Volodyk - Paolini2-Eldest
Nell'istante in cui furono a distanza ragionevole dalla spiaggia, Clovis ordinò di ritirare i pali a bordo e di mettere in mare i remi, con i quali i marinai diressero la prua della Cinghiale Rosso verso l'imboccatura dell'insenatura. Issarono la vela, la orientarono per cogliere il vento sull'immensa distesa di mare ondulato. leggero e, all'avanguardia del trio di chiatte, puntarono verso Teirm
Il principio della saggezza
Le giornate che Eragon passava a Ellesméra si susseguivano sempre uguali; lo scorrere del tempo sembrava non influire sulla città fra i pini. Le stagioni non invecchiavano, malgrado i pomeriggi e le serate fossero più lunghi e riempissero la foresta di ombre dense. Fiori tipici di ciascun mese sbocciavano sotto l'influsso della magia elfica, nutriti da incantesimi evocati nell'aria.
Eragon amava Ellesméra, per la sua bellezza e la sua quiete, i leggiadri edifici ricavati negli alberi, le canzoni struggenti che echeggiavano al crepuscolo, le opere d'arte nascoste nelle misteriose dimore, e la riservatezza degli elfi, che si alternava a scoppi di allegria.
Gli animali selvatici della Du Weldenvarden non temevano i cacciatori. Spesso dalla sua camera sospesa fra i rami Eragon osservava un elfo coccolare un cervo o una volpe argentata, o mormorare parole carezzevoli a un orso timido che arrancava ai margini di una radura, riluttante a farsi vedere. Alcuni animali non avevano forma riconoscibile; comparivano di notte, muovendosi furtivi nel sottobosco, e fuggivano se Eragon tentava di avvicinarli. Una volta scorse una creatura simile a un serpente dotato di pelliccia; in un'altra occasione, una donna vestita di bianco che palpitò e scomparve per lasciare il posto a una lupa ghignante.
Eragon e Saphira continuavano a esplorare Ellesméra ogni volta che potevano. Andavano da soli o insieme a Orik, poiché Arya non li accompagnava più, né Eragon aveva avuto modo di parlarle da quando lei aveva infranto il fairth. A volte intrawedeva la sua snella figura fra gli alberi, ma se cercava di avvicinarsi con l'intenzione di porgerle le sue scuse, lei si dileguava, lasciandolo solo fra i pini. Alla fine Eragon capì che doveva prendere l'iniziativa se voleva riuscire a fare pace con lei. Così una sera raccolse un mazzo di fiori che crescevano lungo il sentiero che portava al suo albero e si avviò al Palazzo di Tialdari, dove, nella sala comune, chiese a un elfo indicazioni per raggiungere gli appartamenti di Arya.
La porta scorrevole era aperta al suo arrivo, ma nessuno rispose quando bussò. Provò a entrare, con le orecchie tese a cogliere rumore di passi, mentre si guardava intorno nello spazioso salottino tappezzato di rampicanti. Da un lato si accedeva a una piccola camera da letto, dall'altro si passava in uno studio. Due fairth decoravano le pareti: il ritratto di un elfo fiero e severo dai capelli d'argento, che doveva essere re Evandar, e un altro volto di un giovane elfo che Eragon non riconobbe.
Vagò per l'appartamento, osservando tutto ma non toccando niente, assaporando quel barlume di vita di Arya, assorbendo quello che poteva dei suoi interessi e delle sue passioni. Accanto al letto notò una sfera di vetro con un bocciolo del convolvolo nero conservato all'interno; sulla sua scrivania, pile ordinate di rotoli di pergamena, con titoli come Osilon: rapporti sui raccolti e Attività segnalate dalla torre di guardia di Gil'ead; sul davanzale di un bovindo, tre alberi in miniatura crescevano nella forma di glifi dell'antica lingua, quelli che significano pace, forza e saggezza; e accanto agli alberi, un foglio di carta con una poesia incompleta, coperto da parole sbarrate con un tratto d'inchiostro e appunti scribacchiati. Recitava:
Sotto la luna, la luna splendente, C'è uno stagno, placido e sereno,
Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero.
Cade una pietra, una pietra vivente, E infrange il disco argenteo e sereno, Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero. Schegge di luce, lame di luce
Lo stagno increspano di onde diffuse,
Lo specchio d'acqua mite,
Il solitario laghetto.
Nella notte, la notte oscura e truce, Fluttuano le ombre, ombre confuse,
Dove un tempo...
Tornando nell'ingresso, Eragon lasciò i fiori su un tavolinetto e fece per andarsene. Restò impietrito nel vedere Arya sulla soglia. Lei parve sorpresa dalla sua presenza, ma nascose le sue emozioni sotto una maschera impassibile. Si fissarono in silenzio.
Lui prese il mazzo di fiori per offrirglielo. «Non so creare un bocciolo per te, come fece Fàolin, ma questi sono fiori sinceri, i più belli che sono riuscito a trovare.»
«Non posso accettarli, Eragon.»
«Non sono... non sono quel genere di regalo.» Fece una pausa. «Non ci sono scuse, ma non mi ero reso conto che il mio fairth ti avrebbe messa in una situazione tanto penosa. Per questo sono rammaricato e imploro il tuo perdono... Volevo soltanto creare un fairth, non provocare problemi. Io capisco l'importanza dei miei studi, Arya, e tu non devi temere che possa trascurarli per fantasticare su di te.»
Vacillò e si appoggiò alla parete, troppo stordito per reggersi sulle gambe. «Tutto qui.»
Lei lo guardò per lunghi momenti, poi lentamente prese il mazzolino e se lo portò al naso. I suoi occhi non lo abbandonarono mai. «Sono fiori sinceri» disse, scrutandolo da capo a piedi, per poi tornare a guardargli il volto. «Sei stato malato?»
«No. La schiena.»
«Ho saputo, ma non avrei mai pensato...»
Lui si scostò dalla parete. «Devo andare.»
«Aspetta.» Arya esitò, poi lo guidò verso il bovindo, dove lui si sedette sulla panca che correva lungo il bordo. Prese due tazze da una credenza, Arya vi sbriciolò alcune foglie essiccate di ortica, poi riempì le tazze d'acqua e dicendo «Bolli» riscaldò l'acqua per il té.
Porse una tazza a Eragon, che la prese fra le mani strette a coppa per assorbirne il calore. Guardò fuori dalla finestra verso il terreno venti piedi più sotto, dove gli elfi passeggiavano nei giardini reali, parlando e cantando, e le lucciole volteggiavano nel crepuscolo.
«Vorrei...» disse Eragon, «vorrei che fosse sempre così. È tutto così perfetto e sereno.»
Arya mescolò il suo té. «Come sta Saphira?»
«Bene. E tu?»
«Mi sto preparando per tornare dai Varden.»
Eragon trasalì, sconvolto. «Quando?»
«Dopo la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Sono rimasta anche troppo, ma mi dispiaceva partire, e Islanzadi voleva che restassi. Inoltre... non ho mai partecipato a una Celebrazione del Giuramento di Sangue, che è la nostra ricorrenza più importante.» Lo guardò da sopra il bordo della tazza. «Non c'è niente che Oromis possa fare per te?» Eragon si strinse nelle spalle. «Ha già tentato tutto quello che sa.»
Bevvero insieme il té, guardando i gruppi e le coppie che passeggiavano per i sentieri dei giardini. «I tuoi studi proseguono bene?» chiese lei.
«Sì.» Nel silenzio che seguì, Eragon prese il foglio di carta scribacchiato ed esaminò le strofe, come se le leggesse per la prima volta. «Scrivi spesso poesie?»
Arya tese la mano per prendere il foglio che lui le porse, e lo arrotolò perché le parole non fossero più visibili. «È nostra usanza che tutti coloro che partecipano alla Celebrazione del Giuramento di Sangue portino una poesia, una canzone, o qualche altra opera d'arte che hanno fatto per condividerla con l'assemblea. Ho appena cominciato a lavorare sulla mia.»
«Mi sembra buona.»
«Perché, hai letto molte poesie...?»
«Sì.»
Arya tacque, poi chinò il capo e mormorò: «Scusami. Non sei più la persona che ho conosciuto a Gil'ead.» «Io...» Eragon s'interruppe e si rigirò la tazza fra le mani, cercando le parole giuste. «Arya... tu partirai presto. Sarebbe un peccato se questa fosse l'ultima volta che ci vediamo prima di quel momento. Non potremmo incontrarci, di quando in quando, come facevamo prima? Potresti mostrare ancora altre meraviglie di Ellesméra a me e a Saphira.» «Non sarebbe prudente» disse lei con voce gentile ma risoluta.
Lui la guardò. «Il prezzo della mia indiscrezione deve quindi essere la nostra amicizia? Non posso negare quello che provo per te, ma preferirei subire un'altra ferita da Durza che permettere alla mia sventatezza di distruggere l'amicizia che c'era fra di noi. Per me è troppo importante.»
Arya bevve l'ultimo sorso di té, prima di rispondere. «La nostra amicizia continuerà, Eragon. Quanto a trascorrere del tempo insieme...» Le sue labbra si curvarono in un flebile sorriso. «Può darsi. Ma dobbiamo aspettare e vedere che cosa ci riserva il futuro, perché sono molto impegnata e non posso prometterti niente.»
Eragon sapeva che le sue parole erano quanto di più vicino a una riconciliazione lei fosse disposta a concedergli, e ne fu lieto. «Certo, Arya Svit-kona» disse, con un inchino del capo.
Si scambiarono altri convenevoli, ma era evidente che Arya si era già spinta fino al limite di quanto intendeva quel giorno, così Eragon tornò da Saphira con il cuore più leggero per quanto era riuscito a ottenere. Ora sarà il destino a decidere cosa accadrà, pensò, srotolando una delle ultime pergamene che gli aveva dato Oromis. Infilando una mano nella saccoccia che portava alla cintura, Eragon trasse un astuccio di steatite che conteneva nalgask, un unguento a base di cera d'api mescolata a olio di noci, e se lo spalmò sulle labbra per proteggerle dal vento gelido che gli tagliava la faccia. Chiuse la piccola borsa e abbracciò il collo di Saphira, affondando la faccia nell'incavo del gomito per ridurre il riverbero delle nubi ammassate sotto di loro. L'instancabile battito d'ali di Saphira gli rimbombava nelle orecchie, più sonoro e più rapido di quello di Glaedr, che stavano seguendo.
Volarono in direzione sudovest dall'alba fino al primo pomeriggio, facendo frequenti soste per avvincenti duelli di allenamento fra Saphira e Glaedr, durante i quali Eragon doveva legarsi le braccia alle cinghie della sella per impedirsi di cadere a seguito delle evoluzioni acrobatiche. Poi si liberava tirando i nodi con i denti.
Il viaggio terminò presso una piccola catena montuosa composta da quattro vette che torreggiavano sulla foresta, le prime montagne che Eragon vedeva nella Du Welden-varden. Incappucciate di neve e spazzate dai venti, bucavano la coltre di nubi ed esponevano le pendici ricche di crepacci al sole, che a quell'altitudine non aveva calore. Sembrano così piccole, in confronto ai Beor, commentò Saphira.
Com'era diventata sua abitudine durante le settimane di meditazione, Eragon dilatò la mente in ogni direzione, sfiorando le coscienze intorno a sé in cerca di qualsiasi cosa che potesse nuocergli. Percepì una marmotta che si riscaldava nella sua tana, corvi, picchi e falchi, numerosi scoiattoli che scorrazzavano fra gli alberi e, più in basso, serpenti che strisciavano furtivi nel sottobosco in cerca di topi, ma soprattutto orde di onnipresenti insetti.
Quando Glaedr si posò su una cresta brulla della prima montagna, Saphira fu costretta ad aspettare che ripiegasse le enormi ali prima di avere spazio a sufficienza per atterrare. La zona ghiaiosa su cui sostavano risplendeva gialla di licheni compatti e crenulati. Su di loro incombeva una nera rupe a strapiombo, che faceva da argine a una cornice di ghiaccio azzurro che scricchiolava e si crepava nel vento, perdendo frammenti taglienti che si frantumavano sul granito sottostante.
Questo picco si chiama Fionula, dissa Glaedr. £ i suoi fratelli sono Ethrundr, Merogoven e Griminsmal. Ciascuno ha la propria leggenda, che vi narrerò durante il volo di ritorno. Ma per il momento vi parlerò dello scopo di questa escursione, ossia la natura del legame forgiato fra i draghi e gli elfi e, in seguito, gli umani. Entrambi ne sapete già qualcosa, e ho accennato a Saphira tutte le sue implicazioni, ma è giunta l'ora di apprendere il solenne e profondo significato del vostro rapporto, perché possiate mantenerlo quando Oromis e io non ci saremo più. «Maestro?» chiese Eragon, stringendosi il mantello intorno al corpo per ripararsi dal freddo.
Sì, Eragon.
«Perché Oromis non è venuto?»
Perché, brontolò Glaedr, è compito mio, come è sempre stato il compito di un drago anziano nei secoli scorsi, garantire che la nuova generazione di Cavalieri comprenda la vera importanza del ruolo che ha assunto. E perché Oromis non sta bene come sembra.
La ghiaia emise un crepitio smorzato quando Glaedr si accovacciò allungando la testa maestosa fra Eragon e Saphira. Li scrutò con un occhio dorato, grande e lucido come uno scudo rotondo, e due volte più splendente. Dalle sue narici si levò un grigio filo di fumo che il vento disperse. Parte di quanto sto per rivelarvi era di dominio pubblico fra gli elfi, i Cavalieri e gli umani eruditi, ma in prevalenza era noto soltanto al capo dei Cavalieri, a un pugno di elfi, al sovrano degli umani, e ovviamente ai draghi.
Ora ascoltate, miei allievi. Quando alla fine della nostra guerra fu fatta pace tra gli elfi e i draghi, furono creati i Cavalieri per garantire che un simile conflitto non avesse mai più a ripetersi fra le nostre razze. La regina Tarmunora degli elfi e il drago che era stato scelto a rappresentarci, il cui nome... Fece una pausa e trasmise una serie di immagini a Eragon: zanna lunga, zanna bianca, zanna scheggiata; battaglie vinte, battaglie perse; innumerevoli Shrrg e Nagra divorati; ventisette uova deposte e diciannove esemplari cresciuti fino a maturazione... non si può esprimere in nessuna lingua, decisero che un normale trattato non sarebbe stato sufficiente. Una carta firmata non significa niente per un drago. Il nostro sangue scorre denso e bollente e, trascorso abbastanza tempo, era inevitabile che ci saremmo di nuovo scontrati con gli elfi, come era successo con i nani nel corso dei millenni. Ma diversamente che con questi ultimi, né noi né gli elfi potevamo permetterci un'altra guerra. Eravamo entrambi troppo potenti, e ci saremmo distrutti a vicenda. L'unico modo per impedirlo e forgiare un accordo duraturo era legare le nostre due razze con la magia. Eragon rabbrividì e con una punta di divertimento Glaedr disse: Saphira, se fossi in te riscalderei una di quelle pietre con il fuoco del tuo ventre, perché il tuo Cavaliere non muoia assiderato.
Saphira inarcò il collo ed eruttò sul ghiaione una vampa azzurra dalle fauci socchiuse, bruciando il lichene che sprigionò un odore amarognolo. L'aria diventò così calda da costringere Eragon a voltarsi. Percepì gli insetti sotto le pietre che si contorcevano nell'inferno. Dopo un minuto, Saphira chiuse la bocca, lasciando un cerchio largo dieci palmi di ciottoli che rosseggiavano ardenti.
Grazie, disse Eragon, accovacciandosi accanto alle pietre incandescenti per riscaldarsi.
Ricorda, Saphira, di usare la lingua per dirigere la fiammata, l'ammonì Glaedr. Ora... i più grandi stregoni degli elfi impiegarono nove anni per elaborare l'incantesimo necessario. Quando alla fine ci riuscirono, gli elfi e i draghi si radunarono a Ilirea. Gli elfi fornirono la struttura dell'incantesimo, mentre i draghi ci misero la forza, e insieme fusero le anime degli elfi e dei draghi.