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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Bah!» sbottò Eragon. «Tasse, cervi... Che c'entra tutto questo con il successore di Rothgar? Sii sincero con me, Orik. Qual è la tua posizione rispetto agli altri capiclan? E fino a quanto si trascinerà questa storia? Ogni giorno che passa diventa sempre più probabile che l'Impero scopra la nostra messinscena e che Galbatorix attacchi i Varden mentre io non sono là a respingere Murtagh e Castigo.»

Orik si pulì la bocca in un angolo della tovaglia. «La mia posizione è abbastanza salda. Nessun grimstborithn gode del sostegno necessario per chiedere il voto, ma io e Nado abbiamo il maggior seguito. Se uno di noi riuscirà a conquistarsi altri due o tre clan, la bilancia penderà subito a suo favore. Havard ha già molti dubbi. Non sarà così difficile convincerlo a passare dalla nostra parte. Stasera spezzeremo il pane insieme a lui e vedrò che cosa posso fare per incoraggiarlo.» Orik divorò un boccone di fungo arrosto, poi continuò: «Quanto alla fine della consulta, se siamo fortunati ci vorrà ancora una settimana, altrimenti due.»

Eragon imprecò a fior di labbra. Era così teso che aveva lo stomaco sottosopra, che brontolava e minacciava di rigettare il pasto che aveva appena consumato.

Orik tese un braccio e lo afferrò per un polso. «Non c'è niente che tu o io possiamo fare per accelerare la decisione, dunque non turbarti. Concentrati sulle cose che puoi cambiare e lascia che il resto faccia il suo corso, eh?» Poi lo lasciò andare.

Eragon espirò lentamente e appoggiò gli avambracci sul tavolo. «Lo so. È che abbiamo pochissimo tempo, e se dovessimo fallire...»

«Quel che sarà, sarà» rispose Orik, poi sorrise, ma aveva lo sguardo triste e vuoto. «Nessuno può sfuggire al fato.»

«Non puoi prendere il trono con la forza? So che non ci sono abbastanza truppe a Tronjheim, ma con il mio aiuto chi potrebbe fermarti?»

Orik si bloccò con il coltello a mezz'aria tra il piatto e la bocca, poi scosse il capo e riprese a mangiare. Tra un morso e l'altro disse: «Una manovra simile si rivelerebbe disastrosa.»

«Perché?»

«C'è davvero bisogno che te lo spieghi? Tutto il popolo ci si rivolterebbe contro e così, invece di assumere il controllo della nazione, erediterei un titolo senza valore. Se ciò dovesse accadere, non scommetterei nemmeno una spada sbeccata che arriveremmo a vedere il volgere dell'anno.»

«Ah.»

Orik non aggiunse altro finché non ebbe terminato il cibo che aveva nel piatto. Poi scolò una lunga sorsata di birra, ruttò e riprese: «Siamo in bilico su un ventoso sentiero di montagna, su entrambi i lati del quale si apre un dirupo profondo un miglio. Tra noi sono in molti a odiare e temere i Cavalieri dei Draghi a causa dei crimini che Galbatorix, i Rinnegati e ora anche Murtagh hanno commesso contro il nostro popolo. E sono in molti a temere il mondo oltre le montagne, i tunnel e le grotte in cui ci nascondiamo.» Fece ruotare il boccale sul tavolo. «Nado e l'Az Sweldn rak Anhûin non fanno che peggiorare la situazione. Giocano sulla paura dei loro affiliati e ne avvelenano la mente contro di te, i Varden e re Orrin... L'Az Sweldn rak Anhûin è l'incarnazione di tutto ciò che bisognerà eliminare se dovessi diventare re. In un modo o nell'altro dobbiamo trovare un sistema per dissipare le preoccupazioni loro e di quelli come loro: anche una volta sul trono dovrò ascoltarli per non perdere l'appoggio dei clan. Per quanto forte, un re o una regina è sempre alla mercé dei clan, così come i grimstborithn sono alle mercé delle famiglie appartenenti al loro clan.» Orik rovesciò indietro la testa e scolò la birra, poi posò la tazza sul tavolo con uno schiocco sonoro.

«C'è qualcosa che potrei fare, qualche tradizione da onorare o qualche cerimonia da officiare per placare le ire di Vermûnd e dei suoi seguaci?» chiese Eragon, riferendosi al capo dell'Az Sweldn rak Anhûin. «Ci deve essere qualcosa che posso fare per mettere a tacere i loro sospetti e porre fine a questa faida.»

Orik rise e si alzò. «Potresti morire.»

L'indomani mattina presto, Eragon si sedette contro la parete ricurva della stanza circolare sotto il centro di Tronjheim insieme a un gruppo scelto di guerrieri, consiglieri, servitori e membri delle famiglie dei capiclan che avevano il privilegio di assistere alla consulta. I capiclan erano seduti su scranni intarsiati di legno massiccio intorno a un tavolo circolare che, come la maggior parte degli oggetti pregiati nei livelli più bassi della cittàmontagna, recava l'insegna di Korgan e dell'Ingeitum.

Al momento aveva la parola Gàldhiem, il grimstborith del Drûmgrimst Feldûnost. Era basso, perfino per un nano - non superava i due piedi di altezza - e indossava una veste ricamata d'oro, rosso scuro e blu notte. A differenza dei membri dell'Ingeitum, non si tagliava né si intrecciava la barba, che gli penzolava sul petto come un intrico di rovi. In piedi sulla sedia, picchiò il pugno guantato sul tavolo lustro e ruggì: «Eta! Narho ûdim etal os isû vond! Narho ûdim etal os formvn mendûnost brakn, az Varden, hrestvog dûr grimstnzhadn! Az Jurgenvren qathrid né dômar oen etal...»

«No» sussurrò nell'orecchio a Eragon il suo interprete, un certo Hûndfast. «Non permetterò che accada. Non lascerò che quegli sciocchi imberbi dei Varden distruggano il nostro paese. La Guerra dei Draghi ci ha indeboliti e non...»

Annoiato, Eragon trattenne a stento uno sbadiglio. Passò in rassegna uno per uno i nani seduti al tavolo di granito. Si soffermò su Nado, che aveva il volto tondo e i capelli biondo chiaro e annuiva in segno di approvazione al discorso tonante di Gàldhiem; poi su Havard, che si puliva con la punta di un pugnale le unghie delle due dita rimastegli nella mano destra; su Vermûnd, imperscrutabile dietro il velo viola, a parte la fronte corrucciata; su Gannel e Ûndin, che bisbigliavano tra loro mentre Hadfala, una nana di una certa età a capo del Dûrgrimst Ebardac, il terzo membro dell'alleanza di Gannel, guardava accigliata la pergamena fitta di rune che portava con sé a ogni incontro; infine su Manndraâth, il capo del Dûrgrimst Ledwonnû, seduto di profilo, il lungo naso adunco in bella mostra; su Thordris, la grimstcarvlorss del Drûmgrist Nagra, di cui vedeva solo gli ondulati capelli rossicci, raccolti in una treccia lunga due volte lei che le scendeva oltre le spalle e si raccoglieva sul pavimento; sul retro della testa di Orik, seduto di lato; su Freowin, grimstborith del Dûrgrimst Gedthrall, un nano molto corpulento con gli occhi fissi sul ceppo di legno che stava intagliando a forma di corvo ingobbito; poi su Reidamar, capo del Dûrgrimst Urzhad che rispetto a Freowin era asciutto e in ottima forma, aveva gli avambracci muscolosi e indossava usbergo di maglia ed elmo a ogni riunione; infine su Íorûnn, che possedeva una bella carnagione nocciola scuro sciupata da una sottile cicatrice a forma di mezzaluna sopra lo zigomo sinistro; che aveva i capelli setosi e lucenti raccolti sotto un elmo d'argento cesellato a forma di testa di lupo ringhioso; che indossava una veste vermiglia e una collana di scintillanti smeraldi incastonati in quadrati d'oro su cui erano incisi i tratti di arcane rune.

Íorûnn si accorse che Eragon la stava guardando e subito le si dipinse sulle labbra un sorriso pigro. Con voluttuosa naturalezza ammiccò verso di lui, chiudendo uno degli occhi a mandorla per un paio di istanti.

Eragon arrossì; si sentiva pizzicare le guance e gli scottava la punta delle orecchie. Distolse lo sguardo e lo posò di nuovo su Gàldhiem, ancora impegnato a pontificare, il petto in fuori simile a quello di un piccione impettito.

Come gli aveva chiesto Orik, rimase impassibile per tutta la durata dell'incontro, nascondendo le proprie reazioni ai presenti. Quando la riunione si interruppe per il pasto, raggiunse di corsa Orik e gli sussurrò all'orecchio, così che nessuno potesse sentire: «Non aspettarmi al tuo tavolo. Ne ho abbastanza di stare seduto a sentire fandonie. Vado a esplorare i tunnel sotterranei.»

Orik annuì, distratto, poi gli disse: «Fa' come vuoi. Cerca solo di essere qui alla ripresa dei lavori; per quanto possano essere noiose queste discussioni, non sarebbe conveniente se le perdessi.»

«Come vuoi.»

Eragon scivolò fuori dalla sala insieme alla calca di nani ansiosi di pranzare e si riunì alle quattro guardie in corridoio, che stavano giocando a dadi con alcuni guerrieri oziosi appartenenti ad altri clan. Con le guardie al seguito, Eragon prese una direzione a caso e si lasciò guidare dai piedi; intanto architettava diversi metodi per unire le varie fazioni avversarie in una sola contro Galbatorix. Esasperato, arrivò alla conclusione che erano tutti troppo forzati: era assurdo credere che avrebbero funzionato.

Eragon prestò ben poca attenzione ai nani che incontrava nei tunnel, a parte bofonchiare qualche saluto di tanto in tanto, come richiedevano le minime regole di cortesia, fiducioso che Kvîstor avrebbe saputo riportarlo nella sala della consulta. Pur non osservando l'ambiente circostante nei minimi dettagli, seguì ogni creatura vivente che riusciva a sentire nel raggio di parecchie centinaia di piedi, fino al più minuscolo ragno dietro la ragnatela nell'angolo di una stanza, per non farsi sorprendere.

Quando finalmente si fermò, fu stupito di ritrovarsi nella stessa stanza polverosa che aveva scoperto nei vagabondaggi del giorno prima. A sinistra c'erano gli stessi cinque archi neri che conducevano a caverne sconosciute, a destra il bassorilievo che ritraeva la testa e le spalle di un orso inferocito. Divertito da quella coincidenza, si avvicinò alla scultura di bronzo e guardò le fauci scintillanti dell'animale, chiedendosi che cosa l'avesse riportato proprio lì.

Un momento dopo sbirciò nel corridoio che si apriva oltre l'arco centrale. L'angusto passaggio era privo di lanterne e sprofondava nel dolce oblio dell'oscurità. Espandendo la mente, Eragon ispezionò tutto quel tunnel e parecchie altre sale abbandonate su cui si apriva. Gli unici abitanti erano cinque o sei ragni e una moltitudine di falene, millepiedi e grilli ciechi. «C'è nessuno?» gridò Eragon, poi tese l'orecchio mentre il corridoio gli restituiva l'eco della sua voce via via più bassa. «Kvîstor, in quest'ala antica non vive nessuno?» chiese alla guardia.

Il nano rispose: «Sì, qualcuno c'è. Qualche bizzarro knurlan, per esempio, che preferisce la solitudine al tocco della mano di una moglie o al suono di una voce amica. Se ti ricordi, Argetlam, fu proprio uno di loro ad avvisarci dell'arrivo degli Urgali. Inoltre, benché non ne parliamo spesso, qui sotto vive chi ha infranto le leggi della nostra terra ed è stato bandito dal proprio capoclan, a rischio di pena di morte per un anno o, se l'offesa è grave, per il resto della vita. Per noi sono come morti viventi; se li incrociamo fuori dalle nostre terre, li evitiamo, e se li scopriamo entro i nostri confini, li impicchiamo.»

Quando Kvîstor ebbe finito di parlare, Eragon gli fece capire che era pronto per andarsene. La guardia si mise alla testa del gruppo e il Cavaliere la seguì oltre la porta dalla quale erano entrati, con gli altri tre alle loro spalle. Non avevano percorso più di venti piedi quando Eragon sentì dietro di sé un flebile rumore di passi strascicati, così sommesso che Kvîstor non parve nemmeno sentirlo.

Si voltò. Alla luce ambrata delle lanterne senza fiamma montate su entrambi i lati del corridoio vide correre verso di loro sette nani vestiti di nero, il viso coperto da maschere anch'esse nere e i piedi avvolti in stracci, a una velocità che pensava fosse di dominio esclusivo degli elfi, degli Spettri e di altre creature nel cui sangue scorre la magia. Nella destra tenevano lunghi pugnali affilati con pallide lame che scintillavano multicolori, come prismi, e nella sinistra scudi di metallo dalla cui borchia si levavano punte aguzze. Le loro menti, come quelle dei Ra'zac, erano inaccessibili.

Saphira!

fu il suo primo pensiero; poi si ricordò che era solo.

Voltandosi per fronteggiare i nani vestiti di nero, Eragon portò la mano all'elsa del falcione e fece per avvisare i suoi compagni.

Troppo tardi.

Mentre la prima parola gli risuonava ancora in gola, tre di quegli strani nani afferrarono l'ultima delle guardie e la colpirono con i pugnali scintillanti. Più veloce di ogni discorso o pensiero consapevole, Eragon si immerse nel flusso della magia con tutto se stesso e senza affidarsi all'antica lingua per dare forma al suo incantesimo modificò la trama del mondo in uno schema a lui più gradito. Le tre guardie tra lui e gli assalitori, quasi attirate da fili invisibili, gli precipitarono ai piedi, incolumi ma disorientate.

Eragon sussultò per l'improvviso calo di forza.

Due nani vestiti di nero gli si avventarono contro e cercarono di colpirlo al ventre con i loro pugnali assetati di sangue. Brandendo il falcione, schivò entrambi i colpi, sbalordito dalla rapidità e dalla ferocia degli aggressori. Una delle sue guardie balzò in avanti, gridando e facendo roteare l'ascia contro i potenziali assassini. Prima che Eragon potesse afferrarla per l'usbergo di maglia e metterla al sicuro, una lama bianca, che si contorceva come una fiamma spettrale, le trapassò il collo muscoloso. Mentre il nano cadeva, Eragon scorse il suo viso e rimase sconvolto nello scoprire che si trattava di Kvîstor; la gola, squarciata dal pugnale, brillava di un liquido rosso.

Non posso permettere loro di farmi nemmeno un graffio, si disse Eragon.

Infuriato per la morte di Kvîstor, colpì l'assassino così in fretta che non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi e gli crollò ai piedi senza vita.

«Restate dietro di me!» gridò Eragon con tutta la sua forza alle altre guardie.

Via via che la sua voce riverberava lungo il corridoio, sul pavimento e sulle pareti si aprirono sottili crepe e dal soffitto caddero scaglie di pietra. I nani all'attacco esitarono di fronte al potere sconfinato della sua voce; poi ripresero l'offensiva.

Eragon indietreggiò di parecchie iarde in modo da avere abbastanza spazio per reagire senza essere intralciato dai cadaveri, poi si accucciò e brandì il falcione facendolo oscillare avanti e indietro, come un serpente pronto ad attaccare. Il cuore gli batteva al doppio della velocità e nonostante il combattimento fosse appena cominciato già gli mancava il respiro.

Il corridoio era largo otto piedi, abbastanza perché i sei nemici che restavano lo potessero attaccare tutti insieme. Si separarono: due tentarono di colpirlo ai fianchi, uno a destra e l'altro a sinistra, mentre il terzo si lanciò alla carica, colpendolo alle braccia e alle gambe a velocità frenetica.

Non volendo affrontare quei nani come avrebbe fatto se avessero brandito normali spade, Eragon si chinò per prendere lo slancio e balzò in avanti, poi fece una mezza giravolta e colpì il soffitto con i piedi. Con un'altra mezza giravolta atterrò carponi una iarda dietro di loro. Mentre gli si scagliavano contro, Eragon avanzò di un passo e li decapitò con un solo colpo di rovescio.

I pugnali caddero a terra tintinnando un istante prima delle teste.

Superando con un salto i corpi mutilati, Eragon si volse mentre era ancora in volo e atterrò nel punto da cui era partito.

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