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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Il soldato dalla barba gialla smontò dal suo baio da battaglia e s'incamminò lungo il ciglio della strada, studiando il terreno e il boschetto di ginepri. Come tutti i membri dell'esercito di Galbatorix, indossava una casacca rossa con una fiamma ricamata a fili d'oro. Il ricamo sprizzava scintille di luce a ogni movimento. La sua armatura era semplice: un elmo, uno scudo ammaccato e una brigantina di pelle, segno che era poco più che un fante a cavallo. Portava una lancia nella mano destra e uno spadone al fianco sinistro.

Mentre il soldato si avvicinava al suo nascondiglio, accompagnato dal clangore metallico degli speroni, Eragon cominciò a sussurrare un complicato incantesimo nell'antica lingua. Le parole gli uscirono dalle labbra in un flusso ininterrotto finché, con sgomento, non si accorse di aver pronunciato male una serie particolarmente difficile di vocali, e fu costretto a ricominciare daccapo.

Il soldato fece un altro passo verso di lui.

E un altro.

Proprio mentre il soldato si fermava di fronte a lui, Eragon completò

l'incantesimo e sentì che la sua forza scemava per effetto della magia. Purtroppo aveva impiegato un istante di troppo, perché il soldato esclamò: «Aha!» e scostò i rami di ginepro, esponendolo alla vista.

Eragon non si mosse.

Il soldato lo guardò dritto in faccia e aggrottò la fronte. «Ma che...» borbottò. Affondò la lancia fra i rami, mancando di un soffio il viso di Eragon, che si conficcò le unghie nei palmi, mentre i muscoli contratti tremavano. «Ah, ma che diamine» disse il soldato un attimo dopo, e lasciò andare i rami, che tornarono di scatto al loro posto, nascondendo di nuovo Eragon.

«Che c'è?» gridò un altro degli uomini.

«Niente» rispose il soldato a piedi, tornando dai compagni. Si tolse l'elmo e si asciugò la fronte. «Gli occhi mi giocano brutti scherzi.»

«Ma che si aspetta da noi quel bastardo di Braethan? Negli ultimi due giorni non abbiamo praticamente chiuso occhio.»

«Già. Il re dev'essere disperato per spremerci in questo modo... A essere sincero, preferirei non trovare questa persona che stiamo cercando, chiunque sia. Non che io abbia paura, ma se una persona riesce a preoccupare Galbatorix, allora vuol dire che è meglio evitarla. Che siano Murtagh e quel suo drago maledetto a catturare il nostro misterioso fuggitivo, eh?»

«A meno che non stiamo cercando proprio Murtagh» suggerì un terzo. «Hai sentito anche tu cosa ha detto il figlio di Morzan.»

Un silenzio inquieto scese sui soldati. Poi quello a piedi saltò in groppa al suo cavallo con un agile volteggio, si avvolse le redini intorno alla mano sinistra e disse: «Tieni chiusa quella tua boccaccia, Derwood. Parli troppo.»

Detto questo, i sei spronarono i cavalli e ripresero a galoppare verso nord, lungo la strada sterrata.

Mentre il rumore degli zoccoli si affievoliva, Eragon estinse l'incantesimo, si strofinò gli occhi con le nocche e posò le mani sulle ginocchia. Gli sfuggì una lunga risata e scrollò la testa, divertito dalla singolarità della sua situazione paragonata alla sua tranquilla fanciullezza nella Valle Palancar. Allora non avrei mai immaginato che potesse accadermi tutto questo, si disse.

L'incantesimo a cui aveva fatto ricorso era in due parti: la prima aveva deviato i raggi luminosi intorno al suo corpo per renderlo invisibile, e la seconda aveva impedito ad altri stregoni di rilevare il suo uso della magia, o almeno così sperava. La principale controindicazione dell'incantesimo era che non poteva nascondere le impronte - perciò bisognava restare immobili come una statua mentre lo si evocava - e spesso non riusciva a eliminare del tutto l'ombra della persona.

Sgusciando dal boschetto, Eragon stiracchiò le braccia sopra la testa e si volse a guardare la gola da cui erano emersi i soldati. Una sola domanda gli occupava la mente, mentre riprendeva il cammino: che cosa aveva detto Murtagh?

«Ahh!»

Il velo illusorio dei sogni si squarciò quando Eragon artigliò l'aria con le mani. Si raggomitolò con le ginocchia strette al petto e rotolò su se stesso. Poi indietreggiò puntando mani e talloni nel terreno, e infine si alzò di scatto, incrociando le braccia davanti al viso per parare eventuali colpi. Le tenebre della notte lo circondavano. In alto, le stelle indifferenti continuavano a spostarsi nella loro incessante danza celeste. In basso, non una creatura si muoveva, né si udiva un suono, tranne la brezza gentile che accarezzava l'erba.

Eragon tese un tentacolo di coscienza, convinto che qualcuno stesse per aggredirlo. Spaziò in un raggio di cento piedi, ma non trovò nessuno nelle vicinanze.

Alla fine abbassò le braccia. Ansimava forte, e la pelle gli bruciava, intrisa di sudore. Nella sua mente ruggiva una tempesta fatta di lampi di spade e pioggia di sangue. Per un istante credette di essere nel Farthen Dûr, a combattere gli Urgali, e poi sulle Pianure Ardenti, a incrociare la lama con uomini come lui. Ogni luogo era così reale che avrebbe giurato di essere stato trasportato indietro nel tempo e nello spazio con un sortilegio sconosciuto. Vide davanti a sé gli uomini e gli Urgali che aveva ucciso: sembravano così veri che si chiese se potessero parlare. E pur non avendo più le cicatrici delle ferite, il suo corpo ricordava ogni colpo subito, e il giovane rabbrividì nel sentire ancora le spade e le frecce che gli trapassavano la carne.

Con un ululato animalesco, cadde in ginocchio e si piegò in avanti, le braccia strette intorno allo stomaco, dondolando avanti e indietro. Va tutto bene... va tutto bene. Premette la fronte sul terreno, raggomitolato, sentendo il calore del proprio respiro sulla pancia.

Cosa c'è che non va in me?

Nessuno dei racconti epici che Brom narrava a Carvahall accennava al fatto che gli eroi del passato fossero stati perseguitati da visioni simili. Nessuno dei guerrieri che Eragon aveva conosciuto fra i Varden sembrava tormentato dal sangue versato. Roran aveva ammesso che non gli piaceva uccidere, però non si svegliava nel cuore della notte urlando.

Sono un debole, pensò Eragon. Un vero uomo non dovrebbe provare queste sensazioni. Garrow o Brom sarebbero stati in pace con la propria coscienza, lo so. Facevano quello che andava fatto, punto e basta. Non versavano lacrime, non si tormentavano, non digrignavano i denti... Sono un debole.

Si rimise in piedi e cominciò a camminare in circolo, intorno al suo giaciglio sull'erba, per calmarsi. Dopo mezz'ora, quando l'angoscia ancora gli attanagliava il petto in una morsa di ferro, facendolo trasalire al minimo fruscio, e la pelle gli prudeva come se un migliaio di formiche gli camminassero addosso, afferrò lo zaino e cominciò a correre alla cieca. Non gli importava che cosa potesse nascondersi nelle tenebre ignote o che qualcuno notasse la sua folle corsa.

Voleva soltanto sfuggire ai propri incubi. La mente gli si era rivoltata contro, e non poteva confidare nel pensiero razionale per disperdere il panico. La sua unica risorsa, quindi, era affidarsi all'antica saggezza animale della carne, che gli diceva di muoversi. Se avesse corso veloce e abbastanza a lungo, forse sarebbe riuscito ad aggrapparsi al momento presente. Forse l'oscillazione delle braccia, l'impatto dei piedi sul terreno, il sudore freddo che gli colava dalle ascelle e una miriade di altre sensazioni fisiche lo avrebbero costretto a dimenticare.

Forse.

Una nuvola di storni sfrecciò nel cielo del pomeriggio, come un branco di pesci che guizza sull'oceano.

Eragon socchiuse gli occhi per ammirarli. Nella Valle Palancar, quando gli storni facevano ritorno dopo l'inverno, spesso formavano gruppi così grandi da trasformare il giorno in notte. Questo stormo non era molto grande, ma gli ricordava lo stesso le serate trascorse a bere infuso di menta con Garrow e Roran sotto il portico della fattoria, guardando la nuvola nera che cambiava forma di continuo.

Smarrito nei ricordi, si fermò e sedette su un masso per stringersi i lacci degli stivali.

Il tempo era cambiato: faceva freddo e una nuvolaglia grigia a ovest annunciava un temporale. La vegetazione era più ricca, con muschio e canne e ampie zolle d'erba verde. A diverse miglia di distanza, cinque colline interrompevano il panorama uniforme e piatto. Un boschetto di querce coronava la sommità della collina centrale. Dal denso fogliame si ergevano le rovine di una costruzione abbandonata, eretta da chissà quale razza nei secoli addietro.

Incuriosito, Eragon decise di rompere il digiuno fra le rovine. Era certo di trovare selvaggina in abbondanza, e la sosta gli avrebbe dato una scusa per esplorare un po' i dintorni prima di proseguire.

Arrivò ai piedi della prima collina un'ora dopo, e trovò i resti di un'antica strada lastricata di pietre squadrate. La seguì fino alle rovine, sconcertato dalla loro architettura, che non somigliava a nessuna opera di umani, elfi o nani a lui nota.

L'ombra sotto le querce rinfrescò Eragon mentre s'inerpicava sulla collina centrale. Verso la sommità, il terreno divenne pianeggiante e il boschetto si diradò per aprirsi su una vasta radura. Al centro svettava una torre diroccata. La parte bassa della torre era larga e solcata da nervature, come il tronco di un albero. Poi la struttura si andava assottigliando e risaliva verso il cielo per oltre trenta piedi, terminando con un profilo aguzzo e frastagliato. La parte superiore della torre giaceva sul terreno, ridotta in tanti frammenti.

Eragon era eccitato. Aveva il sospetto di aver trovato un avamposto elfico eretto molto prima della caduta dei Cavalieri. Nessun'altra razza possedeva l'abilità o l'inclinazione a costruire una struttura simile.

Poi notò un orticello dall'altra parte della radura.

Tra le piante era accovacciato un uomo, intento a estirpare erbacce in mezzo ai piccoli filari di piselli. Il volto era immerso nell'ombra. La barba grigia era così lunga che gli posava in grembo come un cumulo di lana grezza.

Senza alzare lo sguardo, l'uomo disse: «Be', ti decidi ad aiutarmi o no? Se lo fai, ci sarà da mangiare anche per te.»

Eragon esitò, poi si disse: Perché dovrei aver paura di un vecchio eremita? e si avvicinò all'orto. «Sono Bergan... Bergan, figlio di Garrow.»

«Tenga, figlio di Ingvar» borbottò l'uomo.

Eragon posò lo zaino per terra e l'armatura all'interno sferragliò. Per tutta l'ora seguente lavorò in silenzio insieme a Tenga. Sapeva che non avrebbe dovuto restare, ma gli piaceva il lavoro fisico: gli impediva di pensare. Mentre sradicava le erbacce, lasciò espandere la mente per toccare la moltitudine di esseri che vivevano nella radura. Accolse con gratitudine il senso di unità che condivideva con loro.

Quando ebbero strappato fino all'ultimo stelo d'erba, portulaca e tarassaco, Eragon seguì Tenga attraverso una porticina incassata ai piedi della torre, oltre la quale si apriva una cucina spaziosa. Al centro della stanza, una scala a chiocciola conduceva al piano di sopra. Libri, pergamene e fasci di cartapecora non rilegata coprivano ogni superficie libera, compresa buona parte del pavimento.

Tenga puntò un dito verso la piccola catasta di rami nel caminetto. Con uno scoppio e un crepitio, il legno prese fuoco. Eragon s'irrigidì, pronto a lottare sia fisicamente che mentalmente con Tenga.

L'altro parve non notare la sua reazione, ma continuò ad affaccendarsi in cucina, prendendo tazze, piatti, coltelli e avanzi di vario genere per il pranzo, senza mai smettere di borbottare fra sé.

Con tutti i sensi vigili, Eragon sedette su uno sgabello in un angolo. Non ha parlato nell'antica lingua, pensò. Anche se ha pronunciato l'incantesimo nella sua testa, ha comunque rischiato di morire, o peggio, e solo per accendere il caminetto! Oromis gli aveva insegnato che le parole sono il mezzo attraverso il quale si controlla la magia. Evocare un incantesimo senza che la struttura del linguaggio ne imbrigliasse la forza motrice voleva dire rischiare che un pensiero ramingo o un'emozione distorcessero il risultato.

Eragon si guardò intorno, cercando nella stanza qualche indizio che potesse rivelargli qualcosa sul suo anfitrione. Vide una pergamena aperta che mostrava colonne di parole nell'antica lingua e la riconobbe come un compendio dei veri nomi simile a quello che aveva studiato a Ellesméra. I maghi avevano a cuore quel genere di documenti e di libri, ed erano disposti a sacrificare qualsiasi cosa per ottenerli, perché su di essi si potevano imparare nuove formule per un incantesimo o anche annotare le parole che via via si scoprivano. D'altro canto, erano pochi quelli che riuscivano a mettere le mani su un compendio, perché erano oggetti estremamente rari e quelli che già ne possedevano uno non se ne separavano mai volentieri.

Se già era strano che Tenga ne avesse uno, Eragon rimase di stucco nel vederne altri sei sparsi per la stanza, oltre a un certo numero di documenti su svariati temi, dalla storia alla matematica, dall'astronomia alla botanica.

Un boccale di birra e un vassoio con pane, formaggio e una fetta di pasticcio di carne freddo comparvero davanti a Eragon, offerti con malagrazia da Tenga.

«Grazie» disse Eragon, riconoscente.

Tenga lo ignorò e si sedette a gambe incrociate accanto al caminetto. Continuò a borbottare e mugugnare dentro la barba mentre consumava il suo pasto.

Dopo che ebbe ripulito il piatto e bevuto l'ultimo sorso di birra, Eragon non poté trattenersi dal chiedere a Tenga, che a sua volta stava per finire il pasto: «Sono stati gli elfi a costruire questa torre?»

Tenga lo fissò con uno strano sguardo, come se la domanda gli facesse dubitare dell'intelligenza di Eragon. «Già. Sono stati gli infidi elfi a costruire Edur Ithindra.»

«E tu cosa ci fai qui? Vivi da solo, oppure...»

«Cerco la risposta!» esclamò Tenga. «La chiave per una porta chiusa, il segreto degli alberi e delle piante. Fuoco, calore, lampo, luce... Quasi tutti non conoscono la domanda e brancolano nell'ignoranza. Altri conoscono la domanda ma temono la risposta. Bah! Per migliaia di anni abbiamo vissuto come bestie selvagge. Selvagge! Io metterò fine a tutto questo. Io aprirò un'era di luce e tutti glorificheranno la mia impresa.»

«Ti prego, dimmi, che cosa cerchi esattamente?»

Tenga si accigliò. «Non conosci la domanda? Credevo di sì. Ma si vede che mi sbagliavo. Eppure ho idea che tu comprenda la mia ricerca. Tu cerchi una risposta differente, ma comunque stai cercando. Lo stesso fuoco brucia nel tuo cuore come nel mio. Chi altri se non un compagno pellegrino può apprezzare il sacrificio che siamo costretti a compiere per trovare la risposta?»

«La risposta a cosa?»

«Alla domanda che scegliamo.»

È pazzo, pensò Eragon. Guardandosi intorno in cerca di qualcosa che potesse aiutarlo a distrarre Tenga, vide una serie di animaletti di legno allineati sul davanzale di una finestra a forma di goccia. «Che belle» disse, indicando le statuine. «Chi le ha fatte?»

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