Volodyk - Paolini3-Brisingr
I pugnali caddero a terra tintinnando un istante prima delle teste.
Superando con un salto i corpi mutilati, Eragon si volse mentre era ancora in volo e atterrò nel punto da cui era partito.
Appena in tempo.
Un soffio di vento gli solleticò il collo quando la punta di un pugnale gli sfiorò la gola. Un'altra lama gli lacerò il risvolto dei pantaloni. Eragon trasalì e fece roteare il falcione, cercando di guadagnare spazio per combattere. I miei incantesimi di difesa avrebbero dovuto respingere le spade! pensò, sbalordito.
Posò il piede in una pozza di sangue vischioso e scivolò, cadendo di schiena e lasciandosi sfuggire un grido. Batté la testa sul pavimento di pietra e il colpo gli diede subito la nausea. Lucine azzurre presero a balenargli davanti agli occhi. Si sentì mancare il respiro.
Le tre guardie sopravvissute balzarono sopra di lui e insieme fecero roteare le asce per proteggerlo ed evitare il morso dei pugnali luccicanti.
Eragon non impiegò molto a riprendersi. Balzò in piedi e rimproverandosi per non averci pensato prima gridò un incantesimo intessuto con nove delle dodici parole di morte che Oromis gli aveva insegnato. Tuttavia dovette abbandonare la magia subito dopo averla liberata, perché i nani vestiti di nero erano protetti da numerose difese. Se avesse avuto qualche minuto in più, forse sarebbe riuscito ad aggirarle o a sconfiggerle, ma in quella battaglia dove ogni istante sembrava durare un'ora ci sarebbero voluti giorni. Avendo fallito con la magia, concentrò i pensieri in una lancia solida come il ferro e la scagliò dove avrebbe dovuto trovarsi la coscienza di uno dei nani, ma la sua energia fu respinta da una sorta di armatura mentale diversa da tutte quelle che il Cavaliere aveva visto prima di allora: liscia e senza giunture, immune dalle preoccupazioni tipiche di una creatura mortale impegnata in una lotta all'ultimo sangue.
Qualcuno li protegge, si disse. Questi sette nani non combattono da soli.
Puntando un piede, scattò in avanti e con il falcione trafisse il primo in un ginocchio, che prese a sanguinare. Il nano barcollò e le guardie di Eragon puntarono su di lui, afferrandolo per le braccia, così che non potesse brandire la malefica lama, poi lo abbatterono con le asce.
Il più vicino degli ultimi due assalitori alzò lo scudo per parare il colpo che Eragon stava per assestargli. Facendo appello a tutte le sue forze, il Cavaliere cercò di spezzare in due lo scudo e il braccio che lo reggeva, come aveva fatto spesso con Zar'roc, ma nella concitazione del momento non aveva tenuto conto dell'inesplicabile rapidità dei nani. Vedendo il falcione avvicinarsi al bersaglio, il nano inclinò lo scudo di lato in modo da deviare il colpo.
Il falcione rimbalzò sulla superficie e poi sulla punta d'acciaio dello scudo, sollevando due sbuffi di scintille. Il contraccolpo fu più forte del previsto e il falcione andò a conficcarsi nella parete, trascinando con sé il braccio di Eragon. Con un suono cristallino, la lama si frantumò in una decina di pezzi. Dall'elsa spuntava ormai solo un punteruolo di metallo sbeccato lungo sei pollici.
Sgomento, Eragon lasciò cadere l'arma ormai inutilizzabile, afferrò il bordo dello scudo del nano e lo strattonò avanti e indietro, cercando con ogni mezzo di frapporlo tra sé e il pugnale impreziosito da un alone di colori traslucidi. Il nano era incredibilmente forte; rispondeva colpo su colpo a tutti gli affondi di Eragon e riuscì perfino a farlo indietreggiare di un passo. Liberando la mano destra ma tenendo ancora lo scudo con la sinistra, Eragon caricò il braccio libero e lo colpì con più forza possibile, perforando l'acciaio temprato come se fosse di legno marcio. Grazie ai calli sulle nocche, non provò alcun dolore.
La forza del colpo scaraventò il nano contro la parete opposta. La testa ciondolante sull'osso del collo rotto, cadde al suolo come una marionetta a cui siano stati tagliati i fili.
Eragon estrasse la mano dal foro irregolare nello scudo, graffiandosi con il metallo ritorto, e sfoderò il coltello da caccia.
Un attimo dopo l'ultimo dei nani vestiti di nero gli si avventò addosso. Eragon schivò il suo pugnale due, tre volte, e infine gli trapassò la manica imbottita, provocandogli un taglio dal gomito al polso. Il nano sibilò di dolore, gli occhi azzurri inferociti sotto la maschera di tessuto. Gli assestò una serie di affondi: il suo pugnale fischiava nel vuoto così veloce da essere quasi invisibile, e infatti Eragon dovette balzare via per evitare quella lama mortale. Il nano non si arrese. Eragon riuscì a schivarlo per diverse iarde, poi nel tentativo di aggirare un cadavere inciampò, finì contro una parete ferendosi la spalla e cadde.
Con una risata malvagia, il nano balzò, abbassando il pugnale verso il petto indifeso di Eragon che, levando un braccio nel futile tentativo di proteggersi, rotolò lungo il corridoio. Sapeva bene di avere esaurito le sue riserve di fortuna e di non poter più fuggire.
Fatto un giro su se stesso, si ritrovò faccia a faccia con il nano e scorse il pallido pugnale abbattersi su di lui come un fulmine dal cielo. Poi, con suo grande stupore, la punta della lama sfregò contro una delle lanterne senza fiamma montate alle pareti. Eragon si voltò e fuggì prima di vedere che cosa sarebbe accaduto, ma un istante dopo gli parve che una mano incandescente lo colpisse da dietro, scaraventandolo per una ventina di piedi lungo il corridoio, contro lo spigolo di un arco. L'urto gli provocò una nuova serie di tagli e ferite. Un boato lo assordò; come se qualcuno gli infilasse delle schegge nei timpani. Eragon si coprì le orecchie con le mani, si rannicchiò e prese a ululare.
Quando il frastuono e il dolore furono cessati, abbassò le mani e si rimise in piedi barcollando, stringendo i denti via via che le ferite si destavano con una miriade di sensazioni poco piacevoli. Stordito e confuso, osservò il luogo dov'era avvenuta l'esplosione.
Il corridoio era annerito di fuliggine per un tratto di almeno dieci piedi. Morbidi fiocchi di cenere fluttuavano nell'aria, calda come all'interno di una forgia accesa. Il nano che aveva tentato di colpirlo giaceva a terra tra gli spasmi, il corpo ricoperto di ustioni. Una convulsione, un'altra ancora, e poi giacque immobile. Le tre guardie di Eragon erano state scaraventate fin dove arrivava la fuliggine. Le vide alzarsi a tentoni, le orecchie e le bocche spalancate che sanguinavano, le barbe bruciacchiate e scompigliate. L'orlo delle cotte era incandescente, ma a quanto pareva il rivestimento di pelle sotto l'armatura li aveva protetti dal calore.
Eragon fece un passo avanti, poi si fermò e gemette per una lancinante fitta di dolore in mezzo alle scapole. Cercò di ruotare il braccio all'indietro per verificare l'entità della ferita, ma più la pelle si tendeva più il dolore diventava insopportabile. Sul punto di perdere i sensi, si appoggiò alla parete. Guardò di nuovo il nano carbonizzato. Temo di avere un'ustione del genere sulla schiena.
Si sforzò di concentrarsi e recitò due degli incantesimi per guarire le bruciature che gli aveva insegnato Brom durante il loro viaggio. Quando cominciarono a fare effetto, fu come se dell'acqua fredda gli scorresse sulla schiena, alleviando il bruciore. Trasse un sospiro di sollievo e si raddrizzò.
«Siete feriti?» chiese ai soldati che avanzavano verso di lui zoppicando.
Il primo nano si incupì, si toccò l'orecchio destro e scosse la testa.
Eragon imprecò a fior di labbra e solo allora si accorse che non poteva sentirlo. Attingendo di nuovo alle scorte di energia del suo corpo, pronunciò un incantesimo per restituire l'udito a tutti. Mentre la magia volgeva al termine, un prurito irritante gli si insinuò nelle orecchie per poi svanire insieme all'incantesimo.
«Siete feriti?»
Il nano sulla destra, un soldato corpulento con la barba biforcuta, tossì e sputò un grumo di sangue rappreso, poi grugnì: «Niente che il tempo non possa curare. E tu, Ammazzaspettri?»
«Sopravviverò.»
Tastando il terreno a ogni passo, Eragon si avventurò nell'area annerita e si inginocchiò accanto a Kvîstor, sperando di poter salvare il nano dalla stretta della morte, ma dopo aver contemplato di nuovo le sue ferite capì che era impossibile.
Chinò il capo, amareggiato dal ricordo del recente spargimento di sangue. Si rialzò. «Perché la lanterna è esplosa?»
«Sono piene di calore e di luce, Argetlam, e se si rompono tutto fuoriesce all'istante. Quando succede è meglio non farsi trovare nei paraggi» rispose una delle guardie.
Indicando i cadaveri degli assalitori, Eragon chiese: «Sapete a quale clan appartengono?»
Il nano con la barba biforcuta rovistò tra i vestiti e poi esclamò: «Barzûl! Non portano insegne riconoscibili, Argetlam, ma indossano questo.» Mostrò un braccialetto di crini di cavallo intrecciato e luccicanti gemme lisce di ametista.
«Che cosa significa?»
«Questa particolare varietà di ametista» spiegò il nano, picchiettando su una delle gemme con un'unghia sporca di fuliggine «si trova solo in quattro punti dei Monti Beor, tre dei quali appartengono all'Az Sweldn rak Anhûin.»
Eragon si accigliò. «È stato Grimstborith Vermûnd a ordinare questo attacco?»
«Non posso dirlo con certezza, Argetlam. Forse questi braccialetti sono stati lasciati da un altro clan per far ricadere la colpa dell'aggressione su Vermûnd. Ma... se dovessi, scommetterei un carico d'oro che i responsabili sono gli Az Sweldn rak Anhûin.»
«Che siano maledetti, chiunque siano» mormorò Eragon. Per far cessare il tremore alle mani strinse i pugni. Con lo stivale scostò uno dei pugnali multicolori degli assassini. «Gli incantesimi che proteggevano queste armi e quegli... quegli uomini...» - li indicò con un cenno del capo - «... sì, insomma, uomini, nani, qualunque cosa siano, devono aver richiesto un'enorme quantità di energia, e non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere complessa la formula magica. Pronunciarla dev'essere stato difficile e pericoloso...» Eragon fissò le guardie a una a una e poi disse: «Non lascerò che questo attacco e la morte di Kvîstor rimangano impuniti, lo giuro davanti a voi. Quando scoprirò quale - o quali - clan hanno assoldato questi assassini dalla faccia di sterco, quando avrò appreso i loro nomi, i colpevoli rimpiangeranno di aver solo pensato di colpire me e di conseguenza il Dûrgrimst Ingeitum. Ve lo giuro come Cavaliere dei Draghi e membro effettivo del clan, e se qualcuno ve lo chiede, ripeterò il mio giuramento davanti a chiunque.»
I nani si inchinarono e quello con la barba forcuta ribatté: «Ai tuoi ordini, Argetlam. Onori la memoria di Rothgar con le tue parole.»
Poi un altro aggiunse: «Qualunque clan sia stato, ha violato le leggi dell'ospitalità; ha attaccato un ospite. Definirli sorci sarebbe un complimento; sono menknurlan.» Poi sputò per terra, e gli altri lo imitarono.
Eragon camminò fino ai resti del suo falcione. Si inginocchiò nella fuliggine e con la punta di un dito toccò uno dei pezzi di metallo, seguendone il profilo sbeccato. Devo aver colpito lo scudo e la parete con tanta forza da vanificare perfino l'incantesimo che avevo utilizzato per rafforzare l'acciaio, pensò.
E poi: Mi serve una spada.
Mi serve la spada di un Cavaliere.
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UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA
Il caldo vento del mattino che soffiava sulla pianura, del tutto diverso da quello che soffiava sulle colline, cambiò.
Saphira aggiustò l'angolazione delle ali per compensare il cambio di velocità e di pressione dell'aria che sosteneva il suo peso, migliaia di piedi sopra la terra bagnata dal sole. Chiuse le doppie palpebre per un momento, crogiolandosi nel soffice letto del vento e nel calore dei raggi mattutini che cadevano sul suo lungo corpo sinuoso. Immaginò come la luce facesse scintillare le sue squame, e la meraviglia di quanti la vedevano volare in circolo nel cielo, e canticchiò di piacere, felice, perché sapeva di essere la creatura più bella di tutta Alagaësia. Chi poteva sperare di eguagliare la magnificenza delle sue squame, della sua lunga coda affusolata, delle sue ali, così eleganti e ben fatte, degli artigli ricurvi e delle lunghe zanne bianche con cui poteva spezzare il collo di un bue selvatico in un solo morso? Certo non Glaedr dalle squame d'oro, che aveva perso una zampa in occasione della caduta dei Cavalieri. E nemmeno Castigo o Shruikan, perché erano entrambi schiavi di Galbatorix e la servitù forzata ne aveva distorto la mente. Un drago che non è libero di fare ciò che vuole non è più un drago. E poi erano maschi e per quanto un maschio potesse essere maestoso, non sarebbe mai riuscito a incarnare lo stesso ideale di bellezza. No, era la creatura più meravigliosa di tutta Alagaësia, e così doveva essere.
Saphira si scrollò per l'eccitazione dalla base del collo fino alla punta della coda. Era un giorno perfetto. Il calore del sole la faceva sentire avvolta in un nido di braci. Aveva la pancia piena, il cielo era terso e non doveva occuparsi di null'altro se non di stare in guardia da eventuali nemici desiderosi di combattere, ma lo faceva comunque, per abitudine.
Tanta felicità aveva solo un difetto, ma era un difetto vistoso, e più ci rifletteva più la sua insoddisfazione cresceva; avrebbe voluto che Eragon fosse lì a condividere quella giornata con lei. Grugnì e lanciò a fauci strette una breve fiammata azzurra, riscaldando l'aria davanti a sé, poi serrò la gola, tranciando di netto la corrente di fuoco liquido. Le pizzicava la lingua per via delle fiamme. Quando Eragon, il suo compagno di mente e di cuore, si sarebbe messo in contatto con Nasuada da Tronjheim? Quando le avrebbe chiesto di raggiungerlo? Lei aveva insistito perché obbedisse alla regina e andasse tra quelle montagne, così alte che nemmeno lei riusciva a raggiungerne la vetta, ma era trascorso troppo tempo e ora provava un senso di freddo e vuoto allo stomaco.
È calata un'ombra sul mondo, pensò. Ecco cosa mi ha turbato. Eragon ha un problema. È in pericolo, oppure lo è stato poco fa. E io non posso aiutarlo. Non era un drago selvatico. Da quando il suo uovo si era dischiuso, aveva condiviso la sua vita con Eragon e senza di lui era come se le mancasse metà di se stessa. Se fosse morto perché lei non era lì a proteggerlo, non avrebbe avuto altra ragione di vita se non la vendetta. Sapeva che avrebbe fatto a pezzi i suoi assassini e poi avrebbe sorvolato la nera città del traditore rompiuova che l'aveva tenuta imprigionata per tanti decenni, e avrebbe fatto del suo meglio per ucciderlo, anche se ciò avesse comportato per lei la morte certa.
Saphira grugnì di nuovo e tentò di azzannare un passerotto tanto folle da volare troppo vicino a lei. Lo mancò, e il pennuto schizzò via e continuò per la sua strada indisturbato, inasprendo l'umore già pessimo della dragonessa. Per un momento considerò l'idea di inseguirlo, poi decise che non valeva la pena di affannarsi tanto per quell'insignificante mucchietto di ossa e piume. Non era un granché nemmeno come spuntino.