Volodyk - Paolini2-Eldest
Alla fine scorsero Glaedr come un puntolino nero fra le nubi violette. Mentre scendeva, Eragon vide una ferita sulla zampa anteriore destra del drago, una lacerazione fra le sue squame sovrapposte, grande quanto la mano di Eragon. Sangue scarlatto scorreva nei solchi fra le squame adiacenti.
Nel momento in cui Glaedr toccò terra, Oromis corse verso di lui, ma si fermò quando il drago gli ringhiò contro. Saltellando sulla zampa ferita, Glaedr si rifugiò ai margini della foresta, dove si accovacciò sotto la volta di rami, dando la schiena a Eragon, per leccarsi la ferita.
Oromis si avvicinò e s'inginocchiò sull'erba accanto a Glaedr, tenendosi a distanza con serena pazienza. Era ovvio che avrebbe aspettato tutto il tempo necessario. Eragon si innervosiva sempre di più col passare dei minuti. Alla fine, senza alcun segnale evidente, Glaedr permise a Oromis di avvicinarsi e di ispezionargli la zampa. La magia fluì dal gedwéy ignasia di Oromis quando appoggiò la mano sullo squarcio di Glaedr.
«Come sta?» chiese Eragon, quando Oromis si ritirò.
«Sembra una ferita terribile, ma non è che un graffio per uno come Glaedr.»
«E Saphira? Non riesco ancora a entrare in contatto con lei.»
«Devi andare tu da lei» disse Oromis. «È ferita, ma non soltanto nel fisico. Glaedr mi ha raccontato poco di quanto è successo, ma io ho intuito molto, e ti consiglio di affrettarti.»
Eragon si guardò intorno in cerca di un mezzo di trasporto, e gemette di angoscia nel vedere che non ce n'erano. «Come faccio a raggiungerla? È troppo lontana, non c'è un sentiero, e non posso...»
«Calmati, Eragon. Come si chiamava lo stallone che ti ha portato qui da Silthrim?»
Eragon ci mise qualche istante per ricordare. «Folkvir.»
«Allora chiamalo con la magia. Pronuncia il suo nome e trasmettigli la fretta che hai, nel più potente dei linguaggi, e lui verrà ad aiutarti.»
Lasciando che la magia gli pervadesse la voce, Eragon invocò Folkvir, facendo riecheggiare la sua implorazione fra le colline boscose fino a Ellesméra, con tutta l'urgenza che riuscì a evocare. Oromis annuì, compiaciuto. «Ben fatto.» Una decina di minuti più tardi, Folkvir emerse dai recessi ombrosi della foresta come un fantasma argenteo, scuotendo la criniera e sbuffando di eccitazione. I fianchi dello stallone ansimavano per quanto aveva corso. Saltando in groppa al piccolo cavallo elfico, Eragon disse: «Tornerò appena posso.»
«Fa' quel che devi» rispose Oromis.
Poi Eragon piantò i talloni nei fianchi dello stallone e gridò: «Corri, Folkvir! Corri!» Il cavallo partì al galoppo, addentrandosi nella Du Weldenvarden e facendosi strada con incredibile destrezza fra i pini contorti. Eragon lo guidava verso Saphira con immagini mentali.
In mancanza di una pista nel sottobosco, un cavallo come Fiammabianca avrebbe impiegato tre o quattro ore per raggiungere la rocca delle Uova Infrante. Folkvir coprì la distanza in poco più di un'ora.
Ai piedi del monolito di basalto, che emergeva dalla foresta come un pilastro verde screziato e superava gli alberi di ben oltre cento piedi, Eragon mormorò: «Fermo» poi smontò a terra. Guardò la cima distante della rocca delle Uova Infrante. Saphira era seduta lì.
Camminò intorno al perimetro, in cerca di un modo per scalare il pinnacolo, ma invano, perché la roccia era liscia e inaccessibile: non c'erano fenditure, crepe o altri appigli.
Sarà un problema, pensò.
«Resta qui» disse a Folkvir. Il cavallo lo guardò con i suoi occhi intelligenti. «Pascola, se vuoi, ma resta qui, intesi?» Folkvir nitrì e, col suo muso vellutato, spinse il braccio di Eragon. «Sì, sei stato molto bravo.»
Con lo sguardo fisso sulla vetta del monolito, Eragon chiamò a raccolta le forze e nell'antica lingua disse: «Su!» In seguito si rese conto che se non fosse stato abituato a volare con Saphira, l'esperienza sarebbe stata abbastanza sconvolgente da fargli perdere il controllo sull'incantesimo, col rischio di sfracellarsi al suolo. Il terreno gli sprofondò da sotto i piedi in un lampo, i tronchi degli alberi si assottigliarono, mentre lui fluttuava verso la parte bassa del fogliame, e poi verso il cielo della sera. I rami gli graffiavano la faccia e le spalle come artigli mentre usciva allo scoperto. Al contrario di quando si trovava in groppa a Saphira, questa volta conservò il senso del peso, come se ancora si trovasse con i piedi per terra.
Giunto ai margini della rocca delle Uova Infrante, Eragon si spostò in avanti e sciolse la magia, atterrando su una zona coperta di muschio. Si accasciò, esausto, e aspettò di vedere se lo sforzo gli avrebbe scatenato una crisi alla schiena; non accadde nulla, e così sospirò di sollievo.
La vetta del monolito era composta da torri frastagliate divise da gole ampie e profonde, dove non cresceva niente se non qualche raro fiore selvatico. Nere cavèrne costellavano le torri, alcune naturali, altre scavate nel basalto con artigli grossi quanto il braccio di Eragon. Gli uccelli avevano fatto il nido dove un tempo dimoravano i draghi: erano falchi e aquile, e lo osservavano, pronti ad attaccare se avesse minacciato le loro uova.
Eragon s'incamminò nel tetro paesaggio, attento a non slogarsi una caviglia sul terreno accidentato o a non avvicinarsi troppo a uno dei crepacci che fendevano il pilastro. Se ci fosse caduto dentro, sarebbe precipitato nel vuoto. In più occasioni dovette arrampicarsi su ripide creste, e altre due volte fu costretto a ricorrere alla magia per salire. Ovunque erano visibili testimonianze della presenza dei draghi, da profondi solchi nel basalto e pozze di roccia fusa e rappresa a un certo numero di opache squame incolori rimaste incastrate negli angoli, insieme ad altri detriti. A un certo punto s'imbattè in un oggetto tagliente e, chinandosi per esaminarlo, scoprì che si trattava di un frammento di uovo di drago verde.
Sul versante orientale del monolito si trovava la torre più alta, al centro della quale si apriva la caverna più grande. Fu lì che finalmente Eragon trovò Saphira, rannicchiata in una depressione contro la parete di fondo, la schiena rivolta all'ingresso. Tremava tutta. Le pareti della grotta portavano segni recenti di bruciature, e i cumuli di ossa antiche erano sparsi ovunque, come se ci fosse stata una lotta.
«Saphira» disse Eragon, parlando ad alta voce, perché lei continuava a tenere chiusa la mente.
Lei voltò la testa di scatto, e lo guardò come se fosse un estraneo; le sue pupille si ridussero a due nere fessure mentre i suoi occhi si adattavano alla luce del tramonto alle spalle di Eragon. Ringhiò una volta, come un cane selvatico, e poi si volse. Nel farlo, sollevò l'ala sinistra ed espose un lungo squarcio lungo la coscia. Eragon ebbe un tuffo al cuore a quella vista.
Sapeva che lei non gli avrebbe permesso di avvicinarsi, com'era accaduto a Oromis con Glaedr, così si inginocchiò fra le ossa frantumate e attese. Attese senza dire una parola o fare un gesto, finché le gambe non gli si addormentarono e le mani s'irrigidirono per il freddo. Eppure non si rammaricava del disagio. Avrebbe volentieri pagato quel prezzo se significava aiutare Saphira.
Dopo molto tempo, lei disse: Sono stata una sciocca.
Siamo tutti sciocchi, a volte.
Questo non rende più facili le cose, quando tocca a te fare la parte dello stupido.
Già, suppongo di no.
Ho sempre saputo che cosa fare. Quando morì Garrow, sapevo che la cosa giusta era inseguire i Ra'zac. Quando morì Brom, sapevo che saremmo dovuti andare a Gil'ead, e poi dai Varden. E quando morì Ajihad, sapevo che avresti dovuto giurare fedeltà a Nasuada. Il cammino è sempre stato chiaro per me. Tranne che adesso. Su questo unico argomento mi sento smarrita.
Di che si tratta, Saphira?
Invece di rispondere, lei cambiò argomento e gli chiese: Sai perché questo posto si chiama la rocca delle Mova Infrante?
No.
Perché durante la guerra fra draghi ed elfi, gli elfi ci rintracciarono fin qui e ci uccisero nel sonno. Distrussero i nostri nidi e infransero le nostre uova con la magia. Quel giorno piovve sangue sulla foresta. Nessun drago è mai vissuto qui da allora.
Eragon rimase in silenzio. Non era quello il motivo per cui era lì. Avrebbe aspettato finché lei non fosse stata pronta a svelargli la vera questione.
Di' qualcosa! esclamò Saphira.
Mi permetterai di guarirti la zampa?
Lasciami in pace.
Allora resterò seduto qui, muto e immobile come una statua, finché non diventerò polvere; grazie a te, ho la pazienza di un drago.
Quando alla fine lei parlò, le sue parole furono esitanti, amare e venate di ironia. Mi vergogno ad ammetterlo. Quando siamo arrivati qui e ho visto Glaedr, ho provato una gioia immensa nello scoprire che un altro membro della mia razza era sopravvissuto, a parte Shruikan. Non avevo mai visto un altro drago prima, se non nei ricordi di Brom. E ho pensato... ho pensato che Glaedr si sarebbe rallegrato della mia esistenza, come io della sua.
Ma lo ha fatto.
Non capisci. Pensavo che sarebbe stato il compagno che non mi sarei mai aspettata di avere, e che insieme avremmo potuto ricostruire la nostra razza. Sbuffò, e una vampa di fuoco le sprizzò dalle narici. Mi sbagliavo. Lui non mi vuole. Eragon scelse con cura le parole della risposta, per non offenderla e per darle un minimo di conforto. Questo perché sa che sei destinata a qualcun altro: un uovo di quelli che restano, e sono solo due. Né sarebbe corretto per lui accoppiarsi con te, dato che è il tuo maestro.
O forse non mi trova abbastanza attraente.
Saphira, nessun drago è brutto, e tu sei la più bella delle dragonesse.
Sono una sciocca, disse lei. Ma sollevò l'ala sinistra e la tenne sospesa perché lui potesse curarle la ferita. Eragon si avvicinò adagio al suo fianco ed esaminò la ferita cremisi, lieto che Oromis gli avesse dato tante pergamene di anatomia da leggere. Il colpose inferto da un artiglio o da una zanna, non sapeva dirlo - le aveva squarciato il quadricipite, sotto la pelle coriacea, ma non era andato tanto a fondo da snudare l'osso. Limitarsi a chiudere i lembi della ferita, come Eragon aveva fatto tante volte, non sarebbe bastato. Bisognava ricucire il muscolo. L'incantesimo che Eragon usò era lungo e complesso, e nemmeno lui ne capiva tutti i dettagli, perché lo aveva memorizzato da un antico testo che forniva poche spiegazioni, oltre all'affermazione secondo cui - purché non ci fossero ossa rotte o lesioni agli organi interni - "questo incantesimo guarirà qualsiasi ferita di origine violenta, tranne la morte". Una volta pronunciata la formula, Eragon guardò affascinato il muscolo di Saphira che s'increspava sotto la sua mano - vene, nervi e fibre che si ricompattavano - e tornava integro come prima. La ferita era così grande che, nel suo stato di debolezza, Eragon non osò guarirla soltanto con l'energia del proprio corpo, e attinse anche a quella di Saphira.
Prude, disse la dragonessa quando lui ebbe finito.
Eragon sospirò e si appoggiò con la schiena al ruvido basalto, guardando il tramonto da sotto le ciglia. Temo che dovrai portarmi tu giù da questa rocca. Sono troppo stanco per muovermi.
Con un fruscìo secco, lei si voltò e appoggiò la testa sulle ossa sparse. Ti ho trattato male da quando siamo arrivati a Ellesméra. Ho ignorato i tuoi consigli, invece di darti ascolto. Mi avevi avvertita su Glaedr, ma ero troppo orgogliosa per vedere la verità nelle tue parole... Ti ho deluso come compagna, ho tradito ciò che significa essere un drago, e ho macchiato l'onore dei Cavalieri.
No, non dirlo neppure, protestò lui con foga. Saphira, tu non hai tradito il tuo dovere. Puoi aver fatto uno sbaglio, ma è stato uno sbaglio onesto, che chiunque avrebbe potuto commettere nella tua posizione.
Questo non giustifica il mio comportamento nei tuoi riguardi.
Lui cercò di incontrare il suo sguardo, ma lei lo evitò finché Eragon non le accarezzò il collo, dicendo: Saphira, i membri di una famiglia si perdonano a vicenda, anche se non sempre comprendono perché uno abbia agito in un certo modo... Tu fai parte della mia famiglia, come Roran... e anche di più. Niente di quello che farai potrà mai cambiare le cose. Niente. Quando lei non rispose, Eragon allungò una mano sotto la
sua mascella e le solleticò la pelle coriacea sotto un orecchio. Mi senti? Niente!
Lei tossicchiò, un rombo gutturale che tradiva un certo piacere, poi inarcò il collo e sollevò la testa per sfuggire alle dita birichine. Come faccio a guardare di nuovo in faccia Glaedr? Era in preda a una furia terribile... L'intera rocca tremava per la forza della sua collera.
Almeno gli hai tenuto testa quando ti ha attaccata.
Veramente è andata al contrario.
Colto di sorpresa, Eragon inarcò un sopracciglio. Be', a ogni buon conto, l'unica cosa da fare è scusarti. Scusarmi!
Sì. Vagli a dire che ti dispiace, che una cosa del genere non succederà più, e che desideri continuare l'addestramento con lui. Sono sicuro che ti capirà, se gliene darai l'occasione.
D'accordo, borbottò lei.
Ti sentirai meglio quando l'avrai fatto. Sorrise. Te lo dico per esperienza personale.
Lei sbuffò e si avvicinò all'ingresso della caverna, dove si accovacciò per contemplare l'ondulata foresta. Dovremmo andare. Presto farà buio. Stringendo i denti, Eragon si alzò - ogni movimento gli costava fatica - e si issò in groppa a Saphira, mettendoci il doppio del tempo che normalmente impiegava. Eragon?... Grazie di essere venuto. So quello che hai rischiato con la tua schiena.
Lui l'accarezzò sulla spalla. Siamo di nuovo uno?
Di nuovo uno.
Il dono dei draghi
I giorni che precedettero l'Agaeti Blòdhren furono i migliori e i peggiori per Eragon. La schiena lo tormentava più che mai, minandogli la salute e la resistenza, offuscandogli la mente; viveva nel costante terrore che si scatenasse un altro accesso. Eppure lui e Saphira non erano mai stati tanto vicini. Vivevano l'uno nella mente dell'altra come nella propria. E di quando in quando Arya andava a far loro visita nella casa sull'albero, e passeggiava per Ellesméra con loro. Tuttavia non andava mai da sola, ma portava sempre con sé Orik, o Maud, la gatta mannara.
Durante le loro passeggiate, Arya presentò a Eragon e Saphira un certo numero di elfi di riguardo: grandi guerrieri, poeti e artisti. Li portava ai concerti che si tenevano sotto i pini. E mostrò loro le innumerevoli meraviglie nascoste di Ellesméra.
Eragon approfittava di ogni occasione per parlare con lei. Le raccontò della sua infanzia nella Valle Palancar, di Roran e di Garrow, della zia Marian, aneddoti su Sloan, Ethlbert e altri compaesani, e del suo amore per le montagne che circondavano Carvahall, e delle fiammeggianti strisce di luce che adornavano il cielo notturno d'inverno. Le raccontò di quando una volpe cadde nelle vasche per la concia di Gedric e dovette essere ripescata con una rete. Le parlò della gioia di coltivare una piantagione, di come estirpava le erbacce e la nutriva fino a scorgere i primi germogli verdi che spuntavano dal terreno: sapeva che lei più di tutti poteva apprezzare quella gioia.