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Volodyk - Paolini2-Eldest

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Lei dov'è?

Al contrario di quando erano arrivati la prima volta, i soldati erano laceri ed esausti, le armi graffiate e le corazze ammaccate. Quasi tutti ostentavano bende macchiate di bruno sangue rappreso. Gli uomini erano ammassati insieme, di fronte ai due Ra'zac - entrambi incappucciati intorno a un falò da campo.

Uno stava gridando: «... più della metà di noi uccisi da un branco di bifolchi pidocchiosi che non sanno distinguere una picca da una scure, o trovare la punta di una spada nemmeno se ce l'hanno piantata nelle budella, perché voi non avete nemmeno un'oncia del cervello del mio scudiero! Non m'importa se Galbatorix in persona vi lustra gli stivali con la lingua, noi non muoveremo più un dito se non avremo un nuovo comandante.» Gli uomini annuirono. «Uno che sia umano.»

«Sssul ssserio?» sibilò piano un Ra'zac.

«Ne abbiamo abbastanza di prendere ordini da due storpi come voi, con tutti i vostri schiocchi e fischi e sibili... ci date la nausea! E non so cosa avete fatto a Sardson, ma se resterete un'altra notte, vi pianteremo l'acciaio in corpo per vedere se sanguinate come noi. Ma potete lasciare la ragazza, che...»

L'uomo non ebbe possibilità di proseguire, perché il Ra'zac più grosso gli saltò addosso volando sul fuoco, come un corvo gigantesco. Urlando, il soldato crollò sotto il suo peso. Tentò di sguainare la spada, ma il Ra'zac lo colpì due volte alla gola con il becco nascosto, e l'uomo giacque immobile.

«Dobbiamo combattere con quelli?» mormorò Ivor alle spalle di Roran.

I soldati rimasero impietriti dallo spavento, mentre i Ra'zac si abbeveravano al collo del cadavere. Quando le nere creature si alzarono, si strofinarono le mani, e dissero: «Sssì. Ce ne andremo. Voi ressstate, ssse volete. I rinforzi arriveranno a giorni.» I Ra'zac reclinarono indietro la testa e cominciarono a gridare al cielo, uno strido sempre più acuto fino a superare la soglia dell'udito.

Roran alzò lo sguardo. Lì per lì non vide niente, ma poi un terrore senza nome lo afferrò nello scorgere due ombre frastagliate comparire sulla Grande Dorsale, eclissando le stelle. Avanzavano rapide, diventando sempre più grosse fino a oscurare metà del cielo con la loro lugubre presenza. Un vento rancido spazzò la terra, portando con sé miasmi sulfurei che fecero tossire Roran fino a farsi venire i conati.

I soldati ne furono altrettanto ammorbati; le loro maledizioni riecheggiarono nella notte, mentre si premevano maniche e sciarpe sul naso.

Sopra di loro, le ombre si fermarono e cominciarono a discendere a spirale, chiudendo l'accampamento sotto una volta di tenebre minacciose. Le torce languenti tremolarono e rischiarono di spegnersi, ma illuminarono ugualmente le due bestie che atterravano fra le tende.

I loro corpi erano nudi e glabri, come di topi appena nati, la pelle grigia e coriacea, tesa sui toraci e sui ventri nervati. Nell'aspetto ricordavano due cani smunti e affamati, ma le zampe posteriori erano dotate di muscoli possenti in grado di schiantare un macigno. Le teste oblunghe recavano sulla nuca una cresta sottile, cui faceva da contraltare un lungo e diritto becco nero, adatto a infilzare le prede, su cui spiccavano un paio di gelidi occhi bulbosi identici a quelli dei Ra'zac. Dalle spalle e dai dorsi partivano enormi ali che facevano gemere l'aria con i loro battiti imperiosi. Gettandosi a terra, i soldati si strinsero gli uni agli altri, nascondendosi il volto per non vedere i mostri. Una terribile, aliena intelligenza emanava da quelle creature, narrando di una razza molto più antica e molto più potente di quella umana. All'improvviso Roran ebbe paura che la missione potesse fallire. Dietro di lui, Horst sussurrò agli uomini di restare immobili e nascosti, o sarebbero stati uccisi.

I Ra'zac s'inchinarono davanti alle bestie, poi s'infilarono in una tenda e ne uscirono portando Katrina - legata con delle corde - e Sloan. Il macellaio camminava libero.

Roran rimase a bocca aperta, incapace di comprendere come mai Sloan fosse stato catturato. Casa sua non è vicina a quella di Horst. Poi lo folgorò un pensiero. «Ci ha traditi» mormorò con un filo di voce. La mano si strinse lentamente sull'impugnatura del martello nel sentirsi travolto da tutto l'orrore della situazione. «Ha ucciso Byrd e ci ha traditi!» Lacrime di rabbia gli solcarono il viso.

«Roran» mormorò Horst, accovacciandosi al suo fianco. «Non possiamo attaccare adesso; ci ucciderebbero. Roran... mi senti?»

Roran non udiva che un fievole sussurro in lontananza, mentre osservava il Ra'zac più piccolo balzare in groppa a una bestia per poi afferrare Katrina, che l'altro Ra'zac gli porgeva. Sloan aveva l'aria sconvolta e terrorizzata, adesso. Cominciò a protestare con i Ra'zac, scuotendo il capo e indicando il suolo. Alla fine, un Ra'zac lo colpì sulla bocca, scaraventandolo a terra privo di sensi. Montando in groppa alla seconda bestia con il macellaio sotto il braccio, il Ra'zac più grosso dichiarò: «Torneremo quando la sssituazione sssarà di nuovo sssicura. Uccidete il ragazzo, e perderete la vita.» Poi le bestie mostruose piegarono le cosce possenti e spiccarono il volo, tornando a essere ombre contro il firmamento stellato.

Roran si sentiva svuotato di parole ed emozioni. Era distrutto. Non gli restava altro che uccidere i soldati. Si alzò, brandendo il martello per prepararsi alla carica, ma quando fece il primo passo, la spalla ferita gli esplose in un'ondata di dolore che si propagò fino alla testa, il terreno turbinò in un vortice di luce, e lui cadde nell'oblio.

Un cuore trafitto

Dopo aver lasciato l'avamposto di Ceris, il tempo trascorse in una serie di tiepide e lente giornate, passate a remare lungo il lago Eldor e, in seguito, il fiume Gaena. L'acqua mormorava intorno a loro, scorrendo in una galleria di pini verdeggianti che s'inoltrava sempre più nel cuore della Du Weldenvarden.

A Eragon piaceva moltissimo viaggiare con gli elfi. Narì e Lifaen non facevano che sorridere, oppure ridere, o intonare canzoni, specie quando c'era Saphira nei paraggi. Di rado guardavano altrove o parlavano di un altro argomento se non di lei, in sua presenza.

Tuttavia gli elfi non erano umani, nonostante le vaghe somiglianze nell'aspetto. Si muovevano troppo in fretta, con troppa agilità per essere creature fatte di semplice carne e sangue. E quando parlavano, spesso usavano frasi involute e aforismi che lasciavano Eragon più confuso di quando avevano cominciato. Fra uno scoppio d'ilarità e l'altro, Narì e Lifaen rimanevano in silenzio per ore, osservando l'ambiente attorno con un'espressione di raggiante rapimento sul volto. Se Eragon od Orik provavano a parlare con loro durante questi periodi di contemplazione, ricevevano in risposta al massimo una parola o due.

Al confronto, Arya era molto più loquace e schietta. A dire il vero, sembrava a disagio davanti a Nari e Lifaen, come se non fosse più sicura di come comportarsi con quelli della sua razza.

Dalla prua della canoa, Lifaen si guardò indietro e disse:

«Dimmi, Eragon-finiarel... Cosa canta il tuo popolo di questi tempi bui? Ricordo le epiche e le ballate che ascoltavo a Ilirea - saghe dei vostri grandi re e nobili - ma è stato tanto, tanto tempo fa, e le memorie sono come fiori avvizziti nella mia mente. Quali nuove opere ha creato la tua gente?»

Eragon aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare i titoli delle storie che recitava Brom. Quando Lifaen li udì, scrollò il capo avvilito e disse: «Quante cose sono andate perdute. Non sopravvivono più le ballate di corte, e se quanto dici corrisponde al vero, nemmeno più la vostra storia o la vostra arte, tranne quei pochi racconti di fantasia che Galbatorix permette di tramandare.»

«Una volta Brom ci raccontò della caduta dei Cavalieri» disse Eragon, sulla difensiva. Nella mente gli balenò l'immagine di un cervo che superava d'un balzo un tronco caduto, inviata da Saphira che era andata a caccia. «Ah, che uomo coraggioso.» Lifaen continuò a pagaiare in silenzio per un minuto. «Anche noi cantiamo della caduta dei Cavalieri... ma di rado. La maggior parte di noi erano vivi quando Vrael entrò nel vuoto, e ancora piangiamo le nostre città incendiate... i gigli rossi di Ewayéna, i cristalli di Luthivira... e le nostre famiglie uccise. Il tempo non può lenire il dolore di quelle ferite, nemmeno se passassero un milione di anni e il sole si spegnesse, lasciando il mondo immerso in una notte eterna.»

Orik borbottò a poppa. «Lo stesso vale per i nani. Ricorda, elfo, che abbiamo perso un intero clan per mano di Galbatorix.»

«E noi perdemmo il nostro re, Evandar.»

«Non ne ho mai sentito parlare» disse Eragon, sorpreso.

Lifaen annuì e governò la canoa rasente uno scoglio semisommerso. «Pochi lo sanno. Brom avrebbe potuto parlartene; lui c'era quando venne inferto il colpo fatàle. Prima della morte di Vrael, gli elfi affrontarono Galbatorix sulle pianure di Ilirea, nel nostro ultimo tentativo di sconfiggerlo. Lì Evandar...»

«Dove si trova Ilirea?» domandò Eragon.

«È Urù'baen, ragazzo» rispose Orik. «Un tempo era una città elfica.»

Imperturbabile malgrado l'interruzione, Lifaen continuò. «Come hai detto, Ilirea era una delle nostre città. Venne abbandonata durante la nostra guerra contro i draghi, e in seguito, dopo parecchi secoli, gli umani l'adottarono come propria capitale, dopo che re Palancar venne esiliato.»

«Re Palancar?» esclamò Eragon. «Chi era? È da lui che prese il nome la Valle Palancar?»

Questa volta l'elfo si voltò con un sorrisino divertito. «Hai tante domande quante foglie su un albero, Argetlam.» «Brom era della stessa opinione.»

Lifaen sorrise, restando in silenzio, come se stesse dando ordine ai propri pensieri. «Quando i tuoi antenati arrivarono in Alagaésia, ottocento anni fa, vagabondarono in lungo e in largo, in cerca di un posto adatto per vivere. Alla fine si stabilirono nella Valle Palancar, anche se non si chiamava così, allora, poiché era uno dei pochi luoghi difendibili che non avevamo occupato noi né i nani. Lì il vostro re, Palancar, cominciò a porre le basi di un potente regno. «Nel tentativo di espandere i confini, ci dichiarò guerra, benché noi non gli avessimo offerto alcun pretesto. Tre volte attaccò, e per tre volte annientammo il suo esercito. La nostra forza spaventò i nobili di Palancar, che implorarono il loro sovrano di fare la pace. Lui ignorò il loro consiglio. Allora i nobili ci offrirono un trattato, che firmammo all'insaputa del re.

«Con il nostro aiuto, Palancar fu detronizzato e bandito, ma lui, la sua famiglia e i loro vassalli si rifiutarono di lasciare la valle. Poiché non avevamo desiderio di ucciderli, costruimmo la torre di Ristvak'baen, perché i Cavalieri potessero sorvegliare Palancar e assicurarsi che non provasse più a riprendersi il potere o ad attaccare altri popoli di Alagaésia. «Non passò molto che Palancar fu assassinato da un figlio che non volle aspettare che la natura facesse il suo corso. Da quel momento in poi, la politica di famiglia fu tutto un susseguirsi riducendo il casato di Palancar all'ombra della sua grandezza di un abbandonarono mai quei luoghi, e il sangue dei re ancora scorre a Therinsford e a Carvahall.»

«Capisco» disse Eragon.

Lifaen inarcò un sopracciglio scuro. «Capisci? Significa molto più di quanto credi. Fu questo evento che convinse Anurin, il predecessore di Vrael come capo dei Cavalieri, a consentire agli umani di diventare Cavalieri, allo scopo di scongiurare altri conflitti.»

Orik scoppiò in una rauca risata. «Immagino che si sia sollevato un gran polverone.»

«Fu una decisione impopolare» ammise Lifaen. «Ancora oggi alcuni ne mettono in dubbio l'opportunità. Le tensioni fra Anurin e la regina Dellanir arrivarono a tal punto che Anurin decise di scindersi dal nostro governo e di condurre i Cavalieri a Vroengard, come entità indipendente.»

«Ma se i Cavalieri si separarono dal vostro governo, come potevano garantire la pace, ossia lo scopo per cui erano stati istituiti?» chiese Eragon.

«Non poterono» disse Lifaen. «Non finché la regina Dellanir non comprese che era fondamentale che i Cavalieri fossero indipendenti da qualunque signore o sovrano, e li riammise nella Du Weldenvarden. Ma non accettò mai il fatto che ci fosse un'autorità indipendente dalla sua.»

Eragon si accigliò. «Ma non era soltanto questo, vero?»

«Sì e no. Il compito dei Cavalieri era prevenire gli errori e garantire la pace fra i diversi governi e le razze, ma chi controllava i controllori? Fu questo il vero problema all'origine della loro caduta. Non c'era nessuno in grado di di omicidi, tradimenti e altre depravazioni,

tempo. Tuttavia i suoi discendenti non individuare le lacune nel sistema dei Cavalieri, poiché erano al di sopra di ogni indagine e giudizio, e così perirono.» Eragon continuava a pagaiare - prima da un lato, poi dall'altro - riflettendo sulle parole di Lifaen. Il remo gli vibrava nelle mani quando fendeva l'acqua. «Chi succedette a Dellanir come re o regina?»

«Fu Evandar. Salì al trono nodoso cinquecento anni fa, quando Dellanir abdicò per studiare i misteri della magia, e vi restò fino alla morte. Ora è la sua compagna, Islanzadi, che ci governa.»

«Ma è...» Eragon si fermò con la bocca aperta. Stava per dire impossibile, ma poi si rese conto di quanto ridicola sarebbe suonata la sua affermazione. Chiese invece: «Gli elfi sono immortali?»

Con voce soave, Lifaen rispose: «Un tempo eravamo come voi, delicati ed effimeri come la rugiada del mattino. Ora la nostra vita si allunga senza fine attraverso i secoli. Sì, siamo immortali, anche se restiamo vulnerabili alle ferite della carne.»

«Siete diventati immortali? Come?» L'elfo si rifiutò di rispondere, anche se Eragon insisteva per avere altri dettagli. Alla fine si accontentò di chiedere: «Quanti... quanti anni ha Arya?»

Lifaen posò i suoi occhi scintillanti su di lui, scrutando Eragon con sconcertante acutezza. «Arya? Quale interesse provi per lei?»

«Io...» Eragon si trovò a corto di parole, all'improvviso insicuro di ciò che provava. La sua attrazione per Arya era complicata dal fatto che lei era un'elfa, e che la sua età, qualunque fosse, doveva essere molto più avanzata della sua. Deve considerarmi un bambino. «Non lo so» rispose con sincerità. «Ma ha salvato la mia vita e quella di Saphira, e sono curioso di sapere qualcosa di più su di lei.»

«Mi vergogno» disse Lifaen, soppesando ogni parola «di averti fatto quella domanda. Fra di noi, è ritenuto scortese indagare sulle faccende degli altri... Solo che vorrei consigliarti, e credo che Orik sia d'accordo con me, di tenere a freno il tuo cuore, Argetlam. Non è questo il momento di perderlo, e la collocazione che vorresti dargli non è adeguata.» «Già» grugnì Orik.

Eragon si sentì avvampare, mentre il sangue gli affiorava alle guance scorrendo nelle vene come pece bollente. Prima di poter ribattere, Saphira entrò nella sua mente e disse: E adesso è il momento di tenere a freno la lingua. Le loro intenzioni sono oneste. Non insultarli.

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