Volodyk - Paolini2-Eldest
Eragon approfittava di ogni occasione per parlare con lei. Le raccontò della sua infanzia nella Valle Palancar, di Roran e di Garrow, della zia Marian, aneddoti su Sloan, Ethlbert e altri compaesani, e del suo amore per le montagne che circondavano Carvahall, e delle fiammeggianti strisce di luce che adornavano il cielo notturno d'inverno. Le raccontò di quando una volpe cadde nelle vasche per la concia di Gedric e dovette essere ripescata con una rete. Le parlò della gioia di coltivare una piantagione, di come estirpava le erbacce e la nutriva fino a scorgere i primi germogli verdi che spuntavano dal terreno: sapeva che lei più di tutti poteva apprezzare quella gioia.
In cambio, Eragon ebbe l'opportunità di sapere qualcosa di più sul suo conto. La sentì parlare della sua infanzia, dei suoi amici e della sua famiglia, e delle sue esperienze fra i Varden, di cui parlava con allegria, descrivendo razzìe e battaglie a cui aveva partecipato, trattati che aveva aiutato a negoziare, le sue dispute con i nani, e gli eventi più importanti a cui aveva assistito in qualità di ambasciatrice.
Grazie a lei e a Saphira, Eragon provava una profonda pace nel cuore, ma una pace in precario equilibrio, dato che la minima influenza riusciva a turbarla. Il tempo era suo nemico, poiché Arya era destinata a partire subito dopo l'Agaeti Blòdhren. E così Eragon assaporava i momenti passati con lei, e aspettava con angoscia l'arrivo dell'imminente celebrazione.
L'intera città brulicava di intensa attività in preparazione dell'Agaeti Blòdhren. Eragon non aveva mai visto gli elfi così eccitati. Decoravano la foresta di festoni e lanterne colorate, specie intorno all'albero di Menoa, mentre l'albero stesso era abbellito da lanterne appese alla fine di ogni ramo, dove risplendevano come gocce di rugiada. Persino le piante, notò Eragon, avevano assunto un'aria festosa con un tripudio di nuovi fiori dai colori scintillanti. Spesso sentiva gli elfi che li cantavano fino a tarda notte.
Ogni giorno, centinaia di elfi giungevano a Ellesméra dalle altre città sparse nella foresta, perché nessun elfo si sarebbe mai perso la ricorrenza centenaria del trattato con i draghi. Eragon intuì che molti erano venuti anche per conoscere Saphira. Mi sembra di non fare altro che ripetere saluti all'infinito, si disse. Gli elfi assenti perché impegnati altrove avrebbero festeggiato la ricorrenza nello stesso momento, e avrebbero partecipato alle celebrazioni di Ellesméra divinando attraverso specchi magici che mostravano le sembianze di chi stava osservando, perché nessuno si sentisse spiato.
Una settimana prima dell'Agaeti Blòdhren, quando Eragon e Saphira si accingevano a tornare nei propri alloggi dalla rupe di Tel'naeir, Oromis disse: «Dovreste pensare entrambi a che cosa portare alla Celebrazione del Giuramento di Sangue. A meno che le vostre creazioni non abbiano bisogno della magia per manifestarsi o funzionare, vi sconsiglierei di ricorrere alla negromanzia. Nessuno rispetterebbe il vostro lavoro se fosse prodotto di un incantesimo e non delle vostre mani. Vi suggerisco inoltre di preparare opere separate. Anche questa è nostra usanza.»
In volo, Eragon chiese a Saphira: Qualche idea?
Forse una. Ma se non ti dispiace, vorrei vedere se funziona prima di dirtela. Lui colse un frammento d'immagine, un affioramento di nuda roccia che sporgeva dalla foresta, prima che lei lo nascondesse.
Eragon sorrise. Non mi dai nemmeno un indizio?
Fuoco. Tantissimo fuoco.
A casa, Eragon passò in rassegna le proprie capacità e pensò: Più di tutto mi intendo di agricoltura, ma non vedo in che modo possa aiutarmi. Né posso sperare di competere con gli elfi grazie alla magia, o di raggiungere la loro maestria con i mestieri che mi sono familiari. Il loro talento supera di gran lunga quello dei migliori artigiani dell'Impero. Ma tu possiedi una qualità che non ha nessun altro, disse Saphira.
Quale?
La tua identità. La tua storia, le tue avventure, la tua situazione. Usale per dar vita alla tua creazione, e produrrai qualcosa di unico. Qualunque cosa tu faccia, fai che sia fondata su quanto hai di più caro. Soltanto così avrà spessore e significato, e soltanto allora risuonerà in sintonia con le altre opere.
Lui la guardò sorpreso. Non mi ero mai reso conto che ne sapessi tanto di arte.
Infatti, ribattè lei, ma dimentichi che un pomeriggio sono rimasta con Oromis a guardarlo dipingere le sue pergamene, mentre tu volavi con Glaedr. Oromis mi ha parlato a lungo dell'argomento.
Ah. Già. Dimenticavo.
Quando Saphira se ne andò per elaborare il suo progetto, Eragon cominciò a camminare su e giù davanti al portale della sua camera da letto, riflettendo su quanto aveva detto la dragonessa. Che cosa è importante per me? s'interrogò. Saphira e Arya, ovviamente, e il fatto di essere un buon Cavaliere, ma cosa posso dire su questi argomenti che non sia ovvio? Apprezzo la bellezza della natura, ma anche questa è materia che gli elfi hanno decantato in ogni modo possibile. Ellesméra stessa è un monumento alla loro devozione. Si guardò dentro, nel tentativo di comprendere che cosa toccasse le corde più intime e oscure del suo animo. Che cosa gli destava tanta passione - odio o amore - da spingerlo a condividere ciò che provava con gli altri? Tre cose gli vennero in mente: la ferita alla schiena inferta da Durza, la paura di dover combattere un giorno Galbatorix, e le vicende epiche degli elfi che tanto lo affascinavano. Eragon si sentì pervadere da una vampa di eccitazione mentre una storia che combinava tutti questi elementi prendeva forma nella sua mente. Con le ali ai piedi, salì a due a due i gradini che portavano allo studio, si sedette alla scrivania, intinse il calamo nell'inchiostro e lo posò, tremante, su un foglio di carta immacolato.
La punta grattò quando compose i primi versi:
Nel regno lambito dal mare, sui monti screziati di blu...
Le parole fluivano dalla sua penna come dotate di vita propria. Aveva la sensazione di non essere l'inventore della storia, ma un semplice portavoce che aveva il compito di divulgarla al mondo. Non avendo mai composto nulla, Eragon era pervaso dall'eccitazione della scoperta che accompagna le nuove imprese, specie perché non aveva mai sospettato che gli potesse piacere fare il bardo.
Lavorò a ritmo febbrile, senza fermarsi per mangiare o per bere, le maniche della tunica arrotolate fino ai gomiti per non sporcarle con gli schizzi d'inchiostro che volavano dal calamo nella furia della scrittura. Era così concentrato da non sentire altro che il ritmo del suo poema, non vedere altro che la carta bianca, non pensare ad altro che alle frasi impresse a fuoco nella sua mente.
Un'ora e mezzo più tardi, lasciò cadere la penna dalla mano anchilosata, spinse indietro la sedia e si alzò dalla scrivania. Davanti a lui c'erano quattordici pagine. Non aveva mai scritto tanto in una volta sola. Eragon sapeva che il suo poema non avrebbe mai potuto competere con i grandi autori degli elfi e dei nani, ma sperava che fosse abbastanza sincero da non suscitare ilarità fra gli elfi.
Recitò il suo poema a Saphira, quando tornò. La dragonessa disse: Ah, Eragon, quanto sei cambiato da quando abbiamo lasciato la Valle Palancar. Nemmeno tu riconosceresti il radazzino inesperto che partì in cerca di vendetta, credo. Quell'Eragon non avrebbe mai potuto scrivere una ballata nello stile degli elfi. Non vedo l'ora di scoprire cosa diventerai nei prossimi cinquanta o cento anni.
Lui sorrise. Se vivrò così a lungo.
«Rozzo, ma sincero» commentò Oromis, quando Eragon ebbe finito di leggergli il poema.
«Ti piace?»
«È un fedele ritratto del tuo attuale stato mentale e una lettura avvincente, ma non è un capolavoro. Ti aspettavi che lo fosse?»
«Suppongo di no.»
«Tuttavia sono sorpreso che tu abbia potuto leggerlo nella nostra lingua. Non esistono impedimenti a scrivere opere di fantasia nell'antica lingua, ma le difficoltà sorgono quando uno prova a recitarle, perché significa dar voce a delle bugie, cosa che la magia non consente.»
«Riesco a farlo» ribatte Eragon, «perché io credo che sia vero.»
«E questo conferisce alla tua opera maggior pregio... sono colpito, Eragon-finiarel. Il tuo poema sarà un degno contributo alla Celebrazione del Giuramento di Sangue.» Oromis s'infilò una mano nella veste e porse a Eragon una pergamena arrotolata e chiusa da un nastro. «Su questo rotolo sono scritti nove incantesimi di protezione che voglio che usi per te e per il nano Orik. Come hai scoperto a Silthrim, i nostri festeggiamenti sono potenti e pericolosi per chi è di costituzione più debole della nostra. L'ho visto accadere. Perfino con queste precauzioni dovrai stare attento a non farti sviare dalle bizzarrie che aleggeranno nell'aria. Stai in guardia, perché in questa occasione noi elfi siamo inclini alla follia... magnifica, gloriosa, ma pur sempre follia.»
La sera della vigilia dell'Agaeti Blòdhren - che sarebbe durata tre giorni - Eragon, Saphira e Orik accompagnarono Arya all'albero di Menoa, dov'era già radunata una moltitudine di elfi, dai capelli neri o argentei che splendevano alla luce della lanterne. Islanzadi dominava la folla da una radice rialzata ai piedi dell'albero, alta, pallida e altera come un tronco di betulla. Blagden se ne stava appollaiato sulla spalla sinistra della regina, mentre Maud, la gatta mannara, era accovacciata dietro di lei. C'erano anche Glaedr e Oromis, vestito di rosso e nero, e altri elfi che Eragon riconobbe, come Lifaen e Nari, e purtroppo anche Vanir. In alto, le stelle brillavano nel firmamento come diamanti su un drappo di velluto nero.
«Aspettate qui» disse Arya. Scivolò tra la folla e tornò in compagnia di Rhunòn. L'elfa scrutava l'ambiente con gli occhi sgranati di un gufo. Eragon la salutò, e lei ricambiò con un cenno del capo. «Piacere di rivedervi, Squamediluce e Ammazzaspettri» disse, rivolta a Saphira e a lui. Poi scorse Orik e gli parlò nella lingua dei nani, e Orik rispose con entusiasmo, palesemente compiaciuto di conversare con qualcuno nel ruvido linguaggio della sua terra natta. «Cosa ha detto?» chiese Eragon, chinandosi verso di lui.
«Mi ha invitato a casa sua a vedere i suoi lavori e a discutere di metallurgia.» Il volto di Orik esprimeva grande emozione. «Eragon, ma lo sai che ha imparato la sua arte da Fùthark in persona, uno dei leggendari grimstborithn del Dùrgrimst Ingietum? Che cosa non avrei dato per conoscerlo!»
Insieme aspettarono la mezzanotte, quando Islanzadi alzò il braccio sinistro nudo per indicare la luna nuova, come una lancia di marmo bianco. La luce emessa dalle lanterne che punteggiavano l'albero di Menoa si addensò in una sfera biancastra che andò a posarsi sul suo palmo. Poi Islanzadi avanzò lungo la radice fino al tronco massiccio e depose la sfera in una cavità della corteccia, dove rimase sospesa, pulsante.
Eragon si rivolse ad Arya sotto voce. «È cominciata?»
«È cominciata!» Arya rise. «E finirà quando il fuoco fatuo si spegnerà.»
Gli elfi si suddivisero in gruppi sparsi per tutta la foresta e la radura che circondavano l'albero di Menoa, e dal nulla trassero tavoli traboccanti di piatti invitanti, che dall'aspetto ultraterreno sembravano più opera di stregoni che di cuochi.
Poi cominciarono a cantare con le loro voci limpide e melodiose. Cantavano diverse canzoni, ma ciascuna faceva parte di una più vasta melodia che evocò una malia nella notte sognante, affinando i sensi, cancellando ritrosie e diffondendo una magia febbrile nei festeggiamenti. I versi parlavano di gesta eroiche e ricerche per nave o a cavallo in terre remote, e raccontavano il dolore per la bellezza perduta. La musica pulsante avvolse Eragon, che si sentì pervadere da un selvaggio abbandono, un desiderio di liberarsi dalla sua vita per danzare nei boschi degli elfi per sempre. Al suo fianco, Saphira mormorava la melodia a labbra chiuse, le palpebre calate sugli occhi lucenti. Che cosa accadde in seguito, Eragon non fu mai in grado di ricordarlo completamente. Era come se avesse la febbre e avesse perso i sensi. Ricordava certi episodi con vivida chiarezza - brillanti, acuti sprazzi di gioia - ma non riusciva a ricostruire l'ordine esatto in cui si erano verificati. Perse il conto dei giorni e delle notti, perché malgrado lo scorrere del tempo, la foresta sembrava immersa in una penombra eterna. Non sapeva nemmeno se aveva dormito, o aveva avuto bisogno di dormire, durante la celebrazione...
Ricordò di aver girato in tondo stringendo le mani di una fanciulla elfica dalle labbra color ciliegia, il sapore del miele sulla lingua e l'aroma del ginepro nell'aria...
Ricordò elfi appollaiati sui rami protesi dell'albero di Menoa, come tanti storni. Pizzicavano le corde di arpe d'oro e si divertivano a porre indovinelli a Glaedr, appollaiato di sotto, e di quando in quando puntavano un dito al cielo, dove un'esplosione di scintille ambrate compariva in varie forme prima di dissolversi...
Ricordò di essersi seduto in una Valletta, con la schiena appoggiata a Saphira, a osservare la stessa fanciulla elfica che ondeggiava davanti a un pubblico rapito, cantando:
Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai.
Lontano, lontano da me tu sarai, e mai più ti rivedrò! Lontano, lontano da me tu sarai, ma per sempre io ti aspetterò. Ricordò una serie infinita di poesie, alcune di argomento triste, altre gioiose, quasi tutte un misto di gioia e tristezza. Ascoltò tutta la poesia di Arya e pensò che era molto bella, e quella di Islanzadi, che era più lunga, ma ugualmente piacevole. Tutti gli elfi si radunarono per ascoltare le loro parole...
Ricordò le meraviglie che gli elfi avevano preparato per la celebrazione, molte delle quali non avrebbe mai pensato possibili, nemmeno con l'ausilio della magia. Indovinelli e giocattoli, opere d'arte e armi, e altri oggetti il cui senso gli sfuggiva. Un elfo aveva creato una sfera di vetro dentro la quale ogni due o tre secondi sbocciava un fiore diverso. Un altro elfo aveva trascorso decenni a viaggiare per la Du Weldenvarden per apprendere i suoni degli elementi, e ora suonava i più belli dalla gola di cento gigli bianchi.
Rhunòn contribuì con uno scudo che non si rompeva, un paio di guanti d'acciaio che consentivano di maneggiare il piombo fuso senza scottarsi e una delicata scultura che raffigurava uno scricciolo in volo ricavata da un solido blocco di metallo e dipinta con tale perizia che l'uccello sembrava vivo.
Una piramide di legno alta otto pollici e costruita con cinquantotto pezzi a incastro fu l'offerta di Orik che entusiasmò gli elfi; essi insistettero perché la smontasse e la rimontasse. «Mastro Barbalunga» lo chiamavano. «Dita ingegnose indicano una mente ingegnosa.»
Ricordò Oromis che lo prendeva in disparte, allontanandolo dalla musica, e di aver chiesto all'elfo: «Che cosa succede?»