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Volodyk - Paolini2-Eldest

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Successo niente? chiese Eragon, affrettandosi verso di lei.

Ùndin ha convocato altri guerrieri, e poi hanno sbarrato i cancelli. Si aspetta un attacco?

Quantomeno lo considera un'eventualità.

«Eragon, ti prego, unisciti a noi» disse Ùndin, indicando la sedia alla propria destra. Il capoclan si sedette non appena lo fece Eragon, e il resto della compagnia li imitò.

Eragon fu contento quando Orik prese posto accanto a lui, con Arya seduta dall'altro lato del tavolo, anche se entrambi erano scuri in volto. Prima di poter chiedere a Orik dell'anello, Ùndin battè le mani e ruggì: «Ignh az voth!» I servitori sciamarono dal palazzo, portando vassoi d'oro massiccio carichi di carni, torte e frutta. Si divisero in tre colonne - una per ciascun tavolo - e deposero i vassoi profondendosi in inchini.

Davanti a loro c'erano zuppe e stufati guarniti di una grande varietà di tuberi, cacciagione arrosto, lunghi filoni di pane lievitato, e schiere di torte al miele grondanti di marmellata di lamponi. Su un letto d'insalata erano adagiati filetti di trota profumata al prezzemolo, e l'anguilla in salamoia fissava mesta un vaso di formaggio molle, come se sperasse in qualche modo di tornare in un fiume. Un cigno troneggiava su ciascun tavolo, circondato da stormi di pernici, anatre e oche ripiene.

C'erano funghi dappertutto: soffritti in succosi filetti, infilati sulla testa di un volatile a mo' di cuffia, o tagliati a forma di castelli in mezzo a fossati ricolmi di sugo. Ce n'era una varietà incredibile: da bianchi funghi carnosi grandi quanto il pugno di Eragon, ad alcuni che avrebbe potuto scambiare per corteccia secca, a delicati funghetti tagliati a metà a mostrare la polpa azzurrognola.

Poi venne introdotto il piatto forte del banchetto: un gigantesco cinghiale arrosto, lucente di sugo. Almeno, Eragon pensò che fosse un cinghiale, perché la carcassa era grande quanto Fiammabianca, e ci erano voluti sei nani per portarlo. Le zanne erano più lunghe del suo braccio, il muso tozzo grande quanto la sua testa. E l'odore sovrastava tutti gli altri in ondate pungenti che gli facevano lacrimare gli occhi.

«Nagra» mormorò Orik. «Cinghiale gigante. Ùndin ti rende un vero onore stasera, Eragon. Soltanto i nani più audaci osano cacciare il Nagra, che viene servito solo a ospiti di grande prestigio. Inoltre ho ragione di credere che il suo gesto miri a conquistarti i favori del Dùrgrimst Nagra.»

Eragon si chinò verso di lui per non farsi udire da orecchie indiscrete. «Quindi anche questo è un animale nativo dei Monti Beor? Quali sono gli altri?»

«Lupi delle foreste così enormi da predare i Nagra, e tanto agili da cacciare le Feldùnost. Orsi delle cavèrne, che chiamiamo Urzhadn, e gli elfi chiamano Beorn, da cui deriva il nome che usano per queste vette, anche se noi non le chiamiamo così. Il nome delle montagne è un segreto che non condividiamo con nessun'altra razza. E...» «Smer voth» comandò Ùndin, sorridendo ai suoi ospiti. I servitori estrassero subito piccoli coltelli ricurvi con cui tagliarono porzioni di Nagra che deposero sui piatti di ciascun commensale - tranne che su quello di Arya -, compreso un pezzo enorme per Saphira. Ùndin sorrise di nuovo, prese il pugnale e si tagliò una fetta di carne. Eragon prese il proprio coltello, ma Orik gli afferrò il braccio. «Aspetta.»

Ùndin masticò lentamente, roteando gli occhi e annuendo in modo esagerato, poi inghiottì e proclamò: «Ilf gauhnith!» «Ora» disse Orik, e cominciò a mangiare, mentre fra i tavoli si accendevano cordiali e animate conversazioni. Eragon non aveva mai assaggiato niente come quel cinghiale. Era succoso, morbido, e stranamente speziato, come se la carne fosse stata marinata in miele e sidro, e il sapore era esaltato dalla menta. Come hanno fatto a cuocere una bestia così grande?

A fuoco lento, commentò Saphira, addentando il suo pezzo di Nagra.

Fra un boccone e l'altro, Orik spiegò: «È nostra usanza, dai tempi in cui l'avvelenamento era una pratica alquanto diffusa fra i clan, che il padrone di casa assaggi per primo il cibo e lo dichiari sicuro per i suoi ospiti.» Durante il banchetto, Eragon divise il suo tempo fra un assaggio della moltitudine di pietanze e la conversazione con Orik, Arya e i nani del suo tavolo. Così le ore parvero scorrere in fretta, quando in realtà il banchetto durò tanto a lungo che solo nel tardo pomeriggio venne servita l'ultima portata, masticato l'ultimo boccone e vuotato l'ultimo calice. Mentre i servitori sparecchiavano, Ùndin si rivolse a Eragon. «Hai gradito il pranzo?»

«Delizioso.»

Ùndin annuì. «Sono lieto che ti sia piaciuto. Ho fatto spostare i tavoli all'esterno, ieri, perché potessi mangiare con il drago.» Il suo sguardo rimase su Eragon tutto il tempo.

Eragon si sentì gelare dentro. Che lo avesse fatto volontariamente oppure no, Ùndin aveva trattato Saphira come una bestia qualsiasi. Eragon aveva avuto intenzione di chiedere spiegazioni sui nani velati in privato, ma ora, come spinto dal desiderio di irritare Ùndin, disse: «Saphira e io ti ringraziarne» E poi: «Perché hanno scagliato quell'anello davanti a noi?»

Un silenzio avvilito discese sul cortile. Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik che faceva una smorfia. Arya però sorrideva, come se avesse capìto che cosa stava facendo.

Ùndin posò il pugnale, visibilmente accigliato. «I knur-lagn che hai incontrato appartengono a un tragico clan. Prima della caduta dei Cavalieri erano fra le più antiche e ricche famiglie del nostro regno. Il loro destino, però, fu segnato da due terribili errori: vivevano ai confini occidentali dei Monti Beor, e inviarono i loro più valorosi guerrieri al servizio di Vrael.»

La rabbia s'impadronì della sua voce, rendendola rauca. «Galbatorix e i suoi Rinnegati, siano maledetti per sempre, li massacrarono nella vostra città di Ùru'baen. Poi volarono su di noi, e ne uccisero molti. Di quel clan, soltanto Grimstcarvlorss Anhùin e le sue guardie sopravvissero. La povera Anhùin morì presto di crepacuore, e i suoi uomini assunsero il nome di Az Sweldn rak Anhùin, le Lacrime di Anhùin, coprendosi il volto per rammentare a se stessi il loro lutto e il desiderio di vendetta.»

Le guance gli formicolarono di vergogna, ma Eragon si sforzava di mantenere un'espressione neutra. «E così» proseguì Ùndin, fissando torvo un dolcetto, «ricostruirono il clan nel corso dei decenni, aspettando la loro rivalsa. E adesso arrivi tu, portando l'emblema di Rothgar. È un insulto gravissimo per loro, malgrado le tue gesta nel Farthen Dùr. E quindi l'anello rappresenta un gravissimo gesto di sfida. Significa che il Dùrgrimst Az Sweldn rak Anhùin si opporrà a te con tutte le sue forze, in ogni questione, grande o piccola. Si sono schierati contro di te, si sono dichiarati nemici di sangue.»

«Vuoi dire che intendono farmi del male?» domandò Eragon, rigido.

Lo sguardo di Ùndin vacillò nel rivolgere una fugace occhiata a Gannel, poi Ùndin scrollò il capo ed emise una rauca risata che risuonò forse un po' troppo ostentata. «No, Ammazzaspettri! Nemmeno loro oserebbero nuocere a un ospite. È proibito. Vogliono soltanto che tu vada via, lontano e il più presto possibile.» Eragon non sembrava del tutto convinto. Allora Ùndin aggiunse: «Ti prego, non parliamo più di questi sgradevoli argomenti. Gannel e io ti abbiamo offerto il nostro cibo e il nostro idromele in segno di amicizia. Non è questo ciò che più conta?» Il sacerdote lì accanto mormorò un assenso.

«Lo apprezzo molto» concesse infine Eragon.

Saphira lo guardò con occhi solenni e disse: Hanno paura, Eragon. Paura e risentimento, perché sono stati costretti ad accettare l'assistenza di un Cavaliere.

Già. Se sarà necessario, combatteranno con noi, ma non per noi.

Celbedeil

Il mattino senza alba trovò Eragon nel salone principale di Ùndin, ad ascoltare il capoclan che discorreva con Orik nella lingua dei nani. Ùndin s'interruppe nel vedere Eragon che si avvicinava, poi disse: «Ah, Ammazzaspettri. Hai dormito bene?»

«Sì.»

«Bene.» Fece un cenno a Orik. «Stavamo parlando della vostra partenza. Mi sarebbe piaciuto che vi tratteneste più a lungo qui da noi, ma date le circostanze è preferibile che riprendiate il vostro viaggio domattina presto, quando non ci sarà nessuno per la strada che possa importunarvi. Ho già dato ordine di preparare le provviste e i mezzi di trasporto. Per esplicita volontà di Rothgar, una scorta vi accompagnerà fino a Ceris, e dal canto mio ho aumentato il loro numero da tre a sette.»

«E nel frattempo?»

Ùndin si strinse nelle spalle ammantate di pelliccia. «Avrei voluto mostrarti le meraviglie di Tarnag, ma adesso non sarebbe saggio lasciarti girare per la mia città. Tuttavia Grimstborith Gannel ti ha invitato a Celbedeil. Se lo desideri, accetta. Con lui sarai al sicuro.» Il capoclan sembrava aver dimenticato l'affermazione del giorno prima, secondo cui gli Az Sweldn rak Anhùin non gli avrebbero torto un capello.

«Ti ringrazio. Credo che accetterò.» Nel lasciare la sala, Eragon prese da parte Orik e gli chiese: «Quanto è seria questa faida? Devo sapere la verità.»

Orik rispose, con malcelata riluttanza: «In passato, non era raro che le faide durassero per generazioni. Intere famiglie si sono estinte nel sangue. Sono stati sconsiderati gli Az Sweldn rak Anhùin ad appellarsi alle antiche usanze; una cosa del genere non accadeva dai tempi delle guerre fra clan... Finché non revocheranno il loro giuramento, dovrai guardarti dai loro complotti, che sia per un anno oppure per un secolo. Mi rincresce che la tua amicizia con Rothgar abbia provocato tutto questo, Eragon. Ma non sei solo. Il Dùrgrimst Ingietum è dalla tua parte.»

Una volta uscito, Eragon corse da Saphira, che aveva trascorso la notte accucciata in cortile. Ti dispiace se vado a visitare Celbedeil?

Se proprio devi, va'pure. Ma porta Zar'roc. Il giovane seguì il suo consiglio, e s'infilò la pergamena di Nasuada nella tunica. Quando Eragon si avvicinò al cancello incassato nel muro di cinta del palazzo, cinque nani spinsero da parte i battenti di legno grezzo, poi si strinsero intorno a lui, le mani salde sulle impugnature delle spade e delle asce, gli occhi che guizzavano da un lato e dall'altro per ispezionare la strada. Le guardie lo scortarono nel ripercorrere il tragitto del giorno prima, fino all'ingresso sbarrato del più elevato livello di Tarnag.

Eragon rabbrividì. La città era innaturalmente deserta. Le porte erano sprangate, le finestre chiuse, e i pochi passanti distoglievano lo sguardo e imboccavano vicoli laterali per evitarlo. Hanno paura di mostrarsi accanto a me, comprese Eragon. Forse perché sanno che gli Az Sweldn rak Anhùin si vendicheranno contro chiunque mi aiuti. Spinto dal desiderio sempre più pressante di togliersi dalla strada troppo esposta, Eragon alzò una mano per bussare, ma le sue nocche non avevano ancora toccato il legno che una porta si aprì verso l'esterno con un lieve cigolìo, e un nano dalla lunga veste nera gli fece cenno di entrare. Stringendosi il cinturone, Eragon entrò, lasciando la scorta ad aspettarlo fuori.

La sua prima impressione fu di colore. Un vasto prato verdeggiante circondava la mole colonnata di Celbedeil, come un arazzo adagiato sulla collina simmetrica da cui svettava il tempio. L'edera rampicante strangolava le antiche mura dell'edificio con lunghi tentacoli barbati, le foglie appuntite scintillavano di rugiada. E a dominare su tutto il resto, tranne che sulle montagne, sorgeva la grande cupola bianca dalle coste in rilievo d'oro cesellato. L'impressione successiva fu l'odore. Fiori e incenso mescolavano le proprie fragranze in un aroma così etereo da dare a Eragon la sensazione che avrebbe potuto vivere solo di quel profumo.

L'ultima fu il suono, o meglio, la sua assenza, poiché sebbene gruppi di sacerdoti passeggiassero lungo i vialetti a mosaico e i vasti piazzali, l'unico rumore che Eragon udì fu il fievole frullo d'ali di un corvo nero che volava in alto. Il nano gli fece un altro cenno e s'incamminò lungo il viale principale che portava a Celbedeil. Nel passare sotto i cornicioni, Eragon non potè che ammirare la profusione di ricchezze e la maestria con cui erano stati costruiti. Le mura erano tempestate di gemme di ogni colore e taglio tutte purissime - e nelle venature che screziavano i soffitti, il pavimento e le mura di pietra erano state martellate lamine d'oro rosso, intervallate da perle lucenti e borchie d'argento. Più di una volta oltrepassarono paraventi fatti interamente di giada intagliata.

Il tempio era privo di ornamenti in tessuto. In compenso, i nani avevano scolpito un'abbondanza di statue, perlopiù creature mostruose e divinità impegnate in epiche battaglie.

Dopo aver risalito diversi livelli, varcarono una porta coperta di verderame, con una serie di nodi intricati e complessi lavorati a sbalzo, per entrare in una sala vuota dal pavimento di legno. Le pareti erano coperte di armature e rastrelliere stipate di lunghe aste di legno con una lama a ciascuna estremità, identiche a quella che Angela aveva usato per combattere nel Farthen Dùr.

Nella sala c'era Gannel, impegnato ad allenarsi al combattimento con tre nani più giovani. Il capoclan aveva la veste raccolta intorno alle cosce per potersi muovere liberamente, il volto una maschera di concentrazione mentre faceva roteare il bastone, le lame smussate che guizzavano come calabroni infastiditi.

Due nani si lanciarono verso Gannel, ma furono bloccati in un clangore di legno e metallo, mentre il sacerdote piroettava colpendogli le ginocchia e la testa, spedendoli a terra. Eragon sorrise guardando Gannel che disarmava l'ultimo avversario con un'elegante sequenza di colpi.

Finalmente il capoclan notò Eragon e congedò gli altri nani. Mentre Gannel riponeva l'arma sulla rastrelliera, Eragon gli domandò: «Tutti i Quan sono così esperti nelle arti marziali? È strano che i sacerdoti coltivino questa pratica.» Gannel si volse. «Dobbiamo essere capaci di difenderci, non credi? Molti nemici calpestano questa terra.» Eragon annuì. «Queste sono armi molto singolari. Non ne ho mai viste di simili, tranne che nella battaglia del Farthen Dùr, in mano a un'erborista.»

Il nano trattenne il fiato, poi lo liberò con un sibilo a denti stretti. «Angela.» La sua espressione si fece torva. «Vinse il bastone a un sacerdote in una gara di indovinelli. Fu un trucco sleale, dato che noi siamo gli unici ad aver diritto di usare gli hùthvìrn. Lei e Arya...» Scrollò le spalle e si diresse a un tavolinetto dove riempì due boccali di birra. Porgendone uno a Eragon, disse: «Ti ho invitato qui, oggi, su richiesta di Rothgar. Mi ha detto che se tu avessi accettato la sua offerta di entrare a far parte dell'Ingietum, io avrei dovuto insegnarti le tradizioni dei nani.» Eragon sorseggiò la birra e tacque, osservando come la fronte sporgente di Gannel coglieva la luce, proiettando scure ombre sugli zigomi.

Il capoclan proseguì. «A nessuno straniero sono mai state rivelate le nostre segrete credenze, né potrai mai parlarne con umano o elfo. Ma senza questa conoscenza, non potresti mai comprendere cosa significa essere knurla. Ora sei un Ingietum: il nostro sangue, la nostra carne, il nostro onore. Capisci?»

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