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Volodyk - Paolini2-Eldest

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Con un fruscìo di fronde, due elfi comparvero ai margini della foresta, mentre altri due uscivano allo scoperto sui rami di una quercia nodosa. Quelli a terra portavano lunghe lance dalla punta bianca, mentre gli altri impugnavano gli archi. Tutti indossavano tuniche del colore del muschio e della corteccia, sotto mantelli svolazzanti fermati sulle spalle da spille d'avorio. Uno aveva la chioma nera come quella di Arya, mentre gli altri tre avevano capelli biondi come raggi di stelle.

Gli elfi saltarono giù dagli alberi e abbracciarono Arya, ridendo con le loro voci pure e cristalline. Si presero per mano e danzarono in cerchio attorno a lei, come bambini, cantando allegri mentre giravano sul prato.

Eragon li osservò stupito. Arya non gli aveva mai dato ragione di sospettare che agli elfi piacesse - o addirittura che sapessero - ridere. Era un suono meraviglioso, come flauti e arpe che vibravano di delizia per la loro stessa musica. Avrebbe potuto ascoltarlo per sempre.

Poi Saphira discese oltre il fiume e atterrò accanto a Eragon. Alla sua comparsa, gli elfi gridarono allarmati e puntarono le armi contro di lei. Arya si affrettò a parlare in tono conciliante, indicando prima Saphira, poi Eragon. Quando si fermò per riprendere fiato, Eragon si tolse il guanto della mano destra e voltò il palmo per mostrare il gedwéy ignasia al chiaro di luna. Poi disse, come aveva fatto con Arya tanto tempo prima: «Eka ai fricai un Shur'tugal.» Sono un Cavaliere e un amico. Rammentando la lezione del giorno prima, si sfiorò le labbra, aggiungendo: «Atra esterni ono thelduin.» Gli elfi abbassarono le armi, mentre i volti affilati si illuminavano di gioia. Si premettero due dita sulle labbra e s'inchinarono a lui e a Saphira, mormorando la loro risposta nell'antica lingua.

Poi si rialzarono, indicarono i nani e risero come per una battuta allusa. Tornando verso la foresta, fecero un cenno con le mani e dissero: «Venite, venite!»

Eragon seguì Arya insieme a Saphira e ai nani, che brontolavano fra di loro. Passando sotto il denso fogliame degli alberi, piombarono in una tenebra vellutata, dove solo qualche sprazzo di luna scintillava fra i rami e le foglie. Eragon sentiva gli elfi ridere e sussurrare, ma non riusciva a vederli. Di tanto in tanto gridavano indicazioni quando lui o i nani esitavano.

Davanti a loro, un falò ardeva fra gli alberi, spandendo ombre guizzanti che danzavano sul tappeto di foglie come tanti folletti. Quando Eragon entrò nel cono di luce, vide tre piccoli capanni addossati al tronco di un'enorme quercia. In alto, fra i rami, c'era una piattaforma di legno dove una sentinella poteva sorvegliare il fiume e la foresta. Fra due capanni era appeso un palo, da cui pendevano mazzi di piante lasciate a essiccare.

I quattro elfi svanirono nei capanni per tornare con le braccia cariche di frutta e verdura - niente carnee cominciarono a preparare la cena per gli ospiti. Mentre lavoravano, canticchiavano a bassa voce, passando da una melodia all'altra senza mai interrompersi. Quando Orik chiese i loro nomi, l'elfo con i capelli neri indicò se stesso e disse: «Io sono Lifaen del Casato di Rìlvenar. E i miei compagni sono Edurna, Celdin e Nari.»

Eragon si sedette accanto a Saphira, lieto dell'opportunità di riposare e osservare gli elfi. Benché fossero tutti e quattro maschi, i loro volti ricordavano quello di Arya, con le labbra delicate, i nasi sottili e i grandi occhi obliqui che brillavano sotto le sopracciglia arcuate. Il resto del corpo era proporzionato, con spalle strette e braccia e gambe affusolate. Erano più nobili e leggiadri di qualsiasi umano Eragon avesse mai visto, sebbene in maniera esotica, rarefatta. Chi mai avrebbe pensato che un giorno avrei visitato il regno degli elfi? si disse Eragon. Sorrise, e si appoggiò alla parete di un capanno, cullato dal calore del fuoco. Sopra di lui, i vigili occhi azzurri di Saphira seguivano ogni movimento degli elfi.

C'è più magia in questa razza, osservò lei alla fine, che negli umani o nei nani. Loro non sentono di provenire dalla terra o dalla pietra, ma piuttosto da un altro regno. Appartengono a questo mondo soltanto per metà, come riflessi nell'acqua.

Di certo sono molto aggraziati, disse Eragon. Gli elfi si muovevano con la leggerezza e la fluidità dei danzatori. Brom aveva detto a Eragon che era scortese parlare con la mente al drago di un Cavaliere senza permesso, e gli elfi si attenevano scrupolosamente a questa usanza, esprimendo ad alta voce i loro commenti a Saphira, che a sua volta rispondeva loro direttamente. Di norma Saphira si asteneva dal toccare i pensieri degli umani e dei nani, e lasciava che fosse Eragon a riferire le sue parole, dato che erano pochi i membri delle due razze in grado di schermare la propria mente dagli intrusi. Inoltre sembrava quasi un abuso ricorrere a una forma di contatto così intima per scambiare quattro chiacchiere informali. Tuttavia gli elfi non avevano queste inibizioni; accolsero con gioia Saphira nella propria mente, godendo della sua presenza.

Alla fine la cena fu pronta e servita su piatti intagliati che sembravano fatti d'osso, anche se tra i fiori e le foglie che decoravano il bordo si scorgevano i nodi del legno. Eragon ricevette anche un calice di vino di uvaspina - fatto con lo stesso insolito materiale - che recava un drago scolpito avvolto intorno allo stelo.

Mentre mangiavano, Lifaen prese un flauto di canna e cominciò a suonare una delicata melodia, con le dita che correvano lievi sui fori. Bel presto, l'elfo biondo più alto, Narì, cominciò a cantare:

Il giorno muore; le stélle splendono; La luna è bianca; le foglie tacciono! Ridi dei crucci e ridi del nemico, La stirpe di Menoa le tenebre proteggono!

In guerra perdemmo un virgulto di foresta; Una figlia silvana alla vita si desta! Libera dalla paura e libera dalla fiamma, Un Cavaliere ha strappato all'oscurità funesta!

I draghi tornano di nuovo a volare, E le loro sofferenze vogliamo vendicare!

Forti di spada e forti di braccio; L'era di un re sta per tramontare!

Il vento è dolce; profonda la corrente; Gli alberi alti; la fauna dormiente! Ridi dei crucci e ridi del nemico, È giunta l'ora del trionfo fulgente!

Solo quando Narì terminò, Eragon si ricordò di respirare. Non aveva mai sentito una voce simile; era come se l'elfo avesse rivelato la sua essenza, la sua anima. «È stato magnifico, Nari-vodhr.»

«Una semplice composizione, Argetlam» si schermì Nari. «Ma ti ringrazio comunque.»

Thorv borbottò. «Già, bella canzone, mastro elfo. Ma invece di starcene qui a recitare versi, sarebbe meglio occuparci di questioni più urgenti. Dobbiamo accompagnare ancora Eragon?»

«No» intervenne Arya, attirandosi gli sguardi degli altri elfi. «Voi potrete ripartire domattina. Penseremo noi a scortare Eragon fino a Ellesméra.»

Thorv chinò il capo. «Allora il nostro compito è finito.»

Mentre Eragon se ne stava disteso sul giaciglio che gli elfi gli avevano preparato, tese le orecchie nel tentativo di cogliere le parole di Arya, che provenivano da un capanno vicino. Sebbene usasse molti termini dell'antica lingua che gli erano sconosciuti, dedusse che stava spiegando agli elfi come aveva perso l'uovo di Saphira e la successione di eventi. Alla fine, seguì un lungo silenzio, poi un elfo disse: «È bello che tu sia tornata, Arya Dròttningu. Islanzadi è rimasta profondamente addolorata quando ha saputo che eri stata catturata e l'uovo rubato, e dagli Urgali, per giunta! Aveva, e ha, la morte nel cuore.»

«Sst, Edurna... sst» mormorò un altro. «I Dvergar sono piccoli, ma hanno le orecchie lunghe e sono sicuro che riferiranno tutto a Rothgar.»

Poi le voci si abbassarono ed Eragon non riuscì più a comprendere una parola. Il sommesso brusìo degli elfi e il fruscìo delle foglie lo cullarono mentre si abbandonava al sonno, e il canto dell'elfo continuò a riecheggiare nei suoi sogni. L'aria era satura del profumo dei fiori quando Eragon si destò, davanti a una Du Weldenvarden bagnata dai raggi dorati del sole. Sopra di lui si estendeva una fitta cupola di foglie ondeggianti, sostenuta da grossi tronchi che svettavano da un terreno brullo e asciutto. Soltanto muschi, licheni e sparuti cespugli sopravvivevano nella densa ombra verde. La scarsità del sottobosco consentiva di vedere a grandi distanze fra i pilastri nodosi e di camminare liberamente sotto la volta screziata.

Eragon si alzò e vide che Thorv e le sue guardie erano già pronti a partire. Il mulo di Orik era legato dietro a quello di Ekksvar. Eragon si avvicinò a Thorv e disse: «Ringrazio tutti voi per aver protetto me e Saphira. Ti prego di porgere i miei omaggi a Ùndin.»

Thorv si portò il pugno al petto. «Riferirò le tue parole.» Esitò, scoccando un'occhiata furtiva ai capanni. «Gli elfi sono una razza strana, piena di luci e ombre. La mattina brindano con te; la sera ti pugnalano alle spalle. Tieni gli occhi aperti, Ammazzaspettri. Sono caratteri capricciosi.»

«Lo terrò a mente.»

«Mmm.» Thorv fece un cenno verso il fiume. «Hanno intenzione di attraversare il lago Eldor con le barche. Cosa farai del tuo cavallo? Potremmo riportarlo a Tarnag con noi, e da lì a Tronjheim.»

«Barche!» esclamò Eragon, sgomento. Aveva sempre pensato di portare Fiammabianca a Ellesméra. Era utile avere un cavallo quando Saphira era lontana, o nei luoghi troppo ristretti per la sua mole. Si accarezzò la rada peluria del mento. «È un'offerta gentile. Mi garantisci che Fiammabianca sarà ben accudito? Non potrei sopportare che gli accadesse qualcosa.»

«Sul mio onore» disse Thorv, «al tuo ritorno lo troverai grasso e lucido.»

Eragon andò a prendere Fiammabianca e affidò lo stallone, la sella e le bisacce alle cure di Thorv. Si congedò da ciascuno dei guerrieri, poi lui, Saphira e Orik rimasero a guardare i nani che si allontanavano lungo il sentiero da cui erano arrivati.

Nel tornare ai capanni, Eragon e quanto restava del suo gruppo seguirono gli elfi in un boschetto sulle rive dell'Edda, dove trovarono, ormeggiate ai lati di un grosso scoglio, due canoe bianche con lunghi fregi intagliati sulle fiancate. Eragon salì su quella più vicina e s'infilò lo zaino sotto i piedi. Rimase stupefatto dalla leggerezza dell'imbarcazione: avrebbe potuto sollevarla con una mano. Ancor più sorprendente era il fatto che gli scafi sembravano composti da lamine di corteccia di betulla fuse insieme senza che si vedessero comenti. Incuriosito, toccò il fianco. La corteccia era dura e compatta come pergamena, e fredda per il contatto con l'acqua. La battè con le nocche. Il guscio fibroso riverberò come un tamburo sordo.

«Tutte le vostre imbarcazioni sono fatte così?» chiese.

«Tutte, tranne le più grosse» rispose Nari, sedendosi a prua della canoa di Eragon. «Per quelle cantiamo il cedro e la quercia migliori.»

Eragon non ebbe modo di chiedere che cosa voleva dire, perché Orik salì sulla loro canoa, mentre Arya e Lifaen s'imbarcavano sulla seconda. Arya si rivolse a Edurna e Celdin, fermi sulla riva, e disse: «Restate qui di guardia perché nessuno ci segua, e non fate parola a nessuno della nostra presenza. La regina dovrà essere la prima a sapere. Vi manderò rinforzi non appena giungeremo a Silthrim.»

«Arya Dròttningu.»

«Che le stelle vi proteggano!» rispose lei.

Chinandosi in avanti, Nari e Lifaen estrassero pali appuntiti da dentro le barche e cominciarono a spingere le canoe controcorrente. Saphira scivolò in acqua dietro di loro e li raggiunse facendo leva con gli artigli sul fondo del fiume. Quando Eragon la guardò, lei ammiccò divertita e s'immerse; il fiume si gonfiò sul suo dorso dentellato. Gli elfi risero a quella scena e si profusero in complimenti per la sua forza e le sue dimensioni. Dopo un'ora raggiunsero il lago Eldor, increspato da piccole onde schiumose. Uccelli e mosche sfrecciavano dentro e fuori da una parete di alberi sulla riva occidentale, mentre quella orientale risaliva verso la prateria, dove pascolavano centinaia di cervi. Una volta sfuggiti alla corrente del fiume, Nari e Lifaen issarono i pali a bordo e distribuirono pagaie a forma di foglia. Orik e Arya sapevano già come governare una barca, ma Nari dovette spiegare il procedimento a Eragon. «La barca gira dalla parte in cui remi» disse l'elfo. «Perciò, se io pagaio a destra e Orik a sinistra, allora tu dovrai pagaiare prima da un lato, e poi dall'altro, altrimenti perderemo la rotta.» Alla luce del sole, i capelli di Nari scintillavano come preziosa filigrana.

Eragon imparò subito a manovrare la pagaia e mentre il movimento diventava automatico, la sua mente fu libera di fantasticare, fluttuando sul freddo lago, smarrita nei favolosi mondi nascosti ai suoi occhi. Quando fece una pausa per riposarsi le braccia, estrasse dalla cintura il rompicapo di Orik, e si dedicò con caparbietà a trovare la giusta disposizione degli anelli d'oro.

Nari notò quello che stava facendo. «Posso vederlo?» Eragon lo passò all'elfo, che si volse di schiena. Per qualche istante, Eragon e Orik governarono da soli la canoa, mentre Nari era impegnato con gli anelli intrecciati. Poi, con un'esclamazione soddisfatta, alzò la mano, mostrando un unico anello d'oro al dito medio. «Un giochetto divertente» disse. Si sfilò l'anello e lo scosse, così che tornò fra le mani di Eragon nel suo stato originale.

«Come hai fatto?» disse Eragon sbalordito, e invidioso che Nari avesse risolto il rompicapo così facilmente. «Aspetta... Non dirmelo. Voglio riuscirci da solo.» ' «Ma certo» disse Nari con un sorriso.

Ferite del passato

Per tre giorni e mezzo, gli abitanti di Carvahall diI scussero dell'ultimo attacco, della tragica morte di Elmund e di quello che si poteva fare per sfuggire alla drammatica situazione. Dibattiti dai toni accesi infuriavano in ogni singola stanza di ogni singola casa; nel tempo di una parola, gli amici si rivoltavano contro gli amici, i mariti contro le mogli, i figli contro i genitori, per poi riconciliarsi qualche istante dopo nel disperato tentativo di trovare una maniera per sopravvivere. Alcuni sostenevano che, dal momento che Carvahall era condannata in ogni caso, avrebbero fatto meglio a uccidere i Ra'zac e i soldati rimasti, se non altro per appagare la sete di vendetta. Altri dicevano che se Carvahall era davvero condannata, l'unica cosa logica da fare era arrendersi e rimettersi alla clemenza del re, anche se questo significava tortura e morte per Roran e schiavitù per tutti gli altri. Altri ancora non appoggiavano né l'una né l'altra fazione, e covavano una sorda rabbia contro chiunque avesse attirato quella disgrazia sul villaggio. Molti facevano del loro meglio per nascondere il panico sul fondo di un boccale.

Dal canto loro, sembrava che i Ra'zac si fossero resi conto che con undici soldati morti non disponevano più di una forza sufficiente ad attaccare Carvahall; si erano infatti ritirati ancora più su lungo la strada e avevano appostato le sentinelle nei vari punti strategici della Valle Palancar.

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