Volodyk - Paolini2-Eldest
Sono passate tante settimane dall'ultima crisi, disse, e cominciavo a sperare, soltanto sperare, di essere guarito... Immagino che solo per un puro caso io sia stato risparmiato così a lungo.
Allungando il collo, Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Sai di non essere solo, piccolo mio. Farò qualsiasi cosa per aiutarti. Lui rispose con un flebile sorriso. Lei gli leccò la faccia e aggiunse: Dovresti prepararti per uscire. Lo so. Eragon guardò il pavimento, senza alcuna voglia di alzarsi, poi si trascinò nel camerino da bagno, dove si lavò e usò la magia per radersi.
Si stava asciugando, quando sentì una presenza toccargli la mente. Senza soffermarsi a riflettere, Eragon cominciò a innalzare barriere mentali, concentrandosi sull'immagine del suo alluce con l'esclusione di tutto il resto. Poi sentì Oromis che diceva: Ammirevole, ma inutile. Porta con te Zar'roc, oggi. La presenza svanì.
Eragon si rilassò con un sospiro tremante. Devo stare più attento, disse a Saphira. Se fosse stato un nemico, sarei stato alla sua mercé.
Non con me nei dintorni.
Quando ebbe finito le sue abluzioni, Eragon sganciò la membrana dalla parete e montò su Saphira, tenendo Zar'roc stretta nell'incavo del gomito.
Saphira spiccò il volo e puntò subito verso la rupe di Tel'naeir. Dall'alto videro i danni che la tempesta aveva provocato nella Du Weldenvarden. A Ellesméra non era caduto alcun albero, ma in lontananza, dove la magia degli elfi era più debole, numerosi pini erano stati abbattuti. Il vento residuo faceva cozzare i rami e i tronchi, producendo un sonoro coro di gemiti e scricchiolii. Nuvole di polline dorato, denso come polvere, scorrevano dagli alberi e dai fiori. Mentre volavano, Eragon e Saphira si scambiarono ricordi delle lezioni separate del giorno prima. Lui le raccontò quello che aveva imparato sulle formiche e sull'antica lingua, e lei gli parlò delle correnti discendenti e degli altri fenomeni meteorologici pericolosi, e di come evitarli.
Così, quando atterrarono e Oromis interrogò Eragon sulle lezioni di Saphira, e Glaedr interrogò Saphira su quelle di Eragon, riuscirono entrambi a rispondere correttamente a ogni domanda.
«Molto bene, Eragon-vodhr.»
Già. Benfatto, Bjartskular, disse Glaedr a Saphira.
Ancora una volta, Saphira volò via insieme a Glaedr, mentre Eragon rimase sulla rupe, anche se questa volta lui e Saphira badarono a mantenere il contatto per assorbire le lezioni dell'altro.
Quando i draghi si allontanarono, Oromis osservò: «Oggi hai la voce roca, Eragon. Sei ammalato?» «La schiena mi ha fatto di nuovo male, stamattina.»
«Ah. Hai tutta la mia compassione.» Gli fece un cenno con l'indice. «Aspetta qui.»
Eragon guardò Oromis entrare nel capanno e tornare con aria fiera e guerresca, la capigliatura d'argento che fluttuava nel vento, e la spada color bronzo in mano. «Oggi» disse «metteremo da parte la Rimgar e incroceremo le nostre due lame, Naegling e Zar'roc. Sfodera la tua spada e smussa la lama come ti ha insegnato il tuo primo maestro.» Eragon avrebbe voluto rifiutarsi, ma non aveva alcuna intenzione di infrangere la promessa o di mostrarsi timoroso davanti a Oromis. Inghiottì la sua trepidazione. Questo significa essere un Cavaliere, pensò.
Attingendo alle sue riserve, localizzò nel profondo della mente il nucleo che lo collegava al selvaggio flusso della magia. Vi entrò, e l'energia lo soffuse. «Géuloth du knìfr» disse, e una tremolante stella azzurra gli guizzò fra il pollice e l'indice, saltando dall'uno all'altro mentre lui li faceva scorrere lungo il filo pericoloso di Zar'roc.
Nell'istante in cui le due spade s'incrociarono, Eragon capì di essere inferiore a Oromis, come lo era stato rispetto a Durza e ad Arya. Era uno spadaccino umano straordinario, ma non poteva competere con guerrieri dal sangue denso di magia. Il suo braccio era troppo debole, i suoi riflessi troppo lenti. Eppure questo non gli impedì di provare a vincere. Si battè ai limiti delle sue possibilità, anche se alla fine si rivelò un futile tentativo.
Oromis lo mise alla prova in ogni modo possibile, costringendolo a utilizzare il suo intero arsenale di colpi, reazioni e finte. Tutto inutile. Non riuscì mai nemmeno a toccare l'elfo. Come ultima risorsa, cercò di variare il suo stile di combattimento, perché questo poteva disorientare anche il più incallito dei veterani. Non ottenne altro che una violenta botta su una coscia.
«Muovi i piedi più in fretta» gridò Oromis. «Chi resta fermo come un pilastro, muore in battaglia. Chi si piega come una canna, trionfa!»
L'elfo in azione era uno spettacolo, una perfetta miscela di controllo e violenza. Saltava come un gatto, colpiva come un airone e si destreggiava per schivare gli attacchi con la grazia di un furetto.
Si stavano allenando da una ventina di minuti quando Oromis esitò, i lineamenti affilati contratti in una smorfia fugace. Eragon riconobbe i sintomi della misteriosa malattia di Oromis e roteò Zar'roc per colpire. Sapeva che era una cosa meschina, ma si sentiva così frustrato da voler approfittare di quell'occasione, per quanto scorretta, solo per avere la soddisfazione di toccare Oromis almeno una volta.
Zar'roc non raggiunse mai il suo bersaglio. Nel voltarsi, Eragon si stirò la schiena.
Il dolore lo aggredì senza preavviso. L'ultima cosa che sentì fu Saphira che gridava: Eragon!
Nonostante l'intensità del dolore, Eragon rimase cosciente durante tutta la crisi. Non era consapevole di quanto aveva intorno, ma soltanto del fuoco che gli bruciava le carni e prolungava ogni secondo in un'eternità. La cosa peggiore era che non poteva far niente per porre fine a quello strazio, se non aspettare...
... e aspettare...
Eragon giaceva ansante nel fango. Battè le palpebre per rimettere a fuoco la vista e vide Oromis seduto su uno sgabello accanto a lui. Alzandosi su un ginocchio, si guardò la tunica nuova con un misto di rammarico e disgusto: la raffinata stoffa color ruggine era incrostata di sudiciume per le sue convulsioni sul terreno. Aveva perfino i capelli insozzati.
Percepì Saphira nella sua mente, che irradiava angoscia nell'attesa che lui la notasse. Come puoi continuare così? gli disse. Ti distruggerà.
La sua apprensione minò gli ultimi residui di fermezza di Eragon. Saphira non aveva mai dubitato del suo successo, non a Dras-Leona, non a Gil'ead o nel Farthen Dùr, né davanti ad alcun pericolo che avevano incontrato. La sua fiducia gli aveva infuso coraggio. Senza di essa, Eragon ebbe davvero paura.
Dovresti concentrati sulla tua lezione, le disse.
Devo concentrarmi su di te.
Lasciami in pace! Il suo tono brusco era quello di un animale ferito che desidera leccarsi le ferite nel silenzio e nel buio. Lei tacque, mantenendo un labile contatto mentale sufficiente perché lui potesse vagamente sentire Glaedr che le parlava dell'epilobio, una pianta utile da masticare per facilitare la digestione.
Eragon si tolse frammenti di fango secco dai capelli, poi sputò un grumo di sangue. «Mi sono morso la lingua.» Oromis annuì come se già lo sapesse. «Hai bisogno di guarirti?»
«No.»
«Molto bene. Recupera la spada, poi lavati e vai al ceppo nella conca, per ascoltare i pensieri della foresta. Ascolta, e quando non sentirai più niente, torna da me a raccontarmi cosa hai imparato.»
«Sì, maestro.»
Seduto sul ceppo, Eragon scoprì che il groviglio turbolento di pensieri ed emozioni gli impediva di concentrarsi abbastanza da aprire la mente e percepire le creature della conca. Né aveva voglia di farlo.
Tuttavia, la pace che regnava intorno a lui a poco a poco placò il suo risentimento, la sua confusione e la testarda rabbia. Non lo rendeva felice, ma gli donava una sorta di accettazione fatalista. Questo è quanto mi è toccato nella vita, e farò meglio ad abituarmici perché non andrà migliorando nel prevedibile futuro.
Dopo un quarto d'ora, le sue facoltà riacquistarono la loro consueta acutezza, così ricominciò a studiare la colonia di formiche rosse che aveva scoperto il giorno prima. Cercò anche di percepire tutto il resto che viveva nella conca, come Oromis gli aveva detto.
Eragon riscontrò un limitato successo. Se si rilassava per assorbire informazioni da tutte le coscienze attorno a sé, migliaia di immagini e sensazioni gli scorrevano nella testa, accumulandosi in fulminei sprazzi di suoni e colori, contatti e odori, piaceri e dolori. La quantità di informazioni era impressionante. Per abitudine, la sua mente balzava da un soggetto all'altro del flusso, escludendo tutto il resto prima che lui si rendesse conto di averlo fatto, e allora si concentrava per tornare in uno stato di passiva ricettività. Il ciclo si ripeteva ogni qualche secondo. Eppure fu in grado di approfondire la sua comprensione del mondo delle formiche. Scoprì il primo indizio sulla loro specie quando dedusse che l'enorme formica al centro della loro tana stava deponendo le uova, uno ogni minuto, il che significava che era una femmina. E quando accompagnò un gruppo di formiche rosse su per lo stelo di una rosa, ebbe una vivida dimostrazione del tipo di nemici che dovevano affrontare: qualcosa sbucò da sotto una foglia e uccise una delle formiche che stava seguendo. Non riuscì a determinare che tipo di creatura fosse, poiché le formiche ne vedevano soltanto frammenti, e si affidavano più all'olfatto che non alla vista. Se fossero state persone, avrebbe detto che erano aggredite da un mostro terrificante delle dimensioni di un drago, con mascelle potenti quanto le saracinesche acuminate di Teirm, in grado di muoversi alla velocità del lampo.
Le formiche circondarono il mostro come garzoni di stalla che cercano di catturare un cavallo imbizzarrito. Gli saltavano addosso senza paura, mordendogli le zampe articolate e facendosi indietro un istante prima di essere colpite dalle ganasce di ferro del mostro. Sempre più formiche si aggiungevano alla battaglia. Lavoravano insieme per sconfiggere l'intruso, senza mai esitare, anche quando due furono catturate e uccise, e quando parecchie sorelle caddero dallo stelo sul terreno.
Era una battaglia disperata; nessuna delle due parti aveva intenzione di cedere. Soltanto la fuga o la vittoria avrebbe impedito ai combattenti di salvarsi da una morte orribile. Eragon seguiva la scena col fiato sospeso, ammirato dal coraggio delle formiche che continuavano a combattere nonostante le ferite che avrebbero fermato un umano. Era così assorbito dalla battaglia che quando alla fine le formiche prevalsero, si lasciò sfuggire un grido di sollievo così forte da spaventare gli uccelli sui rami.
Incuriosito, tornò nel suo corpo e si avvicinò al cespuglio di rose per osservare il mostro con i suoi occhi. Quello che vide fu un normalissimo ragno marrone, con le zampe rannicchiate, trasportato dalle formiche nella loro tana come cibo. Stupefacente.
Fece per andarsene quando si rese conto di aver trascurato ancora una volta di osservare la miriade di altri insetti e ammali della conca. Chiuse gli occhi e vagò nella mente di decine e decine di altre creature, facendo del suo meglio per trattenere quanti più dettagli possibile. Era un magro surrogato della prolungata osservazione, ma aveva fame e aveva già esaurito l'ora a disposizione.
Quando tornò da Oromis nel capanno, l'elfo gli chiese: «Com'è andata?»
«Maestro, potrei ascoltare giorno e notte per i prossimi vent'anni e tuttavia non conoscere ancora tutto quello che accade nella foresta.»
Oromis inarcò un sopracciglio. «Hai fatto progressi.» Dopo che Eragon gli ebbe descritto cosa aveva visto, Oromis disse: «Non è abbastanza, temo. Devi impegnarti di più, Eragon. So che puoi farcela. Sei intelligente e tenace, e hai il potenziale per essere un grande Cavaliere. Per quanto sia difficile, devi imparare a mettere da parte i tuoi crucci e concentrarti soltanto sul compito assegnato. Trova la pace dentro di te e lascia che le tue azioni scaturiscano da lì.» «Faccio del mio meglio.»
«No, questo non è il tuo meglio. Riconosceremo il tuo meglio quando verrà.» Fece una pausa meditabonda. «Forse ti sarebbe utile avere un compagno di studi con cui competere. Forse allora vedremmo il tuo meglio... Ci penserò.» Dalla credenza, Oromis prese una pagnotta di pane fresco, un barattolo di legno colmo di burro di nocciole - che gli elfi usavano al posto del vero burro - e un paio di scodelle che riempì di minestrone di verdure che sobbolliva in una pentola appesa su un letto di carbone nel caminetto ad angolo.
Eragon guardò il minestrone con disgusto: era stufo del cibo elfico. Aveva voglia di carne, pesce, pollame, qualcosa di solido in cui affondare i denti. «Maestro» chiese per distrarsi, «perché devo meditare? Solo per comprendere la vita degli animali o degli insetti, o c'è dell'altro?»
«Non ti viene in mente nessun altro motivo?» Oromis sospirò quando Eragon scosse il capo. «Sempre così, i miei nuovi allievi, specie quelli umani. La mente è l'ultimo muscolo che allenano o usano, e quello che tengono in rninor considerazione. Fa' loro una domanda sull'arte della scherma, e ti sapranno elencare ogni singola mossa di un duello vecchio di un mese, ma chiedi di risolvere un problema o di fare un'affermazione coerente e... be', sei fortunato se ottieni più di uno sguardo smarrito in risposta. Sei ancora nuovo al mondo della negromanzia, la magia propriamente detta, ma devi cominciare a considerarne tutte le implicazioni.»
«Ossia?»
«Immagina per un momento di essere Galbatorix, con tutte le sue vaste risorse a tua disposizione. I Varden hanno distrutto il tuo esercito di Urgali con l'aiuto di un Cavaliere dei Draghi rivàle, che tu sai di essere stato istruito, almeno in parte, da uno dei tuoi più pericolosi e implacabili nemici, Brom. Sai anche che i tuoi avversari si stanno ammassando nel Surda per una possibile invasione. Con queste premesse, qual è la maniera più semplice di affrontare tutte queste minacce, a meno di non volare tu stesso in battaglia?»
Eragon rimestò il minestrone per raffreddarlo, mentre rifletteva sulla domanda. «Secondo me» disse lentamente «la cosa più semplice da fare sarebbe addestrare un gruppo di stregoni... non è necessario che siano nemmeno tanto potenti... e costringerli a giurarmi fedeltà nell'antica lingua, per poi infiltrarli nel Surda allo scopo di sabotare gli sforzi dei Varden, avvelenare i pozzi, e assassinare Nasuada, re Orrin e gli altri membri importanti della resistenza.» «E perché Galbatorix non l'ha ancora fatto?»
«Perché finora il Surda non gli ha dato grossi problemi, e perché i Varden sono rimasti nascosti nel Farthen Dùr per decenni, dove erano in grado di esaminare la mente di ogni nuovo arrivato in cerca di mistificatori, cosa che non possono fare nel Surda, poiché i suoi confini e la sua popolazione sono troppo vasti.»
«Sei arrivato alle mie stesse conclusioni» disse Oromis. «A meno che Galbatorix non lasci il suo covo a Urù'baen, il maggiore pericolo che ti troverai ad affrontare durante la campagna dei Varden verrà da altri stregoni. Sai bene quanto me come sia difficile guardarsi dalla magia, specie se il tuo avversario ha giurato nell'antica lingua di ucciderti, a qualunque costo. Invece di tentare di conquistare la tua mente, un nemico del genere si limiterà a evocare un incantesimo per distruggerti, anche se un momento prima di morire sarai ancora in grado di contrattaccare. Tuttavia non puoi abbattere un nemico simile se non sai chi o dove è.»