Volodyk - Paolini3-Brisingr
Nasuada fece qualche passo avanti e studiò Katrina. Era curiosa di vedere che genere di donna potesse indurre un uomo a compiere un'impresa tanto straordinaria per salvarla. La giovane donna davanti a lei era di ossatura robusta, con il colorito pallido di una malata, una criniera di capelli ramati e un abito così logoro e sporco che era impossibile determinarne la foggia originaria. Malgrado le privazioni della prigionia, Nasuada pensò che Katrina era piuttosto attraente, ma non certo una donna che i bardi avrebbero definito bella. Tuttavia possedeva una certa forza nello sguardo e nel portamento che fece pensare a Nasuada che se fosse stato Roran quello tra i due a essere preso prigioniero, Katrina sarebbe stata altrettanto capace di sollevare l'intero villaggio di Carvahall, condurlo a sud nel Surda, combattere nella battaglia delle Pianure Ardenti e poi proseguire per l'Helgrind, tutto per amore del suo promesso. Anche quando notò Garzhvog, Katrina non batté ciglio, ma rimase impassibile dov'era, al fianco di Roran.
Roran s'inchinò davanti a Nasuada e, voltatosi, anche a re Orrin. «Mia signora» disse, con espressione solenne. «Sire. Se permettete, vi presento la mia fidanzata, Katrina.» La donna fece una riverenza a entrambi.
«Benvenuta fra i Varden, Katrina» disse Nasuada. «Abbiamo tutti sentito parlare di te, grazie alla rara devozione di Roran nei tuoi confronti. Canzoni d'amore per te si sono già diffuse in tutto il paese.»
«Benvenuta» intervenne Orrin. «Siamo molto lieti di conoscerti.»
Nasuada notò che il re non aveva occhi che per Katrina, come tutti gli altri uomini presenti, compresi i nani, e Nasuada era certa che avrebbero raccontato chissà quali storie sul fascino di Katrina ai loro compagni d'armi prima del finir della notte. Quello che Roran aveva fatto per lei l'aveva elevata al di sopra delle donne comuni: l'aveva resa oggetto di mistero, incanto e attrazione per i guerrieri. Che qualcuno fosse disposto a sacrificare tanto per un'altra persona significava, in ragione del prezzo pagato, che quella persona doveva essere straordinariamente preziosa.
Katrina arrossì e sorrise. «Grazie» disse. Insieme all'imbarazzo per quelle attenzioni, una punta di fierezza le tinse il viso, come se sapesse quanto era eccezionale Roran e fosse orgogliosa di aver catturato il suo cuore, lei fra tutte le donne di Alagaësia. Lui era suo, e questo era l'unico privilegio che desiderava.
Nasuada fu trafitta da una stilettata di solitudine. Quanto vorrei avere quello che hanno loro, pensò. Le sue responsabilità le impedivano di indulgere nel sogno tipicamente femminile dell'amore romantico e del matrimonio - o dei figli - a meno che non avesse dovuto piegarsi a un matrimonio di convenienza organizzato per il bene dei Varden. Spesso aveva pensato di proporlo a Orrin, ma poi non ne aveva mai avuto il coraggio. Ciò nonostante era soddisfatta della sua vita e non invidiava Roran e Katrina per la loro felicità. La sua causa era tutto quello che le stava a cuore: sconfiggere Galbatorix era molto più importante di un'inezia come il matrimonio. Quasi tutti si sposano, ma quanti hanno l'opportunità di guidare un popolo verso la nascita di una nuova era?
Questa sera non sono in me, si disse Nasuada. Le ferite mi fanno ronzare il cervello come un nido di vespe. Si riscosse e guardò oltre le spalle di Roran e Katrina, verso Saphira. Nasuada aprì le barriere che abitualmente teneva erette intorno alla propria mente per ascoltare quanto Saphira aveva da dire, e chiese: «Lui dov'è?»
Con un secco crepitio di squame contro squame, Saphira fece qualche passo avanti e abbassò il collo fino a portare la testa direttamente davanti a Nasuada, Arya e Angela. L'occhio sinistro della dragonessa scintillava di fuoco azzurro. Inspirò due volte, e la lingua rossa guizzò fuori dalla bocca. Una zaffata di alito caldo e umido arruffò il colletto di pizzo dell'abito di Nasuada.
Nasuada deglutì mentre la coscienza di Saphira sfiorava la sua. Saphira era diversa da qualsiasi altro essere che Nasuada avesse mai incontrato: antica, remota, feroce e gentile al tempo stesso. Questo, insieme all'imponente presenza fisica, le ricordava sempre che se Saphira avesse voluto divorarsela, avrebbe potuto. Era impossibile, pensava Nasuada, darsi troppe arie al cospetto di un drago.
Fiuto sangue, disse Saphira. Chi ti ha ferito, Nasuada? Dimmi il suo nome e lo sventrerò da capo a piedi e ti porterò la sua testa come trofeo.
«Non c'è bisogno che tu sventri nessuno. Non ancora, almeno. Ho impugnato io stessa il coltello. Ma è il momento meno adatto per parlare di questa vicenda. Ora m'importa solo di sapere che fine ha fatto Eragon.»
Eragon, disse Saphira, ha deciso di restare nel territorio dell'Impero. Per un paio di secondi, Nasuada fu incapace di muoversi o di pensare. Poi un crescente senso di ineluttabilità sostituì l'impulso di respingere la rivelazione di Saphira. Anche gli altri reagirono in vari modi; Nasuada ne dedusse che Saphira aveva parlato a tutti insieme.
«Come... come hai potuto permetterglielo?» chiese.
Saphira sbuffò e piccole lingue di fuoco le risalirono dalle narici. Eragon ha fatto la sua scelta. Non ho potuto impedirglielo. Insiste per fare quello che ritiene giusto, quali che siano le conseguenze per lui o per il resto di Alagaësia... Avrei voluto scrollarlo come un cucciolo, ma sono orgogliosa di lui. Non temete; sa badare a se stesso. Finora non gli è successo niente di brutto. Lo avrei saputo, altrimenti.
Parlò Arya: «E perché ha preso questa decisione, Saphira?»
Sarebbe più facile per me mostrarvelo che spiegarlo a parole. Posso?
Tutti manifestarono il loro consenso.
Un fiume di ricordi di Saphira si riversò nella coscienza di Nasuada. Vide il nero Helgrind da sopra una coltre di nubi; sentì Eragon, Roran e Saphira discutere sulla migliore strategia di attacco; li osservò scoprire il covo dei Ra'zac; e visse l'epica battaglia di Saphira con i Lethrblaka. La successione di immagini affascinò Nasuada. Era nata nel territorio dell'Impero, ma ne conservava solo un vago ricordo. Quella era la prima volta che da adulta guardava qualcosa che non si trovasse ai margini selvaggi del dominio di Galbatorix.
Infine ecco Eragon e lo scontro con Saphira. La dragonessa cercò di nasconderlo, ma l'angoscia provata nel lasciare Eragon era ancora così bruciante e dolorosa che Nasuada dovette asciugarsi le guance con le bende delle braccia. Tuttavia le ragioni che Eragon aveva addotto per restare - uccidere l'ultimo Ra'zac ed esplorare l'Helgrind - non la lasciarono soddisfatta.
Nasuada s'incupì. Eragon può anche essere un giovane impulsivo, ma non è tanto stupido da mettere a repentaglio il nostro obiettivo solo per visitare qualche grotta e bere l'ultimo amaro sorso della vendetta. Devono esserci altre spiegazioni. Si domandò se fosse il caso di insistere con Saphira per ottenere la verità, ma sapeva che la dragonessa non le avrebbe fornito quelle informazioni alla leggera. Forse vuole discuterne in privato, pensò.
«Dannazione!» imprecò re Orrin. «Eragon non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per andarsene in giro da solo. Che importa un singolo Ra'zac, quando l'intero esercito di Galbatorix è stanziato a poche miglia da qui?... Dobbiamo riportarlo indietro.»
Angela scoppiò a ridere. Stava lavorando a maglia una calza con cinque aghi d'osso, che ticchettavano e tintinnavano e crepitavano a ritmo costante. «E come? Lui viaggerà di giorno, e Saphira non può volare a cercarlo quando il sole è alto rischiando di farsi scorgere da qualcuno e mettere in allarme Galbatorix.»
«Sì, ma lui è il nostro Cavaliere! Non possiamo starcene qui con le mani in mano mentre lui si trova nel cuore del territorio nemico.»
«Sono d'accordo» disse Narheim. «In un modo o nell'altro, dobbiamo assicurarci che torni sano e salvo. Grimstnzborith Rothgar ha adottato Eragon nella sua famiglia e nel suo clan... che è anche il mio, come sapete... e noi gli dobbiamo la lealtà della nostra legge e del nostro sangue.»
Arya s'inginocchiò e, con grande sorpresa di Nasuada, cominciò ad allentare i lacci degli stivali per poi serrarli meglio. Con un laccio stretto fra i denti, Arya disse: «Saphira, dove si trovava di preciso Eragon l'ultima volta che gli hai toccato la mente?»
All'ingresso dell'Helgrind.
«E hai qualche idea sul percorso che intendeva seguire?»
Non lo sapeva nemmeno lui.
Rialzandosi, Arya disse: «Allora dovrò cercarlo ovunque.»
Come una gazzella, balzò in avanti e cominciò a correre per la radura; scomparve nella foresta di tende, diretta a nord, veloce e leggera come il vento.
«Arya, no!» gridò Nasuada; ma l'elfa era già sparita. La disperazione minacciò di travolgerla. Il centro sta crollando, pensò.
Afferrando i bordi dei pezzi scompagnati d'armatura che lo ricoprivano, come se volesse strapparseli di dosso, Garzhvog disse a Nasuada: «Vuoi che la segua, Lady Furianera? Non posso correre veloce come i piccoli elfi, ma a lungo quanto loro sì.»
«No... no, resta. Arya può passare per un'umana da una certa distanza, ma i soldati ti darebbero la caccia dal momento stesso in cui un contadino ti vedesse.»
«Sono abituato a essere cacciato.»
«Ma non nel cuore dell'Impero, con centinaia di uomini di Galbatorix che battono la campagna. No, Arya dovrà badare a se stessa. Prego solo che trovi Eragon e lo protegga, perché senza di lui siamo spacciati.»
♦ ♦ ♦
IN FUGA DA TUTTO
I piedi di Eragon risuonavano sul terreno.
Il ritmo martellante della sua falcata nasceva nei calcagni, correva su per le gambe, girava intorno ai fianchi, risaliva per la spina dorsale e terminava alla base del cranio, dove i ripetuti impatti gli facevano stridere i denti e acuivano il mal di testa che sembrava peggiorare a ogni miglio. All'inizio la musica monotona della corsa lo aveva infastidito, ma poi lo aveva cullato in una sorta di trance dentro la quale non pensava, si muoveva soltanto.
Ogni volta che uno stivale toccava il suolo, Eragon sentiva i fragili steli d'erba spezzarsi come ramoscelli, e nuvolette di polvere si levavano dal terreno arido. Pensò che doveva essere passato almeno un mese dall'ultima volta che era piovuto in quella zona di Alagaësia. L'aria secca gli asciugava l'umidità del respiro, lasciandogli la gola riarsa. Per quanto bevesse, non riusciva a compensare la quantità d'acqua che il sole e il vento gli sottraevano.
Di qui il suo mal di testa.
L'Helgrind era ormai molto lontano. Però i suoi progressi erano stati più lenti del previsto. Centinaia di pattuglie di Galbatorix, composte da soldati e da stregoni, battevano il territorio in lungo e in largo, costringendolo spesso a nascondersi per evitarle. Stavano cercando lui, senza alcuna ombra di dubbio. La sera prima aveva persino scorto Castigo che volava basso sull'orizzonte a ovest. Aveva subito schermato la mente, si era gettato in un canale di scolo e aveva aspettato lì per mezz'ora, finché Castigo non era tornato indietro, scomparendo oltre i confini del mondo.
Eragon aveva deciso di viaggiare percorrendo strade e sentieri ogni volta che era possibile. Gli eventi della settimana prima lo avevano spinto ai limiti della resistenza fisica e interiore. Preferiva consentire al corpo di riposare e riprendersi piuttosto che stancarsi ancora di più correndo fra boschi di rovi, risalendo colline e guadando torrenti fangosi. Il tempo degli sforzi violenti e disperati sarebbe di certo tornato, ma non adesso.
Finché restava sulle strade battute, non osava correre veloce quanto avrebbe potuto; anzi, sarebbe stato meglio non correre affatto. Il territorio era disseminato di villaggi e fattorie: se qualcuno degli abitanti avesse visto un uomo correre da solo nella campagna, come inseguito da un branco di lupi, la scena avrebbe inevitabilmente suscitato curiosità e sospetti, e magari un contadino spaventato avrebbe riferito l'episodio all'Impero. Sarebbe stato un errore fatale per Eragon, la cui più grande protezione era il mantello dell'anonimato.
Adesso invece correva perché da almeno una lega non incontrava creature viventi, tranne un lungo serpente che si crogiolava al sole.
Tornare dai Varden era il suo principale obiettivo, e lo irritava dover procedere a rilento, camminando come un vagabondo qualsiasi. Eppure apprezzava la solitudine. Non era mai stato solo, veramente solo da quando aveva trovato l'uovo di Saphira sulla Grande Dorsale. I pensieri della dragonessa avevano continuamente sfiorato i suoi, e al suo fianco c'era sempre stato qualcuno, Brom o Murtagh o un'altra persona. Oltre al fardello della presenza costante di qualcuno, Eragon aveva passato tutti i mesi dalla partenza dalla Valle Palancar impegnato in duri allenamenti, interrotti solo per viaggiare o prendere parte a sanguinose battaglie. Non gli era mai capitato di concentrarsi così intensamente e così a lungo su se stesso o di riflettere sulle sue paure e i suoi pensieri.
Accolse con piacere la solitudine, e la pace che ne derivava. L'assenza di voci, compresa la propria, era una dolce ninnananna che, seppure per breve tempo, gli fece dimenticare i timori per il futuro. Non aveva voglia di divinare Saphira - anche se erano troppo distanti per toccarsi con la mente, il loro legame gli avrebbe comunque rivelato se lei stava male - o di cercare Arya o Nasuada solo per sentirsi aggredire dalle loro parole infuriate. Molto meglio, pensava, ascoltare il canto degli uccelli e il sospiro della brezza fra l'erba e le foglie degli alberi.
Un tintinnio di briglie, uno scalpiccio di zoccoli e il suono di voci umane ridestarono Eragon dalle sue fantasticherie. Allarmato, si fermò e si guardò intorno, cercando di capire da dove provenissero gli uomini. Una coppia di taccole gracchianti si levò in volo da una gola poco distante.
L'unico nascondiglio praticabile era un boschetto di ginepri. Eragon si tuffò fra i rami bassi proprio mentre sei soldati emergevano dalla gola, spronando i cavalli al piccolo galoppo per salire sulla strada sterrata, a meno di dieci passi da lui. In circostanze normali Eragon avrebbe percepito la loro presenza molto prima che gli arrivassero così vicini, ma da quando aveva scorto Castigo in lontananza aveva tenuto la mente schermata.
I soldati tirarono le redini e si fermarono al centro della strada, discutendo fra di loro. «Ti dico che ho visto qualcosa!» gridò uno. Era di corporatura media, con le guance rubizze e la barba gialla.
Col cuore in tumulto, Eragon si sforzò di respirare piano e in silenzio. Si toccò la fronte per assicurarsi che la striscia di tessuto che si era legato intorno alla testa coprisse ancora le sopracciglia oblique e le orecchie a punta. Se solo avessi ancora la mia armatura, pensò. Per evitare di attirare l'attenzione si era costruito uno zaino di fortuna - usando rami secchi e una pezza quadrata di tela che aveva barattato da un ambulante - e ce l'aveva infilata dentro. Ora non osava aprire lo zaino per indossarla, nel timore che i soldati lo sentissero.