di filigrana d'oro, e sulle spalle un mantello di velluto che ricadeva in terra in morbide pieghe. Malgrado il suo aspetto imperioso, la regina sembrava fragile, come se nascondesse un grande dolore.

Accanto alla mano sinistra c'era un trespolo ricurvo che terminava con una croce cesellata. Su di esso se ne stava appollaiato un corvo dal candido piumaggio, che spostava impaziente il peso da una zampa all'altra. Tese il collo e scrutò Eragon con straordinaria intelligenza, poi emise un lungo verso rauco e gridò: «Wyrda!» Eragon rabbrividì per la potenza di quell'unica parola gracchiante.

La porta si chiuse dietro i sei, non appena entrarono nella sala avvicinandosi alla regina. Arya s'inginocchiò sul pavimento coperto di muschio e chinò la testa per prima, poi Eragon, Orik, Lifaen e Nari la imitarono. Perfino Saphira, che non si era mai inchinata davanti a nessuno, nemmeno davanti ad Ajihad o a Rothgar, abbassò la testa. Islanzadi si alzò e scese dal trono; lo strascico del mantello fluttuò sulle radici del podio. Si fermò davanti ad Arya, le posò le mani tremanti sulle spalle e disse, con un profondo vibrato: «Alzati.» Arya obbedì, e la regina scrutò il suo volto con tensione crescente, come se stesse cercando di decifrare un testo oscuro.

Alla fine Islanzadi le gettò le braccia al collo, gridando: «Ti ho trattata ingiustamente, figlia mia!»

La regina Islanzadi

Eragon s'inginocchiò al cospetto della regina degli elfi e dei suoi consiglieri in quella sala meravigliosa fatta di tronchi di alberi viventi, in una terra quasi mitica, e l'unica cosa che riusciva a pensare, sbalordito, era: Arya è una principessa! In un certo senso, i conti tornavano - l'elfa aveva sempre avuto una certa aria regale - ma il suo rammarico era profondo, poiché era un'altra barriera fra loro, se mai fosse riuscito ad abbattere le altre. La scoperta gli riempì la bocca col sapore della cenere. Rammentò la profezìa di Angela, secondo cui avrebbe amato una donna di nobile stirpe, e che non era in grado di prevedere se sarebbe andata a finire bene o male.

Percepì anche la sorpresa di Saphira, poi il suo divertimento. La dragonessa disse: A quanto pare abbiamo viaggiato in compagnia di sangue reale senza saperlo.

Perché non ce l'ha detto?

Perché probabilmente questo l'avrebbe messa in pericolo.

«Islanzadi Dròttning» disse Arya in tono formale.

La regina si ritrasse come se l'avessero schiaffeggiata, poi ripetè nell'antica lingua: «Figlia mia, ti ho tratta ingiustamente.» Si coprì il volto. «Da quando sei scomparsa, non ho quasi mangiato o dormito. Ero angosciata per la tua sorte, e temevo di non rivederti mai più. Che terribile, terribile sbaglio ho commesso... Potrai perdonarmi?» Gli elfi riuniti bisbigliarono turbati.

Arya rispose dopo quella che parve un'eternità. «Per settant'anni ho vissuto e amato, combattuto e ucciso senza mai parlarti, madre mia. Benché le nostre vite siano lunghe, questo non è certo un breve periodo.»

Islanzadi si ricompose e alzò il fiero mento, percorso da un lieve tremito. «Non posso disfare il passato, Arya, anche se lo desidero con tutto il cuore.»

«E io non posso dimenticare quanto ho subito.»

«E non devi.» Islanzadi afferrò le mani della figlia. «Arya, io ti voglio bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te.»

Per un terribile momento parve che Arya non volesse rispondere, o peggio, che intendesse rifiutare l'offerta. Eragon la vide esitare e scoccare occhiate fugaci ai presenti. Poi l'elfa abbassò gli occhi e disse: «No, madre. Non me ne andrò.» Islanzadi accennò un sorriso incerto, poi abbracciò di nuovo la figlia. Questa volta Arya ricambiò il gesto, e sui volti degli elfi si dipinsero sorrisi soddisfatti.

Il corvo bianco saltellò sul trespolo, gracchiando: «E sul portale venne inciso a ricordare quel che sarà il motto familiare, Che tra noi ci si possa sempre amare!»

«Zitto, Blagden» intimò Islanzadi al corvo. «Tieni per te le tue rime strampalate.» Liberandosi dall'abbraccio, la regina si rivolse a Eragon e Saphira. «Vi prego di scusarmi per essere stata scortese e avervi ignorati, voi che siete i nostri ospiti più importanti.»

Eragon si toccò le labbra e poi torse la mano destra portandola al petto, come gli aveva insegnato Arya. «Islanzadi Dròttning. Atra esterni ono thelduin.» Non c'erano dubbi su chi dovesse parlare per primo.

Gli occhi neri di Islanzadi si spalancarono. «Atra du evarìnya ono varda.»

«Un atra mor'ranr lifa unin hjarta onr» rispose Eragon, completando il rituale. Capì che gli elfi erano rimasti di stucco nel vedere che conosceva bene le loro usanze. Nella mente, ascoltò Saphira che ripeteva il saluto alla regina. Quando finì, Islanzadi domandò: «Drago, qual è il tuo nome?»

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