Volodyk - Paolini3-Brisingr
Oromis scoccò un'occhiata a Glaedr e il volto dell'elfo si adombrò di apprensione. «Per questo motivo, per contribuire alla vostra sopravvivenza, e come precauzione contro la nostra possibile morte, Glaedr, con la mia benedizione, ha deciso...»
Ho deciso, intervenne Glaedr, di donarvi il mio cuore dei cuori, Saphira Squamediluce ed Eragon Ammazzaspettri.
Lo stupore di Saphira fu enorme quanto quello di Eragon. Tutti e due guardarono a bocca aperta il maestoso drago dorato che torreggiava su di loro. Saphira disse: Maestro, tu ci fai un onore che è difficile esprimere a parole, ma... sei sicuro di volerci affidare il tuo cuore?
Sì, rispose Glaedr, e abbassò la testa massiccia. E ne sono sicuro per diverse ragioni. Se terrete il mio cuore, anche se sarete lontanissimi potrete comunicare con Oromis e me, e io sarò in grado di aiutarvi con la mia forza in qualunque circostanza. E se io e Oromis dovessimo cadere in battaglia, la nostra conoscenza ed esperienza, come anche la mia forza, saranno sempre a vostra disposizione. Ho riflettuto molto su questa scelta, Eragon, e sono convinto che sia quella giusta.
«Ma se Oromis dovesse morire» disse Eragon in tono sommesso «vorresti davvero continuare a vivere senza di lui come un Eldunarí?»
Glaedr volse la testa e guardò Eragon con uno dei suoi immensi occhi. Non desidero separarmi da Oromis, ma qualunque cosa accada continuerò a fare il possibile per detronizzare Galbatorix. Questo è il nostro unico scopo, e nemmeno la morte ci impedirà di perseguirlo. L'idea di perdere Saphira tifa orrore, Eragon, e lo capisco, ma Oromis e io abbiamo avuto tanti secoli per rassegnarci alla consapevolezza che una simile separazione è inevitabile. Per quanto facciamo attenzione, per quanto possiamo vivere ancora a lungo, alla fine uno di noi morirà. Non è un pensiero felice, ma è la verità. Così va il mondo.
Cambiando posizione, Oromis disse: «Non posso fingere di essere lieto di questa decisione, ma lo scopo della vita non è fare ciò che vogliamo, ma ciò che va fatto. Ed è questo che il destino vuole da noi.»
Perciò vi chiedo, riprese Glaedr, Saphira Squamediluce ed Eragon Ammazzaspettri, accettate il mio dono e tutto ciò che esso comporta?
Sì, disse Saphira.
Sì, disse Eragon dopo un attimo di esitazione.
Glaedr ritrasse la testa. I muscoli sul suo addome ondeggiarono e si contrassero diverse volte, e il collo cominciò a sussultare come se avesse qualcosa che gli ostruiva la gola. Allargando le zampe, il drago dorato tese il collo in avanti; ogni nervo e tendine del corpo sporgevano in rilievo dalla corazza di squame luccicanti. La sua gola continuò a flettersi e allentarsi, sempre più veloce, finché Glaedr abbassò la testa davanti a Eragon e spalancò le fauci, sprigionando un'acre zaffata di alito caldo. Eragon sgranò gli occhi e cercò di non vomitare. Mentre fissava le profondità della bocca del drago, vide la sua gola contrarsi un'ultima volta, e poi un bagliore di luce dorata comparve fra le pieghe di carne umida e rossa. Un secondo dopo, un oggetto rotondo, del diametro di circa un piede, scivolò lungo la lingua cremisi di Glaedr e gli uscì dalla bocca così in fretta che Eragon per poco non mancò la presa.
Mentre le sue mani si stringevano intorno all'Eldunarí viscido di saliva, Eragon boccheggiò, barcollando all'indietro, perché all'improvviso fu travolto da ogni pensiero e da ogni emozione di Glaedr, e da tutte le sensazioni del suo corpo. Il peso di quelle informazioni era schiacciante, come anche l'intimità del contatto. Eragon se lo era aspettato, eppure rimase ugualmente sconvolto nel comprendere che fra le mani teneva l'intero essere di Glaedr.
Il drago tremò, scuotendo la testa come se fosse stato punto da qualcosa, e si affrettò a schermare la mente, anche se Eragon poteva ancora percepire il tremolio dei suoi pensieri e il colore delle sue emozioni.
L'Eldunarí era come una gigantesca pepita d'oro. La superficie era calda e ricoperta di sfaccettature, tutte di dimensioni e angolazioni diverse. Il centro dell'Eldunarí emetteva un soffuso bagliore, simile a quello di una lanterna su cui sia stato posato un velo, e la luce diffusa pulsava con un lento battito regolare. A prima vista, la luce sembrava uniforme, ma più Eragon la fissava, più dettagli vi scorgeva: piccoli vortici e correnti che fluttuavano e si spostavano apparentemente a caso, punti più scuri quasi immobili, scariche di lampi luminosi non più grandi della capocchia di uno spillo, che brillavano un solo istante prima di essere inghiottiti dalla luce circostante. Era vivo.
«Tieni» disse Oromis, porgendogli un robusto sacco di tela.
Con grande sollievo di Eragon, l'intimo legame con Glaedr svanì non appena ebbe infilato l'Eldunarí nel sacco e le sue mani non furono più a contatto della pietra. Ancora un po' scosso, si strinse al petto il sacco con l'Eldunarí, intimidito dalla consapevolezza di avere fra le mani l'essenza stessa di Glaedr, e spaventato da quello che sarebbe potuto succedere se avesse fatto cadere il cuore dei cuori.
«Grazie, maestro» riuscì a dire in un soffio, chinando il capo verso Glaedr.
Difenderemo il tuo cuore a costo della nostra vita, aggiunse Saphira.
«No!» tuonò Oromis. «Non a costo della vostra vita! È proprio quello che vogliamo evitare. Prendetevi cura del cuore di Glaedr, ma nessuno di voi due dovrà sacrificarsi per proteggere lui o me o chiunque altro. Dovete restare vivi a tutti i costi, altrimenti le nostre speranze saranno spazzate vie come foglie al vento, e tutto sarà tenebra.»
«Sì, maestro» risposero Eragon e Saphira in coro, lui con la voce, lei col pensiero.
Poiché avete giurato fedeltà a Nasuada, e le dovete lealtà e obbedienza, potrete dirle del mio cuore, se necessario, ma solo se necessario. Per il bene dei draghi, di quei pochi che restano, la verità sugli Eldunarí non deve diventare di dominio pubblico, disse Glaedr.
Potremo dirlo ad Arya? chiese Saphira.
«E a Blödhgarm e agli altri elfi che Islanzadi ha mandato a proteggermi?» aggiunse Eragon. «Ho permesso loro di entrare nella mia mente quando io e Saphira abbiamo combattuto contro Murtagh l'ultima volta. Noteranno la tua presenza, Glaedr, se ci aiuti nel mezzo di una battaglia.»
Potrai informare Blödhgarm e i suoi stregoni dell'Eldunarí, disse Glaedr. Ma solo dopo che avranno fatto giuramento di segretezza.
Oromis si calcò l'elmo in testa. «Arya è la figlia di Islanzadi, perciò immagino che sia giusto che sappia. Tuttavia, come nel caso di Nasuada, non dirglielo se non è assolutamente necessario. Un segreto condiviso non è più un segreto. Se ci riuscite, non pensateci nemmeno, neppure al concetto stesso di Eldunarí, affinché nessuno possa carpire le informazioni dalla vostra mente.»
«Sì, maestro.»
«E ora mettiamoci in viaggio» disse Oromis, infilandosi un paio di grossi guanti. «Ho saputo da Islanzadi che Nasuada ha cinto d'assedio la città di Feinster e che i Varden hanno un gran bisogno di voi.»
Siamo rimasti troppo a lungo a Ellesméra, disse Saphira.
Forse, disse Glaedr, ma è stato tempo speso bene.
Prendendo una piccola rincorsa, Oromis balzò sull'unica zampa davanti di Glaedr e s'inerpicò sul suo alto dorso dentellato. Una volta in sella, cominciò ad allacciare le cinghie intorno alle gambe. «Mentre siamo in volo» disse rivolto a Eragon «possiamo ripassare la lista dei veri nomi che hai imparato durante la tua ultima visita.»
Eragon si avvicinò a Saphira e con cautela si arrampicò sul suo dorso; poi avvolse il cuore di Glaedr in una coperta e mise il fagotto in una bisaccia. Infine, come Oromis, assicurò le gambe alla sella. Alle sue spalle sentiva il costante palpito di energia emanato dall'Eldunarí.
Glaedr avanzò fino al bordo della rupe di Tel'Naeír e dispiegò le ali poderose. La terra tremò quando il drago dorato balzò verso il cielo striato di nuvole, e l'aria fu squarciata da un rombo possente quando inclinò le ali verso il basso per librarsi sopra l'oceano di alberi. Eragon si afferrò saldamente alla punta cervicale che aveva davanti quando Saphira imitò Glaedr, lanciandosi nel vuoto e precipitando di parecchie centinaia di piedi prima di risalire e mettersi al fianco del drago dorato.
Glaedr la superò e prese la guida, puntando a sud-ovest. Battendo le ali a ritmo diverso, i due draghi sfrecciarono sull'immensa foresta che si estendeva a perdita d'occhio.
Saphira inarcò il collo ed emise un sonoro ruggito. Davanti a lei, Glaedr rispose allo stesso modo. Le loro grida riecheggiarono feroci, spaventando gli uccelli del cielo e le bestie della terra.
IN VOLO
Da Ellesméra, Saphira e Glaedr sorvolarono senza soste l'antica foresta degli elfi. A volte la folta massa di alti pini scuri si apriva ed Eragon scorgeva un lago o un fiume sinuoso. Spesso sulle sponde c'erano gruppi di piccoli caprioli che smettevano di abbeverarsi per alzare la testa e osservare i draghi in volo. Ma Eragon prestò poca attenzione al panorama, troppo impegnato a recitare nella mente ogni parola dell'antica lingua che aveva imparato. Se ne dimenticava qualcuna o faceva un errore di pronuncia, Oromis lo costringeva a ripeterla.
Arrivarono ai margini della Du Weldenvarden nel tardo pomeriggio del primo giorno. Lì, sul confine ombreggiato fra gli alberi e le praterie, Glaedr e Saphira volarono in cerchio e Glaedr disse: Tieni al sicuro il tuo cuore, Saphira, e anche il mio.
Lo farò, maestro, rispose Saphira.
E dal dorso di Glaedr, Oromis gridò: «Che i venti vi siano favorevoli, Eragon, Saphira! Quando ci incontreremo di nuovo, che sia davanti ai cancelli di Urû'baen.»
«Che i venti siano favorevoli anche a voi!» gridò Eragon di rimando.
Glaedr virò e puntò verso ovest, costeggiando la foresta - una rotta che lo avrebbe portato all'estremità settentrionale del Lago Isenstar, e poi dal lago fino a Gil'ead - mentre Saphira continuò nella stessa direzione a sudovest.
Volò tutta la notte, atterrando solo per bere, mentre Eragon si sgranchiva le gambe e liberava il corpo. Questa volta, a differenza dell'andata, non incontrarono venti contrari: l'aria rimase limpida e calma, come se perfino la natura fosse ansiosa di farli tornare dai Varden. Quando il sole sorse sul secondo giorno, li trovò già nel cuore del deserto di Hadarac, diretti a sud, così da evitare i confini orientali dell'Impero. E quando il buio avvolse di nuovo la terra e il cielo, e li strinse nel suo freddo abbraccio, Saphira ed Eragon avevano superato le distese sabbiose ed erano tornati a volare sopra i campi verdeggianti dell'Impero, con l'intento di passare fra Urû'baen e il Lago Tüdosten per raggiungere la città di Feinster.
Dopo aver viaggiato ininterrottamente per due giorni e due notti, senza mai dormire, Saphira non fu più in grado di continuare. Atterrata in un boschetto di betulle bianche sulle sponde di un laghetto, si raggomitolò all'ombra e dormì per qualche ora, mentre Eragon restava di guardia e si esercitava a maneggiare Brisingr.
Da quando si erano separati da Oromis e Glaedr, Eragon, pensando a ciò che li attendeva a Feinster, provava un senso di perenne ansia. Sapeva di essere molto più protetto dalla morte e dalle ferite rispetto agli altri guerrieri, ma quando ripensava alle Pianure Ardenti e alla battaglia del Farthen Dûr, quando ricordava la vista del sangue che sprizzava dalle membra tagliate e le urla degli uomini feriti e la sferzata incandescente di una spada che attraversava la sua stessa carne, allora gli si torcevano le budella e i muscoli gli tremavano di energia repressa, e non sapeva se desiderava combattere ogni soldato sulla faccia della terra o fuggire nella direzione opposta per andare a nascondersi nel buco più nero e profondo.
L'ansia peggiorò quando ripresero il viaggio e scorse schiere di uomini armati che marciavano nei campi. Qui e là, colonne di pallido fumo salivano dai villaggi saccheggiati. Lo spettacolo di tanta devastazione gratuita lo nauseò; distolse lo sguardo e strinse la punta cervicale avanti a sé, socchiudendo gli occhi finché l'unica cosa che vide, attraverso la nebbia scura delle ciglia, furono i bianchi calli sulle sue nocche.
Piccolo mio, disse Saphira, i pensieri lenti e affaticati. Lo abbiamo già fatto. Non lasciarti impressionare in questo modo.
Pentito di averla distratta, Eragon le disse: Mi dispiace... Starò bene quando arriveremo. Vorrei solo che fosse già finita.
Lo so.
Eragon tirò su con il naso, asciugandoselo nella manica della tunica. A volte vorrei che combattere mi piacesse come a te. Sarebbe tutto più facile.
Se ti piacesse, disse lei, il mondo intero si prostrerebbe ai nostri piedi, compreso Galbatorix. No, è un bene che tu non condivida la mia brama di sangue. Ci bilanciamo a vicenda, Eragon... Divisi siamo incompleti, ma insieme siamo un intero. Adesso libera la mente da questi pensieri velenosi e fammi un indovinello per tenermi sveglia.
Va bene, disse lui dopo un attimo. Sono rosso come sangue o giallo come veleno, o di ogni altro colore dell'arcobaleno. Sono grande o piccolo, ammirato o calpestato, e spesso riposo avvoltolato. Posso consumare cento pecore, e anche di più. Che cosa sono, sai dirmelo tu?
Un drago, naturalmente, rispose lei senza esitare.
No, un tappeto di lana.
Bah!
Il terzo giorno di viaggio scivolò via con una lentezza esasperante. Gli unici rumori che Eragon sentiva erano il battito delle ali di Saphira, il sibilo regolare del suo respiro ansante e il monotono ruggito dell'aria nelle orecchie. Gli dolevano le gambe e la schiena a furia di stare tanto tempo in sella, ma il suo disagio era minimo in confronto a quello di Saphira: i muscoli le bruciavano di un dolore quasi insopportabile. Eppure la dragonessa non si lamentava e rifiutò l'offerta di Eragon di alleviare la sua sofferenza con un incantesimo, dicendo: Ti servirà ogni oncia di energia quando arriveremo.
Qualche ora dopo il crepuscolo, Saphira sussultò e perse quota di colpo, con una caduta vertiginosa di parecchi piedi.
Eragon si rizzò in sella allarmato e volse lo sguardo in cerca della possibile causa dell'inconveniente, ma in basso vide soltanto oscurità, in alto le stelle che brillavano.