Volodyk - Paolini3-Brisingr
Eragon sentì un groppo in gola.
Le labbra rosse arricciate in una smorfia divertita, Íorûnn si alzò dalla sedia con un movimento sinuoso e a voce bassa e roca disse: «A quanto pare, toccherà a me decidere l'esito dell'incontro odierno. Ho ascoltato con molta attenzione le tue argomentazioni, Nado, e anche le tue, Orik. Anche se condivido la maggior parte degli argomenti espressi da entrambi, il problema principale resta decidere se vogliamo impegnarci nella battaglia dei Varden contro l'Impero. Se la loro fosse soltanto una guerra fra due clan rivali, non m'importerebbe chi vince o chi perde, e di certo non metterei a repentaglio la vita dei nostri guerrieri per il bene degli stranieri. Ma non è così. Anzi, le cose sono molto diverse. Se Galbatorix esce trionfante da questa guerra, nemmeno i Monti Beor ci proteggeranno dalla sua collera. Se il nostro regno vuole sopravvivere, dobbiamo vedere la sconfitta di Galbatorix. E mi sembra indecente che una razza antica e potente come la nostra resti nascosta nelle sue grotte e gallerie mentre altri decidono il destino di Alagaësia. Quando saranno scritte le cronache di questa era, si dirà che abbiamo combattuto a fianco degli umani e degli elfi, come gli eroi di un tempo, o che ci siamo rintanati nelle nostre case al pari di contadini spauriti mentre la battaglia infuriava fuori delle nostre porte? Per conto mio, conosco la risposta.» Íorûnn gettò indietro i capelli e disse: «A nome del mio clan, voto Grimstborith Orik come nostro nuove re!»
Il più anziano dei cinque magistrati disposti lungo la parete circolare si fece avanti e, battendo il bastone levigato sul pavimento di pietra, proclamò: «Salutiamo tutti re Orik, quarantatreesimo re di Tronjheim, del Farthen Dûr, e di ogni knurla sopra e sotto i Monti Beor!»
«Evviva re Orik!» ruggirono i presenti. I capiclan si alzarono dal tavolo in un sonoro fruscio di vesti e clangore di armature. Inebetito, Eragon imitò gli altri, conscio di trovarsi al cospetto di un re. Scoccò un'occhiata a Nado, ma il volto del nano era una maschera impenetrabile.
Il magistrato dalla barba bianca batté di nuovo il bastone sul pavimento. «Che gli scribi annotino subito la decisione presa in questo raduno, e che la notizia raggiunga ogni angolo del regno. Araldi! Informate i maghi con i loro specchi divinatori di quanto è accaduto qui oggi e poi andate dai guardiani della montagna e dite loro: "Quattro colpi di tamburo. Quattro colpi, e fate roteare le mazze come mai prima d'ora, perché abbiamo un nuovo re. Quattro colpi di una tale forza che tutto il Farthen Dûr dovrà riecheggiare della notizia." Dite loro così, questo è il mio incarico per voi. Andate!»
Dopo che gli araldi si furono allontanati, Orik si alzò e rimase in piedi a guardare i nani che lo circondavano. A Eragon parve in qualche modo stupito, come se non si fosse davvero aspettato di vincere la votazione. «Per questa grande responsabilità» disse «vi ringrazio.» Fece una pausa, poi riprese. «Il mio unico pensiero sarà il progresso della nostra nazione, e perseguirò questo scopo senza esitare, fino al giorno che tornerò alla pietra.»
I capiclan si fecero avanti, uno alla volta, e s'inginocchiarono davanti a Orik per giurargli lealtà come sudditi fedeli. Quando venne il turno di Nado, il nano non lasciò trapelare alcuna emozione, ma recitò le frasi del giuramento senza inflessioni, le parole che gli cadevano dalla bocca come barre di piombo. Quando ebbe finito, un palpabile senso di sollievo si sparse fra i membri dell'assemblea.
Conclusi i giuramenti, Orik decretò che la sua incoronazione avrebbe avuto luogo il mattino dopo, e poi lui e il suo seguito si ritirarono in una stanza adiacente. Una volta lì, Eragon guardò Orik, e Orik guardò Eragon, ma nessuno dei due aprì bocca finché un ampio sorriso non comparve sul viso di Orik, che scoppiò a ridere, con le guance rosse. Ridendo con lui, Eragon lo tirò per la manica e lo abbracciò forte. Le guardie e i consiglieri di Orik gli si strinsero intorno, dandogli pacche sulle spalle ed esprimendo sincere congratulazioni.
Eragon lo lasciò andare dicendo: «Non pensavo che Íorûnn ci avrebbe appoggiati.»
«Già. Sono felice che l'abbia fatto, ma questo complica le cose.» Orik fece una smorfia. «Immagino che dovrò ricompensarla, almeno dandole un posto nel mio consiglio.»
«Sarà un'ottima scelta!» esclamò Eragon ad alta voce per superare il frastuono. «Se i Vrenshrrgn sono all'altezza del loro nome, ci saranno molto utili sulla strada che ci porterà alle porte di Urû'baen.»
Orik stava per rispondere, ma poi una nota bassa d'inaudita potenza riverberò dal pavimento al soffitto della sala, facendo tremare le ossa di Eragon. «Ascoltate!» gridò Orik alzando una mano. Il gruppo tacque.
La bassa nota risuonò quattro volte, e ogni volta scosse la stanza come se un gigante stesse battendo il pugno contro le mura di Tronjheim. Alla fine Orik disse: «Non avrei mai creduto di poter sentire i Tamburi di Derva annunciare la mia investitura.»
«Quanto sono grandi i tamburi?» chiese Eragon, ammirato.
«Circa cinquanta piedi, se la memoria non m'inganna.»
Eragon pensò che i nani, pur essendo la razza più piccola di Alagaësia, curiosamente costruivano le strutture più grandi. Forse, rifletté, realizzare cose enormi li fa sentire meno piccoli. Era sul punto di esporre la propria teoria a Orik, ma all'ultimo istante si trattenne per timore di offenderlo.
Gli assistenti di Orik si assieparono attorno a lui e cominciarono a consultarsi nella lingua dei nani, le voci concitate che si sovrapponevano. Eragon, che stava per rivolgere un'altra domanda a Orik, si trovò relegato in un angolo. Aspettò paziente una pausa nella conversazione, ma dopo qualche minuto capì che i nani non avrebbero smesso tanto presto di assillare Orik con domande e consigli, dato che questa gli sembrava la natura dei loro discorsi.
Allora disse: «Orik Könungr» e pronunciò la parola re nell'antica lingua con veemenza, in modo da catturare l'attenzione di tutti i presenti. Nella stanza scese il silenzio, e Orik guardò Eragon inarcando un sopracciglio. «Maestà, vorrei avere il permesso di ritirarmi. C'è una certa... questione di cui dovrei occuparmi, se non è già troppo tardi.»
Negli occhi di Orik brillò un lampo di comprensione. «Ma sicuro, sbrigati! A ogni modo, non c'è bisogno che mi chiami maestà, Eragon, né sire, né con qualche altro titolo altisonante. Siamo amici e fratelli adottivi, dopotutto.»
«È vero, maestà» rispose Eragon «ma per il momento credo sia più giusto da parte mia dimostrarti lo stesso ossequio degli altri. Sei il re della tua razza, adesso, e anche il mio re, dato che sono un membro del Dûrgrimst Ingeitum, un fatto che non posso ignorare.»
Orik lo studiò per un momento, come se lo guardasse da molto lontano, e disse: «Come desideri, Ammazzaspettri.»
Eragon s'inchinò e lasciò la stanza. Accompagnato dalle sue quattro guardie, attraversò le gallerie e salì le scale che conducevano al pianterreno di Tronjheim. Una volta arrivato nel ramo meridionale dei quattro corridoi principali che dividevano la città-montagna, Eragon si rivolse a Thrand, il capitano delle guardie e disse: «Ho intenzione di fare il resto della strada di corsa. Siccome non sareste in grado di stare al mio passo, vi suggerisco di fermarvi quando raggiungerete il cancello sud della città e di aspettare lì il mio ritorno.»
«Argetlam, ti prego» disse Thrand, «non dovresti andare da solo. Posso convincerti a rallentare in modo che possiamo accompagnarti? Non siamo veloci come gli elfi, certo, ma siamo capaci di correre dall'alba al tramonto anche con l'armatura addosso.»
«Apprezzo la tua premura» disse Eragon «ma non voglio perdere nemmeno un minuto, anche se sapessi che c'è un sicario appostato dietro ciascun pilastro. Arrivederci!»
Detto questo, si precipitò lungo l'ampio corridoio, aggirando i nani che gli sbarravano il passo.
DI NUOVO INSIEME
Quando Eragon cominciò a correre, quasi un miglio lo separava dal cancello sud di Tronjheim. Coprì la distanza in pochi minuti, i passi che rimbombavano sul pavimento di pietra. Mentre correva, colse immagini fugaci dei ricchi arazzi appesi sugli archi che immettevano nei corridoi laterali e delle statue grottesche di bestie e mostri annidate fra i pilastri di diaspro rosso sangue che costeggiavano il viale dalla volta a botte. La strada, fiancheggiata da quattro ordini di archi, era così larga che Eragon non faticò a evitare i nani che la popolavano, anche se a un certo punto, una fila di Knurlacarathn gli si parò davanti e dovette superarli con un salto. I nani abbassarono la testa, lanciando esclamazioni sorprese. Eragon si divertì nell'incrociare i loro sguardi stupiti.
A fluide, ampie falcate corse sotto il cancello di legno massiccio che proteggeva l'entrata meridionale della città-montagna e sentì le guardie gridare: «Salute a te, Argetlam!» Dopo una ventina di iarde, dato che il cancello era incassato nella base di Tronjheim passò fra i due giganteschi grifoni d'oro che fissavano con occhi vacui l'orizzonte e sbucò all'aperto.
L'aria fresca e umida profumava di pioggia appena caduta. Era mattina, ma un grigio crepuscolo avvolgeva la piatta distesa di terra che circondava Tronjheim, dove non cresceva erba, ma solo muschi, licheni e qualche sporadico fungo velenoso dall'odore pungente. In alto, il Farthen Dûr s'innalzava per oltre dieci miglia fino alla stretta apertura da dove filtrava una pallida luce indiretta nell'immenso cratere. Eragon provava un po' di soggezione davanti all'imponenza della montagna ogni volta che guardava in alto.
Mentre correva, sentiva il suono monotono del suo respiro e dei suoi rapidi passi leggeri. Era solo, tranne che per un pipistrello curioso che gli svolazzò sopra la testa, emettendo acuti squittii. L'atmosfera tranquilla che permeava la montagna cava lo confortò, liberandolo dalle consuete preoccupazioni.
Seguì il sentiero lastricato che dal cancello sud di Tronjheim conduceva fino alla nera porta, alta trenta piedi, incassata nella parete meridionale del Farthen Dûr. Quando si fermò, due nani spuntarono dalle garitte nascoste e si affrettarono ad aprirgli i battenti, rivelando una galleria che sembrava senza fine.
Eragon si avviò. Pilastri di marmo tempestati di rubini e ametiste fiancheggiavano i primi cinquanta piedi del tunnel; poi la galleria si faceva spoglia e desolata, le pareti lisce intervallate ogni venti iarde da una lanterna senza fiamma, e da qualche porta o cancello sbarrati. Chissà dove conducono, si chiese. Poi immaginò le miglia di pietra che incombevano su di lui e per un momento la galleria gli procurò un insopportabile senso di oppressione. Scacciò in fretta quell'immagine.
A metà strada, la sentì.
«Saphira!» gridò Eragon, sia con la mente che con la voce, e quel nome riecheggiò sulle pareti di pietra con la potenza di una dozzina di voci.
Eragon! Un istante dopo, il debole rimbombo di un ruggito lontano lo raggiunse dal fondo della galleria.
Accelerando ancora di più il passo, Eragon spalancò la mente a Saphira e rimosse ogni barriera perché potessero ricongiungersi senza riserve. Come una corrente d'acqua tiepida, la coscienza di lei si riversò in lui, e quella di lui scorse dentro di lei. Eragon ansimò, inciampò, per poco non cadde. Si lasciarono avvolgere dalle morbide pieghe dei reciproci pensieri, stringendosi con un'intimità che nessun abbraccio fisico avrebbe potuto replicare, permettendo alle proprie identità di fondersi ancora una volta. Il loro più grande conforto era semplice: non erano più soli. Sapere di avere qualcuno che ti vuole bene, che capisce ogni fibra del tuo essere e che non ti abbandonerà mai, nemmeno nella più disperata delle circostanze, dovrebbe rappresentare l'essenza di ogni vero legame, ed Eragon e Saphira godevano di quel privilegio.
Passarono solo pochi istanti prima che Eragon la scorgesse affrettarsi verso di lui, veloce ma non troppo, per evitare di urtare la testa sul soffitto o di graffiarsi le ali contro le pareti. Gli artigli della dragonessa stridettero sul pavimento di pietra quando frenò fino a fermarsi davanti a Eragon, fiera, splendente, magnifica.
Con un grido di gioia, Eragon fece un salto e, incurante delle squame taglienti, le cinse il collo con le braccia, tenendola stretta mentre i piedi gli penzolavano nel vuoto. Piccolo mio, disse Saphira con la sua voce calda. Abbassò la testa per fargli toccare terra, poi sbuffò e disse: Piccolo mio, a meno che tu non voglia strangolarmi, dovresti allentare la stretta.
Scusa. Con un sogghigno, Eragon indietreggiò, poi si mise a ridere e premette la fronte sul suo muso, cominciando a grattarla dietro le mascelle.
Il mugolio gutturale della dragonessa riempì la galleria.
Sei stanca, disse Eragon.
Non ho mai volato tanto lontano così in fretta. Mi sono fermata una sola volta da quando ho lasciato i Varden, e solo perché avevo sete.
Vuoi dire che non dormi e non mangi da tre giorni?
Lei batté le palpebre, nascondendo per un momento i brillanti occhi color zaffiro.
Starai morendo di fame! esclamò Eragon, preoccupato. La ispezionò in cerca di ferite, ma con sollievo non ne trovò.
Sono stanca, ammise lei, ma non ho fame. Non ancora. Quando mi sarò riposata, allora avrò bisogno di mangiare. In questo momento non credo che riuscirei a mangiare nemmeno un coniglio... Mi manca la terra sotto le zampe, mi sembra ancora di volare.
Se non fossero stati separati per tanto tempo, Eragon l'avrebbe rimproverata per la sua imprudenza, ma in quel momento non provò altro che commozione e gratitudine davanti a tanta devozione. Grazie, disse. Non avrei sopportato di aspettare un solo altro giorno per essere di nuovo insieme.
E io lo stesso. La dragonessa chiuse gli occhi e spinse la testa contro le mani di Eragon, che continuava a grattarla dietro la mascella. E poi non potevo mancare all'incoronazione, giusto? Che cos'ha deciso il raduno dei... Prima che Saphira potesse concludere la domanda, Eragon le inviò un'immagine di Orik.
Ah, sospirò lei, comunicandogli la sua soddisfazione. Sarà un bravo re.
Lo spero.
Lo Zaffiro Stellato è pronto perché io lo ripari?
Se i nani non hanno già finito di metterlo insieme, sono sicuro che finiranno entro domani.
Bene. Socchiudendo una palpebra, Saphira scrutò Eragon con il suo sguardo penetrante. Nasuada mi ha raccontato dell'attentato dell'Az Sweldn rak Anhûin. Ti cacci sempre nei guai quando non sono con te.