Volodyk - Paolini2-Eldest
Una tenda di rete nera ostruiva il cammino. Scostandola, si ritrovò in quello che un tempo doveva essere un salottino. I mobili erano stati tolti, a parte una fila di sedie addossate alle pareti rivestite. Un grappolo di lanterne rosse era appeso in una piega del tessuto increspato, proiettando strane ombre multicolori in ogni direzione.
Una vecchia dalla schiena curva la osservava dai recessi di un angolo, affiancata da Angela l'erborista e dal gatto mannaro, che aveva i peli del collo ritti. Al centro della stanza era inginocchiata una bambina pallida che Nasuada calcolò dovesse avere tre o quattro anni. La bambina piluccava da un piatto di cibo che teneva in grembo. Nessuno parlava.
Confusa, Nasuada domandò: «Dov'è la neonata?»
La bambina alzò lo sguardo.
Nasuada trasalì nel vedere il marchio del drago splendere sulla fronte della bambina, che la scrutava con profondi occhi viola. La bimba le rivolse un terribile, saggio sorriso. «Io sono Elva.»
Nasuada indietreggiò d'istinto, stringendo l'elsa del pugnale che teneva legato all'avambraccio sinistro. Era una voce da adulta, ed emanava l'esperienza e il cinismo di un'adulta. Suonava profana emessa dalla bocca di una bambina. «Non temere» disse Elva. «Sono tua amica.» Mise da parte il piatto; adesso era vuoto. Si rivolse alla vecchia: «Ancora.» La vecchia si affrettò a uscire dalla stanza. Elva batte il palmo sul pavimento accanto a sé. «Prego, siediti. Ti aspettavo da quando ho imparato a parlare.»
Continuando a stringere il pugnale, Nasuada si accomodò sul pavimento di pietra. «Quando è stato?» «La settimana scorsa.» Elva s'intrecciò le dita in grembo. Fissava Nasuada con i suoi occhi spettrali, inchiodandola con la forza innaturale del suo sguardo. Nasuada aveva la sensazione che una lancia violetta le avesse trafitto il cranio per rimestare nella sua mente, fra pensieri e ricordi. Si sforzò di non mettersi a urlare.
Elva si protese verso di lei e le posò una mano delicata su una guancia. «Sai, Ajihad non avrebbe saputo guidare i Varden meglio di te. Hai scelto la via giusta. Il tuo nome sarà ricordato nei secoli per aver avuto il coraggio e la saggezza di spostare i Varden nel Surda, e di attaccare l'Impero quando tutti gli altri pensavano che fosse una pazzia.» Nasuada rimase a bocca aperta, sbalordita. Come una chiave giusta per la sua serratura, le parole di Elva aderivano perfettamente alle sue primordiali paure, ai dubbi che la tenevano sveglia di notte, a sudare freddo nel buio. Si sentì pervadere da un'intensa emozione, un senso di fiducia e di pace che non aveva mai più provato dalla morte di Ajihad. Lacrime di sollievo le sgorgarono dagli occhi, rotolando giù per le guance. Era come se Elva avesse saputo esattamente che cosa dire per confortarla.
Nasuada la odiò per questo.
La sua euforia lottava contro la repulsione per quel momento di debolezza, per come era stato indotto e da chi. Né si fidava delle ragioni della bambina.
«Cosa sei?» le disse.
«Sono ciò che Eragon mi ha fatto.»
«Ti ha benedetta.»
I terribili occhi saggi si oscurarono per un momento. «Lui non ha capìto le sue azioni. Da quando Eragon mi ha stregata, ogni volta che vedo una persona avverto tutte le sofferenze che l'affliggono o che l'affliggeranno. Quando ero più piccola non potevo farci niente. Perciò sono cresciuta.»
«Perché avresti...»
«La magia che scorre nel mio sangue mi costringe a proteggere le persone dal dolore... indipendentemente dal male che infliggo a me stessa, o dal fatto che voglia aiutarle o meno.» Il suo sorriso prese una piega amara. «Mi costa caro resistere a quest'impulso.»
Mentre Nasuada rifletteva sulle implicazioni, si rese conto che l'inquietante aspetto sofferenze a cui era stata esposta. Nasuada rabbrividì al pensiero di quello che Dev'essere stato terribile provare questo impulso e non essere capace di controllarlo. Ancora una volta, malgrado la propria diffidenza, cominciò a provare una certa compassione per Elva.
«Perché mi dici questo?»
«Pensavo che avresti dovuto sapere chi sono e cosa sono.» Elva fece una pausa, e il fuoco del suo sguardo divampò come un incendio. «E che combatterò per te a ogni costo. Usami come faresti con un sicario... nel buio, in incognito, senza pietà.» Rise con voce acuta e agghiacciante. «Ti domandi perché; lo vedo. Perché se questa guerra non finirà, prima o poi - piuttosto prima che poi - diventerò pazza. Già mi è difficile avere a che fare con le sofferenze della vita di tutti i giorni, senza dovermi anche confrontare con le atrocità di una battaglia. Usami per porre fine a questa guerra, e io ti garantisco che la tua vita sarà lunga e felice quanto un umano ha avuto il privilegio di sperimentare.» In quel momento tornò la vecchia, trafelata. S'inchinò davanti a Elva e le porse un nuovo vassoio di cibo. Fu un sollievo fisico per Nasuada quando Elva distolse lo sguardo per addentare un cosciotto di montone, spingendosi la carne in bocca con le mani. Mangiava con la voracità di un lupo affamato, senza un briciolo di decoro. Con gli occhi violetti nascosti, e la frangetta scura che le copriva il marchio del drago, parve di nuovo una qualunque bimbetta innocente.
di Elva era un prodotto delle
la bambina aveva sopportato. Nasuada aspettò finché non comprese che Elva aveva detto tutto quanto aveva in mente. Poi, richiamata da un cenno di Angela, accompagnò l'erborista attraverso una porta laterale, lasciando la bimba pallida al centro della stanza oscurata dai tendaggi, come un piccolo feto annidato nell'utero, che aspetta il momento di emergere. Angela si assicurò di aver chiuso bene la porta, poi disse: «Non fa altro che mangiare e mangiare. Non riusciamo a saziare il suo appetito con le razioni concesse. Puoi...» «Sarà nutrita. Non devi preoccuparti di questo.» Nasuada si massaggiò le braccia, cercando di sradicare il ricordo di quei terribili occhi...
«Grazie.»
«È mai successo a qualcun altro?»
Angela fece di no con il capo; i riccioli neri le rimbalzarono sulle spalle. «Mai, nell'intera storia della magia. Ho cercato di vedere il suo futuro, ma è un guazzabuglio insondabile - bella parola, guazzabuglio - perché la sua vita s'intreccia con moltissime altre.»
«È pericolosa?»
«Siamo tutti pericolosi.»
«Sai che cosa voglio dire.»
Angela fece spallucce. «È più pericolosa di alcuni, e meno di altri. Ma la persona che è più probabile che uccida è se stessa. Se incontrasse qualcuno che sta per morire e l'incantesimo di Eragon la cogliesse impreparata, prenderebbe il posto della persona predestinata. Ecco perché resta chiusa qui tutto il tempo.»
«Con che ampiezza riesce a prevedere gli eventi?»
«Due o tre ore al massimo.»
Appoggiandosi al muro, Nasuada riflettè su questa nuova complicazione nella sua vita. Elva poteva rivelarsi un'arma potente, se guidata nella maniera corretta. Attraverso di lei potrei scoprire i crucci e le debolezze dei miei avversari, come anche i loro desideri, e piegarli ai miei voléri. In caso di emergenza, la bambina avrebbe potuto anche agire come infallibile guardia del corpo, se uno dei Varden, come Eragon o Saphira, avesse avuto bisogno di protezione. Non la si può lasciare senza controllo. Ho bisogno di qualcuno che la sorvegli. Qualcuno che capisca la magia e abbia abbastanza fiducia nella propria identità da resistere all'influenza di Elva... e di cui io mi possa fidare. Subito scartò Trianna. Poi guardò Angela. Anche se diffidava dell'erborista, sapeva che Angela aveva aiutato i Varden in questioni della più delicata importanza - come la guarigione di Eragon - e non aveva chiesto nulla in cambio. Nasuada non riusciva a pensare a nessun altro che avesse il tempo, la disposizione e l'esperienza per badare a Elva. «Mi rendo conto» disse Nasuada «che è presuntuoso da parte mia, poiché non sei sotto il mio comando e so poco della tua vita e dei tuoi impegni, ma ho un favore da chiederti.»
Angela fece un cenno con la mano. «Va' avanti.»
Nasuada esitò, sconcertata, poi proseguì. «Vorresti tenere d'occhio Elva per me? Ho bisogno...» «Ma certo! Terrò tutti e due gli occhi su di lei, se potrò. Mi attira l'idea di studiarla.»
«Dovrai riferirmi tutto» l'ammonì Nasuada.
«Già, la ciliegina avvelenata sulla torta di panna montata. Oh, be', d'accordo, immagino di poterlo fare.» «Ho la tua parola, dunque?»
«Hai la mia parola.»
Sollevata, Nasuada gemette e si accasciò su una sedia lì accanto. «Oh, che disastro. Che guazzabuglio. Come signora di Eragon, sono responsabile dei suoi atti, ma non avrei mai pensato che avrebbe fatto una cosa terribile come questa. È una macchia sul mio onore, oltre che sul suo.»
Una sequela di lievi scoppiettii risuonò nella stanza, quando Angela si fece schioccare le nocche. «Già. Intendo parlargli quando tornerà da Ellesméra.»
La sua espressione era così feroce che Nasuada si allarmò. «Non avrai intenzione di fargli del male, spero. Abbiamo bisogno di lui.»
«Non gliene farò... nulla di permanente.»
Ritorno di fiamma
Una violenta raffica di vento strappò Eragon dal sonno.
Le coperte gli svolazzavano intorno, mentre una tempesta infuriava nella sua stanza, scagliando gli oggetti per aria e facendo cozzare le lanterne contro le pareti. Fuori, il cielo era fosco di nubi.
Saphira guardò Eragon alzarsi a fatica, barcollando per mantenere l'equilibrio sull'albero che oscillava come una nave in balia delle onde. Abbassò la testa contro la furia del vento e camminò a tentoni lungo la parete fino a trovare l'apertura a forma di goccia da cui entrava il fortunale.
Eragon fece capolino per guardare il terreno sottostante; l'impressione era che ondeggiasse da un lato e dall'altro. Deglutì e cercò di ignorare la nausea.
Sempre a tentoni, trovò il bordo della membrana di tessuto che si poteva srotolare dal muro per coprire l'apertura. Si preparò a lanciarsi dall'altro lato, sapendo che se fosse scivolato, niente gli avrebbe impedito di schiantarsi ai piedi dell'albero.
Aspetta, disse Saphira.
Si spostò dalla pedana su cui dormiva e distese la coda accanto a lui perché potesse usarla come corrimano. Tenendo la stoffa soltanto con la mano destra, Eragon usò le punte cornee della coda di Saphira per spostarsi dall'altro lato del portale. Non appena lo raggiunse, afferrò la stoffa con tutte e due le mani e ne spinse il bordò nella scanalatura che la bloccava.
Nella stanza scese il silenzio.
La membrana si gonfiava verso l'interno sotto la furia degli elementi, ma non dava cenni di cedimento. Eragon premette un dito contro la stoffa: era tesa come la pelle di un tamburo.
È sorprendente ciò che gli elfi riescono a fare, disse.
Saphira tese il collo, poi sollevò la testa fino ad appiattirla contro il soffitto, in ascolto. Faresti meglio a chiudere anche lo studio; il vento sta mandando tutto a soqquadro.
Mentre Eragon saliva le scale, l'albero sussultò, e lui barcollò urtando un ginocchio.
«Maledizione» ringhiò.
Lo studio era un tornado di fogli e penne, che volavano da tutte le parti come dotati di volontà propria. Eragon si tuffò nel caos con le braccia intorno alla testa e la sensazione di trovarsi sotto una sassaiola quando le punte delle penne lo colpivano.
Lottò con tutte le sue forze per chiudere il portale superiore senza l'aiuto di Saphira. Nel momento in cui ci riuscì, il dolore - uno smisurato, devastante dolore - gli spezzò la schiena.
Lanciò un grido straziato che gli bruciò la gola. La vista gli si annebbiò di macchie rosse e gialle, poi sfumò nel nero più assoluto, mentre cadeva di fianco. Sentì Saphira di sotto che ululava di frustrazione; la scala era troppo piccola e, fuori il vento era troppo violento perché lei tentasse di raggiungerlo. Il suo legame con lei si assottigliò. Eragon si arrese alle tenebre come una liberazione dalla sua agonia.
Si ridestò con un sapore amaro in bocca. Non sapeva quanto tempo era rimasto raggomitolato sul pavimento, ma i muscoli delle braccia e delle gambe gli dolevano per essere stati troppo a lungo contratti. La tempesta squassava ancora l'albero, accompagnata da una pioggia battente che andava di pari passo con il martellare che gli pulsava nella testa.
Saphira...?
Sono qui. Vieni giù?
Ci provo.
Si sentiva troppo debole per alzarsi sul pavimento ondeggiante, così strisciò fino alle scale e si lasciò scivolare un gradino alla volta, fremendo a ogni contraccolpo. A metà strada, incontrò Saphira, che aveva infilato la testa e il collo nella tromba delle scale, scheggiando il legno nella fretta.
Piccolo mio. La dragonessa fece guizzare la lingua e gli sfiorò la mano con la punta ruvida. Lui sorrise. Allora lei inarcò il collo per ritrarsi, ma non ci riuscì.
Che succede?
Sono incastrata.
Sei... Eragon non riuscì a trattenersi; scoppiò a ridere anche se gli faceva male. La situazione era troppo assurda. Lei ringhiò e inarcò tutto il corpo, scuotendo l'albero con i suoi sforzi e mandando Eragon a gambe all'aria. Alla fine crollò sfinita. Be', non startene seduto lì a sogghignare come una volpe idiota. Aiutami!
Combattendo contro l'impulso di ridacchiare, Eragon le mise un piede sul naso e cominciò a spingere il più forte possibile, mentre Saphira si torceva e si dimenava nel tentativo di liberarsi.
Ci vollero dieci minuti buoni perché il tentativo riuscisse. Soltanto allora Eragon si accorse dell'entità del danno alle scale. Si lasciò sfuggire un gemito. Le squame della dragonessa avevano inciso profondamente la corteccia e cancellato i delicati disegni che crescevano dal legno.
Oops, disse Saphira.
Se non altro sei stata tu, non io. Gli elfi ti perdoneranno. Canterebbero ballate d'amore dei nani notte e giorno, se solo tu glielo chiedessi.
Si sistemò con Saphira sulla pedana e si accoccolò contro le squame lisce del suo ventre, ascoltando la tempesta che infuriava intorno a loro. La grande membrana diventava translucida ogni volta che un fulmine illuminava la notte con la sua traiettoria serpeggiante.
Secondo te che ore sono?
Manca ancora parecchio al nostro appuntamento con Oromis. Coraggio, dormi e riprenditi. Veglierò su di te. Lui non si fece pregare due volte e si addormentò, nonostante i sussulti dell'albero.
Perché combatti?
Il segnatempo di Oromis squillò come un corno gigantesco, assordando le orecchie di Eragon, finché lui non si decise a prenderlo e a caricare di nuovo il meccanismo. Il ginocchio gli era diventato viola, ma gli doleva tutto il corpo, sia per la crisi che lo aveva aggredito, sia per la Danza del Serpente e della Gru; per giunta, non riusciva a emettere che suoni gracchianti con la gola irritata. Ma la cosa peggiore era il terribile presentimento che non sarebbe stata l'ultima volta che la ferita di Durza lo avrebbe tormentato.