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Volodyk - Paolini2-Eldest

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Con estrema lentezza, levò Zar'roc sopra la testa e la calò con entrambe le mani come per spaccare l'elmo di un nemico. Mantenne la posizione per un secondo; poi, sempre controllando i movimenti, torse il busto a destra, girando la lama di Zar'roc per parare un colpo immaginario... poi si fermò con le braccia rigide.

Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik, Arya e Thorv che lo osservavano. Li ignorò e tornò a concentrarsi soltanto sulla lama rossa tra le sue mani: la maneggiava come se fosse un serpente che poteva sgusciargli dalle mani e morderlo. Voltandosi ancora, eseguì una serie di movimenti fluidi, passando dall'uno all'altro con disciplinata scioltezza, mentre aumentava via via la rapidità. Non era più nell'insenatura ombreggiata, ma circondato da un manipolo di feroci Urgali e Kull. Si abbassava, si lanciava in un affondo, parava, riprendeva posizione, schivava e fendeva, in un turbine di movimenti. Combatteva con energia intuitiva, come aveva fatto nel Farthen Dùr, senza pensare a salvarsi la pelle, colpendo e massacrando i nemici immaginari.

Fece roteare Zar'roc nel tentativo di passarsela da una mano all'altra, ma la spada gli cadde di mano quando un'atroce fitta di dolore gli straziò la schiena. Barcollò e cadde. Sopra di sé sentì Arya e i nani che parlottavano concitati, ma non vedeva altro che una nebbia rossa, come un sudario insanguinato che velava il mondo. Nessuna sensazione esisteva, a parte il dolore. Gli oscurò pensiero e ragione, lasciando solo una bestia selvaggia che urlava per essere liberata. Quando Eragon si riprese abbastanza da capire dove si trovava, scoprì che era nella sua tenda, sotto le coperte. Arya sedeva accanto a lui, e Saphira faceva capolino dai lembi dell'ingresso.

Sono rimasto svenuto a lungo? chiese Eragon.

Un po'. Alla fine ti sei addormentato. Ho cercato di estrarti dal tuo corpo per farti entrare nel mio e proteggerti dal dolore, ma ho potuto fare ben poco mentre eri incosciente.

Eragon annuì e chiuse gli occhi. Si sentiva pulsare tutto il corpo. Inspirò a fondo, guardò Arya e con voce sommessa chiese: «Come potrò allenarmi?... Come potrò combattere o usare la magia?... Sono un relitto inutile.» Di colpo il suo viso dimostrò molti più anni di quanti ne avesse.

Lei rispose con altrettanta dolcezza. «Puoi sempre sederti a osservare. Puoi ascoltare. Puoi leggere. E puoi imparare.» Malgrado le sue parole, Eragon avvertì una nota di incertezza, forse addirittura di timore, nella sua voce. Si voltò su un fianco per evitare il suo sguardo. Provava vergogna nel mostrarsi così indifeso davanti a lei. «Cosa mi ha fatto lo Spettro?»

«Non ho risposte da darti, Eragon. Non sono né la più saggia né la più forte degli elfi. Facciamo tutti del nostro meglio, e non puoi prendertela con te stesso. Forse il tempo guarirà la tua ferita.» Arya gli premette le dita sulla fronte e mormorò: «Sé mor'ranr ono finna» poi uscì dalla tenda.

Eragon si alzò a sedere e fece una smorfia nel distendere i muscoli contratti della schiena. Si fissava le mani senza vederle. Ho paura.

Perché? chiese Saphira.

Perché... esitò lui. Perché non posso fare niente per impedire un altro attacco. Non so quando e dove mi capiterà, so soltanto che sarà inevitabile. Perciò aspetto, e in ogni momento ho paura che se sollevo qualcosa di pesante o faccio la mossa sbagliata, il dolore tornerà ad affliggermi. Il mio corpo mi è diventato nemico.

Saphira emise un sordo brontolìo di gola. Nemmeno io ho risposte da darti. La vita è fatta di dolore e piacere. Se è questo il prezzo che devi pagare per le ore in cui sei felice, è troppo?

Sì, tagliò corto lui. Si tolse le coperte e uscì dalla tenda urtandola, piombando al centro dell'accampamento dove Arya e i nani sedevano intorno al falò. «È rimasto qualcosa da mangiare?» chiese Eragon.

Dùthmér gli riempì in silenzio una scodella e gliela porse. Con espressione deferente, Thorv gli chiese: «Ti senti meglio, adesso, Ammazzaspettri?» Lui e gli altri nani sembravano impressionati da quanto avevano visto.

«Sto bene.»

«Porti un pesante fardello, Ammazzaspettri.»

Eragon gli scoccò un'occhiataccia e si rintanò in un angolo appartato ai bordi del campo, dove si sedette al buio. Imprecò a denti stretti e infilzò lo stufato di Dùthmér con rabbia.

Proprio mentre si accingeva ad addentare il primo boccone, Orik comparve al suo fianco all'improvviso. «Non dovresti trattarli così.»

Eragon guardò torvo la faccia del nano. «Cosa?»

«Thorv e i suoi uomini sono stati mandati a proteggere te e Saphira. Darebbero la vita per te, se necessario, e affidano a te la loro sacra sepoltura. Dovresti ricordarlo.»

Eragon si ricacciò in gola un'aspra risposta, e fissò la nera superficie del fiume - sempre in movimento, mai fermo - nel tentativo di placare la mente. «Hai ragione. Mi sono fatto prendere dalla collera.»

I denti di Orik scintillarono nella notte quando sorrise. «È una lezione che ogni comandante deve imparare. Io l'ho imparata a suon di legnate da parte di Rothgar, quando da giovane scagliai uno stivale contro un nano che aveva lasciato la sua alabarda in un punto dove la gente poteva inciampare.»

«E lo colpisti?»

«Gli ruppi il naso» ridacchiò Orik.

Suo malgrado, anche Eragon rise. «Mi ricorderò di non farlo.» Prese la scodella tra le mani a coppa, per riscaldarle. Si udì un tintinnio metallico quando Orik trasse qualcosa dalla sua scarsella. «Tieni» disse il nano, facendo cadere una piccola catena di anelli d'oro intrecciati nel palmo di Eragon. «È un rompicapo che usiamo per mettere alla prova l'abilità e la destrezza. Sono otto anelli. Se riesci a sistemarli nella maniera giusta, formano un singolo anello. Io lo trovo utile quando voglio distrarmi da qualche preoccupazione.»

«Ti ringrazio» mormorò Eragon, già assorto nella complessità della catena scintillante.

«Puoi tenerlo, se ci riesci.»

Quando tornò alla tenda, Eragon si distese sulla pancia e ispezionò la catena nella fioca luce del falò che filtrava dai lembi sollevati. Quattro anelli passavano attraverso gli altri quattro; ciascuno era liscio nella metà inferiore, mentre la parte superiore presentava delle scanalature dove avrebbe dovuto incastrarsi con gli altri pezzi.

Eragon sperimentò varie configurazioni, ma si sentiva sempre più frustrato nel constatare un semplice fatto: sembrava impossibile mettere in parallelo le due serie di anelli per formarne uno solo.

Concentrato nella sfida, dimenticò il terrore che lo attanagliava.

Eragon si svegliò poco prima dell'alba. Si strofinò gli occhi per cancellare gli ultimi residui di sonno e uscì dalla tenda per stiracchiarsi. Il suo respiro si condensò in candide nuvolette nell'aria frizzante del mattino. Fece un cenno a Shrrgnien - che montava di guardia presso il fuoco - e andò sulla sponda del fiume, dove si accovacciò per lavarsi la faccia, rabbrividendo per l'acqua gelida.

Trovò Saphira con un guizzo mentale, si allacciò Zar'roc e si avviò verso di lei fra i pioppi che orlavano l'Az Ragni. A un tratto si ritrovò la strada sbarrata da un groviglio di pruni, che gli bagnarono il volto e le mani di rugiada. Con uno sforzo, si fece largo nel fitto intrico di rami e finalmente uscì allo scoperto, nella vasta pianura. Davanti a lui si ergeva una collinetta tondeggiante. In cima - come due antiche statue - c'erano Saphira e Arya, rivolte verso oriente, dove i primi bagliori rosati dell'alba tingevano d'oro la prateria.

Quando un raggio di luce colpì le due figure, Eragon rammentò come Saphira aveva osservato il sorgere del sole, appollaiata su una colonnina del suo letto, poco dopo essere uscita dall'uovo. Sembrava un falco o un'aquila, lo sguardo intenso e brillante sotto le sporgenze cornee della fronte, il fiero arco del collo, e la muscolosa energia che permeava ogni tratto del suo corpo. Era una vera predatrice, dotata di tutta la selvaggia bellezza insita nel termine. I lineamenti affilati e la grazia felina di Arya erano perfettamente complementari alla dragonessa al suo fianco. Non c'era alcuna differenza nei loro atteggiamenti mentre stavano immobili, immerse nei primi raggi del mattino. Eragon si sentì percorrere la schiena da un brivido di gioia e timore reverenziale. Era questo che gli apparteneva, come Cavaliere, ed era tanto fortunato da essere legato, fra tutte le cose di Alagaésia, proprio a questo. Stupore e riconoscenza gli fecero salire le lacrime agli occhi, e sulle sue labbra affiorò un sorriso di selvaggia esultanza che dissipò ogni dubbio e timore, in un impeto di pura emozione.

Ancora col sorriso sulle labbra, risalì il pendio e prese posto al fianco di Saphira, per contemplare insieme a lei il sorgere del nuovo giorno.

Arya lo guardò. Eragon incontrò i suoi occhi, e qualcosa si agitò dentro di lui. Arrossì senza saperne il motivo, ma con la percezione di un'improvvisa comunione con lei, la sensazione che l'elfa lo comprendesse meglio di chiunque altro, a parte Saphira. La propria reazione lo sconcertò, poiché nessuno aveva mai avuto un tale effetto su di lui. Per tutto il giorno bastò che Eragon ripensasse a quel momento per mettersi a sorridere e rievocare il miscuglio di sensazioni che non riusciva a identificare. Trascorse gran parte del tempo seduto con la schiena appoggiata alla cabina del battello, giocando con l'anello di Orik e contemplando il mutevole panorama.

Verso mezzogiorno passarono davanti all'imboccatura di una valle, da cui scorreva un affluente che s'immetteva nell'Az Ragni. Il fiume raddoppiò in velocità e ampiezza, finché le sponde non furono distanti oltre un miglio. I nani si prodigarono per impedire alle zattere di essere sballottate come turaccioli nei gorghi spumeggianti e di andare a fracassarsi contro i tronchi trasportati dalla corrente.

Un miglio dopo la congiunzione dei due fiumi, l'Az Ragni curvava verso nord, lambendo un picco solitario velato di nubi che si distaccava dalla catena dei Monti Beor, come una gigantesca torre di guardia costruita per sorvegliare le pianure.

I nani chinarono il capo nel passare ai piedi della montagna, e Orik spiegò a Eragon: «Si chiama Moldùn il Fiero. È l'ultima vera montagna che vedremo nel nostro viaggio.»

Quando ormeggiarono le zattere per la notte, Eragon vide Orik trarre dallo zaino una lunga scatola nera tempestata di rubini e intarsiata di madrcperla e filigrana d'argento. Orik fece scattare la fibbia intagliata e sollevò il coperchio decorato per rivelare un arco disteso su una fodera di velluto rosso. Sulle parti flessibili, nere come l'ebano, spiccavano intricate ramificazioni di foglie, fiori, animali e rune, tutte di oro purissimo. Era un'arma così straordinaria che Eragon si chiese come qualcuno osasse usarla.

Orik incordò l'arco, alto quasi quanto lui, ma non più grande di un arco per bambini secondo i criteri di Eragon, ripose la custodia, e disse: «Vado a cercare un po' di carne fresca. Sarò di ritorno fra un'ora.» E scomparve nella boscaglia. Thorv borbottò scuotendo la testa, ma non fece alcun tentativo di fermarlo.

Fedele alla parola data, Orik tornò con una coppia di oche dal lungo collo. «Le ho trovate appollaiate su un albero» disse, gettando i volatili a Dùthmér.

Quando Orik riprese la custodia ingioiellata, Eragon gli chiese: «Di che legno è fatto il tuo arco?» «Legno?» scoppiò a ridere Orik, scuotendo la testa. «Non si può fare un arco così piccolo con il legno e scoccare una freccia più lontano di venti iarde; si rompe, oppure s'imbarca dopo appena qualche tiro. No, questo è un arco di corno di Urgali!»

Eragon lo guardò sospettoso, sicuro che il nano lo stesse prendendo in giro. «Il corno non è abbastanza elastico per fare un arco.»

«Ah» lo corresse Orik, «perché non sai come trattarlo. All'inizio provammo con le corna di Feldùnost, ma funziona altrettanto bene con quelle di Urgali. Si taglia il corno a metà per la lunghezza, poi si rifila il bordo esterno fino allo spessore desiderato. Si fa bollire la lista per appiattirla e si scartavetra fino a ottenere la forma finale, prima di fissarla a una doga di frassino con colla fatta di squame di pesce e pelle di palato di trota. La parte posteriore della doga viene quindi coperta da strati multipli di tendini, che conferiscono all'arco il suo scatto. L'ultimo passo è la decorazione. L'intero processo può richiedere una decina d'anni.»

«Non ho mai sentito di un arco costruito in questo modo prima d'ora» disse Eragon. Al confronto, la sua arma sembrava un ramo sgrossato alla meno peggio. «Qual è la sua gittata?»

«Prova» disse Orik. Eragon prese l'arco, maneggiandolo con cura per paura di graffiarne i decori. Orik estrasse una freccia dalla faretra e gliela porse. «Ricorda però che mi dovrai una freccia.»

Eragon incoccò la freccia alla corda, mirò verso l'Az Ragni e scoccò. L'ampiezza di tensione dell'arco non arrivava a due piedi, ma rimase sorpreso nel constatare che il suo peso superava di gran lunga quello della sua arma; aveva la forza appena sufficiente per mantenere tesa la corda. Liberò la freccia che svanì con uno schiocco, soltanto per riapparire sul fiume. Eragon guardò affascinato la freccia che si tuffava in un ventaglio di spruzzi a metà dell'Az Ragni. Subito superò le barriere della propria mente per evocare la magia, e disse: «Gath sem oro un lam iet.» Dopo un paio di secondi, la freccia guizzò fuori dall'acqua per atterrare nel suo palmo aperto. «Tieni» disse al nano, «la freccia che ti devo.»

Orik si battè il pugno sul petto, poi abbracciò arco e freccia tutto gongolante. «Splendido! Adesso ne ho ancora due dozzine. Altrimenti avrei dovuto aspettare fino a Hedarth per reintegrare la mia scorta.» Tolse la corda dall'arco e lo ripose, avvolgendo la custodia in morbidi stracci per proteggerla.

Eragon si accorse che Arya li stava osservando. Le domandò: «Anche gli elfi usano archi di corno? Siete così forti che un arco di legno si schianterebbe fra le vostre mani.»

«Noi cantiamo i nostri archi da alberi che non crescono.» Detto questo, l'elfa si allontanò.

Per giorni e giorni seguirono la corrente attraverso campi verdeggianti, mentre i Monti Beor svanivano in una nebulosa parete bianca dietro di loro. Le rive ospitavano spesso branchi di gazzelle e cervi che li guardavano con i loro occhi liquidi.

Ora che i Fanghur non erano più una minaccia, Eragon volava spesso con Saphira. Era la loro prima opportunità di passare tanto tempo insieme in aria, dai tempi di Gil'ead, e la sfruttarono al massimo. Inoltre Eragon approfittava dell'occasione per sfuggire al ponte affollato della zattera, dove si sentiva turbato e a disagio, con Arya così vicina.

Arya Svit-kona

Eragon e la sua compagnia seguirono il corso dell'Az Ragni fino al punto in cui si immetteva nel fiume Edda, seguitando a scorrere verso l'ignoto oriente. Visitarono così l'avamposto commerciale dei nani, Hedarth, e barattarono le zattere con dei muli. I nani non usavano mai i cavalli per via della loro altezza.

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