Volodyk - Paolini3-Brisingr
Dopo un po' ecco un rumore di legno spezzato, e poi uno sfavillio di squame azzurre riempì la pozza d'acqua mentre Saphira si contorceva per entrare nel padiglione. Era difficile stabilire di quale parte di drago si trattasse. Le squame si spostarono; Eragon scorse la parte bassa di una coscia, una delle punte acuminate della coda, la membrana floscia di un'ala ripiegata, e infine lo scintillio di una zanna, mentre la dragonessa si rigirava per trovare una posizione comoda e riuscire a guardare lo specchio che Nasuada usava per le sue arcane comunicazioni. Dai rumori sospetti provenienti dietro la dragonessa, Eragon intuì che stava facendo a pezzi gran parte della mobilia. Alla fine Saphira trovò pace, avvicinò la testa allo specchio - uno dei suoi enormi occhi color zaffiro bastava a riempire l'intera pozza - e scrutò Eragon.
Si fissarono a vicenda per un lungo minuto, senza muoversi. Eragon rimase sorpreso dal sollievo che provò nel vederla. Non si era mai sentito davvero al sicuro da quando si erano separati.
«Mi sei mancata» mormorò.
Lei batté la palpebra una volta.
«Nasuada, sei ancora lì?»
La risposta smorzata provenne da un punto alla destra di Saphira. «Sì, più o meno.»
«Saresti così gentile da riferirmi i commenti di Saphira?»
«Sarei più che lieta di farlo, ma al momento sono incastrata fra un'ala e un palo di sostegno, e non ho modo di liberarmi, a quanto pare. Potresti avere difficoltà a sentirmi. Ma se hai un po' di pazienza ci provo.»
«Sì, te ne prego.»
Nasuada rimase in silenzio per qualche battito di cuore, poi, in un tono tanto simile a quello di Saphira da farlo quasi scoppiare a ridere, disse: «Stai bene?»
«Sono sano come un bue. E tu?»
«Paragonare me stessa a un bovino sarebbe ridicolo e offensivo, ma sto bene, se è questo che mi chiedi. Sono contenta che ci sia Arya con te. È un bene che tu abbia qualcuno con un po' di discernimento a guardarti le spalle.»
«Concordo. L'aiuto è sempre bene accetto quando sei in pericolo.» Pur contento di poter parlare con Saphira, anche se in quel modo bizzarro, Eragon trovava che le parole affidate alla voce fossero un ben misero sostituto del libero scambio di pensieri ed emozioni che condividevano quando erano insieme. Per giunta, in presenza di Arya e Nasuada, Eragon era riluttante ad affrontare temi di natura più personale, come chiederle se lo aveva perdonato per averla costretta a lasciarlo nell'Helgrind. Saphira doveva condividere la sua riluttanza, perché anche lei evitò l'argomento. Chiacchierarono di altre cose meno importanti e infine si salutarono. Prima di allontanarsi dalla pozza, Eragon si sfiorò le labbra con le dita e in silenzio mormorò: Mi dispiace.
Fra le piccole squame che orlavano l'occhio di Saphira si aprirono tanti spazi che lasciavano intravvedere la carne sottostante. La dragonessa batté la palpebra con un movimento rallentato, ed Eragon capì che aveva compreso il suo messaggio e non gli serbava rancore.
Dopo che Eragon e Arya si furono congedati da Nasuada, Arya sciolse l'incantesimo e si alzò. Col dorso della mano si spazzolò il terriccio dal vestito.
Nel frattempo Eragon smaniava, impaziente come non mai: in quel momento non desiderava altro che correre dritto da Saphira e accoccolarsi con lei davanti a un falò.
«Andiamo» disse, e già correva.
♦ ♦ ♦
UNA QUESTIONE DELICATA
I muscoli della schiena di Roran si gonfiarono l'uno dopo l'altro come onde mentre sollevava il macigno da terra. Posò la grossa pietra sulle cosce per un istante, poi, grugnendo per lo sforzo, la issò sopra la testa, a braccia tese. Mantenne la posizione per un intero minuto. Quando le spalle cominciarono a tremargli e a cedere, lasciò cadere il macigno, che atterrò con un tonfo sordo lasciando un'impronta profonda parecchi pollici.
A fianco di Roran, venti guerrieri Varden cercarono di sollevare massi delle stesse dimensioni. Soltanto due ci riuscirono; gli altri decisero che era meglio allenarsi con le pietre più leggere cui erano abituati. Roran era contento che i mesi passati a lavorare nella fucina di Horst sommati agli anni trascorsi alla fattoria gli avessero dato una forza tale da competere con uomini che si esercitavano alle armi fin da quando avevano dodici anni.
Scrollò le braccia che gli bruciavano e trasse qualche respiro profondo, sentendo l'aria fredda sul torace nudo. Si massaggiò la spalla destra, tastando il muscolo rotondo con le dita per avere un'altra conferma che non restava alcuna traccia della ferita che gli aveva inflitto il Ra'zac con un morso. Sogghignò, felice di essere di nuovo sano e tutto intero, un evento che prima non avrebbe ritenuto possibile più dell'esistenza di una mucca ballerina.
Un lamento sofferente lo fece voltare a guardare Albriech e Baldor, che si stavano esercitando alla scherma con Lang, un veterano dalla pelle scura coperta di cicatrici che insegnava l'arte della guerra. Erano due contro uno, ma Lang aveva gioco facile con gli avversari e usando la spada di legno per gli allenamenti disarmò Baldor con un affondo alle costole e menò alla gamba di Albriech un colpo così potente che il giovane cadde gemendo, il tutto nell'arco di un paio di secondi. Roran li capiva: aveva appena concluso anche lui una seduta di allenamento con Lang, e il risultato era una serie di lividi freschi ad accompagnare quelli ormai sbiaditi che si era procurato sull'Helgrind. In genere preferiva il martello alla spada, ma pensava di dover comunque imparare a maneggiare una lama, per ogni evenienza. Usare la spada richiedeva molto più acume e agilità di quanto, secondo lui, fosse necessario in battaglia: una martellata sul polso di uno spadaccino e l'avversario, con o senza armatura, sarebbe stato troppo occupato a cullarsi le ossa rotte per difendersi.
Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Nasuada aveva invitato gli abitanti di Carvahall a unirsi ai Varden. Avevano tutti accettato la sua offerta. Quelli che l'avrebbero rifiutata non si trovavano lì, perché avevano già scelto di restare nel Surda quando si erano fermati a Dauth, lungo la strada per le Pianure Ardenti. Tutti gli uomini abili di Carvahall avevano preso vere armi - abbandonando le lance e gli scudi che si erano costruiti - e si erano dati da fare per diventare guerrieri degni di Alagaësia. La gente della Valle Palancar era abituata alla vita dura. Maneggiare una spada non era peggio che spaccare legna, ed era molto più facile che dissodare la terra o zappare acri di barbabietole nella canicola dell'estate. Quelli che conoscevano un mestiere continuarono a fare gli artigiani per i Varden, ma nel tempo libero imparavano a maneggiare le armi che erano state loro affidate, perché ogni uomo avrebbe dovuto combattere quando fossero risuonate le trombe di guerra.
Roran si era dedicato agli allenamenti con zelo incrollabile fin da quando era tornato dall'Helgrind. Aiutare i Varden a sconfiggere l'Impero, e quindi Galbatorix, era l'unica cosa che poteva fare per proteggere i suoi compaesani e Katrina. Non era così arrogante da pensare di poter modificare da solo l'esito della guerra, ma aveva fiducia nella propria capacità di poter forgiare il mondo e sapeva che se si fosse impegnato avrebbe potuto accrescere le probabilità di vittoria dei Varden. Doveva restare vivo, però, e questo significava modellare il corpo e conoscere a fondo gli strumenti e le tecniche di combattimento per evitare di soccombere davanti a un guerriero più esperto.
Mentre attraversava il campo di allenamento, di ritorno alla tenda che condivideva con Baldor, Roran passò davanti a una striscia di erba rasata lunga sessanta piedi, dov'era adagiato un tronco di venti piedi, scorticato e levigato dalle migliaia di mani che lo toccavano ogni giorno. Senza rallentare, Roran si voltò, infilò le mani sotto la parte più grossa del tronco e con un sonoro gemito di fatica lo sollevò fino a metterlo in verticale. Poi gli diede una spinta e lo fece capitombolare dall'altro lato. Afferrando la parte più sottile, ripeté l'operazione altre due volte.
Senza più energia per capovolgere ancora il tronco, Roran abbandonò il campo e si avviò a passo spedito verso il labirinto di tende grigie, facendo un cenno a Loring e a Fisk e agli altri che conosceva, come pure a una mezza dozzina di estranei che lo salutarono con trasporto: «Ehilà, Fortemartello!»
«Ehilà!» rispose. Che strano, pensò, essere riconosciuto da persone che non ho mai visto prima. Un minuto dopo, arrivò alla tenda che ormai era la sua casa ed entrò chinandosi. Ripose subito l'arco, la faretra e la spada corta che i Varden gli avevano dato.
Afferrò l'otre d'acqua che teneva accanto alla branda, poi corse fuori alla luce del sole e, stappato l'otre, se ne versò il contenuto sulla schiena e sulle spalle. Il bagno era un evento raro e insolito per Roran, ma quel giorno era un giorno importante, e voleva essere fresco e pulito per ciò che lo aspettava. Con la punta di un bastoncino levigato si grattò via il sudiciume dalle braccia e dalle gambe e da sotto le unghie, poi si pettinò i capelli e si rifilò la barba.
Quando ritenne di essere presentabile, indossò la tunica fresca di bucato e s'infilò il martello nella cintura; stava per riattraversare l'accampamento quando si accorse che Brigit lo fissava da dietro la tenda. La donna stringeva con tutte e due le mani un fodero col pugnale.
Roran s'impietrì, pronto a brandire il martello alla minima provocazione. Sapeva di essere in mortale pericolo e malgrado il proprio ardimento, non era sicuro di poter battere Brigit se lei lo avesse aggredito perché, come lui, anche la donna inseguiva i propri nemici con feroce determinazione. «Una volta mi hai chiesto di aiutarti» disse Brigit «e io ho accettato perché volevo trovare i Ra'zac e ucciderli per aver divorato mio marito. Non ho forse tenuto fede al patto?»
«Sì.»
«E ricordi che ho promesso che una volta morti i Ra'zac avrei preteso da te il mio risarcimento per il ruolo che hai avuto nella morte di Quimby?»
«Ricordo.»
Brigit strinse il fodero ancora più forte, tanto che i tendini le affiorarono in rilievo sul dorso delle mani. Il pugnale uscì dal fodero di un pollice intero, mostrando il lucido acciaio, poi lentamente tornò al buio. «Bene» disse lei. «Non voglio che la memoria ti tradisca. Perché io avrò il mio risarcimento, Garrowsson. Stanne certo.» E con passo rapido e fermo si allontanò, il pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito.
Con un gran sospiro, Roran sedette su uno sgabello e si massaggiò la gola, convinto di essere sfuggito per un pelo alla lama di Brigit. La sua visita lo aveva allarmato ma non sorpreso: conosceva le sue intenzioni da parecchi mesi, fin da prima che fuggissero tutti da Carvahall, e sapeva che un giorno avrebbe dovuto saldare il suo debito con lei.
Un corvo passò alto sopra di lui; seguendone il volo, Roran si sentì risollevare il morale e sorrise. «Bene» si disse. Di rado a un uomo capita di sapere il giorno e l'ora in cui morirà. Potrei essere ucciso in qualsiasi momento, e non posso farci niente. Quello che accadrà accadrà, e non perderò il tempo che mi resta a rimuginarci sopra. Le disgrazie capitano sempre a quelli che le aspettano. Il trucco è trovare la felicità nei brevi intervalli fra un disastro e l'altro. Brigit farà quello che la coscienza le suggerisce, e io ci penserò quando verrà il momento.
Accanto al piede sinistro scorse un ciottolo giallastro che raccolse e si rigirò fra le dita. Concentrandosi al massimo, disse: «Stenr rïsa.» La pietra ignorò il suo comando e rimase immobile fra il pollice e l'indice. Roran sbuffò e la scagliò lontano.
Si alzò e si avviò di nuovo tra le file di tende. Mentre camminava, con un dito cercava di allentare un nodo che gli stringeva troppo il colletto, ma quello resisteva ai suoi sforzi, e alla fine si arrese quando arrivò alla tenda di Horst, grande il doppio delle altre. «Salve a tutti» disse, e batté sul palo fra i due lembi dell'ingresso.
Katrina uscì di corsa dalla tenda, con i capelli ramati al vento, e si gettò fra le sue braccia. Ridendo, Roran la prese per la vita e la fece girare in tondo. Il resto del mondo divenne una macchia nebulosa intorno allo splendore del suo viso. La depose a terra con delicatezza, e Katrina lo baciò sulle labbra, una, due, tre volte. Paralizzato dalla gioia, Roran la guardò dritto negli occhi, sentendosi più felice di quanto non fosse mai stato.
«Sai di buono» disse lei.
«Come va?» L'unica ombra nella gioia di Roran era vedere quanto la prigionia avesse lasciato Katrina pallida e smunta. Avrebbe voluto resuscitare i Ra'zac per far patire loro le stesse sofferenze che avevano inflitto a lei e a Garrow.
«Me lo chiedi ogni giorno, e ogni giorno ti rispondo: "Meglio." Abbi un po' di pazienza; mi riprenderò, ma ci vuole tempo... Il miglior rimedio per la mia condizione è stare con te sotto il sole. Mi fa più bene di quanto tu possa immaginare.»
«Non era questo che intendevo.»
Le guance di Katrina si colorarono di rosso, e lei gettò indietro la testa, le labbra arricciate in un sorrisetto malizioso. «Mio signore, sei audace. Un vero sfacciato, direi. Non sono sicura di voler restare da sola con te, per paura che tu ti prenda certe libertà.»
La risposta scherzosa placò le preoccupazioni di Roran. «Libertà, dici? Be', dato che mi consideri già una canaglia, mia signora, forse potrei prendermi un paio di quelle libertà.» E la baciò a lungo, finché non fu lei a sottrarsi, pur restando avvinta a lui. «Oh» disse Katrina, senza fiato. «Sei un uomo difficile da respingere, Roran Fortemartello.»
«Già.» Facendo un cenno col capo verso la tenda alle spalle di Katrina, Roran abbassò la voce e chiese: «Elain lo sa?»
«L'avrebbe già capito se non fosse così presa dalla sua gravidanza. Credo che la tensione accumulata nel viaggio da Carvahall possa farle rischiare di perdere il bambino. Ha le nausee quasi tutto il giorno e dei dolori che... be', non sono normali. C'è Gertrude a prendersi cura di lei, ma non può fare molto per alleviare la sua pena. Prima Eragon ritorna, meglio sarà per tutti. Non so per quanto tempo ancora potrò mantenere il segreto.»
«Ce la farai, ne sono certo.» Roran si sciolse dall'abbraccio e tirò l'orlo della tunica per lisciare le grinze. «Come sto?»
Katrina lo studiò con occhio critico, poi si inumidì la punta delle dita e gliele passò fra i capelli, scoprendogli la fronte. Notando il nodo ingarbugliato del colletto, prese ad allentarlo, dicendo: «Dovresti fare più attenzione a come ti vesti.»
«I vestiti non hanno mai cercato di uccidermi.»
«Be', le cose stanno in modo diverso, adesso. Sei il cugino di un Cavaliere dei Draghi, e dovresti fare la tua parte. La gente se lo aspetta.»
Roran le permise di lisciarlo e sistemarlo finché non fu soddisfatta del suo aspetto. Le diede un bacio di commiato, poi s'incamminò per mezzo miglio verso il centro dell'enorme accampamento dei Varden, dove si ergeva il padiglione rosso di Nasuada. Lo stendardo montato in cima, con lo scudo nero e due spade incrociate sotto, sventolava schioccando nel tiepido vento dell'est.