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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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In apparenza Elva non fu turbata né dal trambusto che aveva provocato né dalle lame puntate contro di lei. Abbassò il capo e guardò Eragon come se fosse uno strano insetto che aveva sorpreso a strisciare lungo il bordo della sedia, poi sorrise con un'espressione così dolce e innocente che il Cavaliere si chiese perché non aveva riposto più fiducia in lei. Con voce suadente come il miele caldo, la bimba gli disse: «Eragon, basta. Se pronunci il tuo incantesimo mi farai ancora del male come l'altra volta. E tu non lo vuoi. Altrimenti ogni sera, quando ti coricherai, penserai a me e il ricordo del torto commesso ti tormenterà. Ciò che stavi per fare era una cosa malvagia, Eragon. Sei forse il giudice del mondo? Vuoi condannarmi anche se non ho commesso alcun crimine solo perché non approvi la mia condotta? Quella strada porta al depravato piacere di controllare gli altri per la propria soddisfazione. Galbatorix sarebbe felice di te.»

Poi lo lasciò andare, ma Eragon era troppo sconvolto per muoversi. L'aveva colpito nel profondo e lui non aveva argomentazioni con cui difendersi, perché le domande e le osservazioni di Elva erano le stesse che rivolgeva a se stesso. Al pensiero che la bambina l'avesse compreso così bene sentì un brivido gelido lungo la schiena. «Ti sono grata comunque, Eragon, perché oggi sei venuto a porre rimedio al tuo errore» continuò Elva. «Non tutti sono disposti ad ammettere e ad affrontare le proprie mancanze. Tuttavia non ti sei conquistato i miei favori. Hai pareggiato il conto meglio che potevi, ma era il minimo che avrebbe fatto qualsiasi persona rispettabile. Non mi hai risarcito per tutto ciò che ho dovuto sopportare; è impossibile. Dunque, la prossima volta che le nostre strade si incroceranno, Eragon Ammazzaspettri, non contare su di me, né come amica né come nemica. Provo sentimenti contrastanti, Cavaliere; sono pronta tanto a odiarti quanto ad amarti. E molto dipende da te... Saphira, tu mi hai dato la stella sulla fronte e sei sempre stata gentile con me. Sono e sarò la tua fedele serva.»

Levando il mento per sfruttare al massimo la sua altezza di soli tre piedi e mezzo, Elva passò in rassegna l'interno del padiglione. «Eragon, Saphira, Nasuada... Angela. Buona giornata a tutti voi.» Poi si avviò di corsa verso l'ingresso e i Falchineri si fecero da parte per lasciarla uscire.

Eragon si alzò, incerto sulle gambe. «Che razza di mostro ho creato?» I due Falchineri Urgali si toccarono la punta delle corna per scacciare la sventura. «Mi dispiace. A quanto pare non faccio che complicare le cose a te e a tutti noi» disse a Nasuada.

Tranquilla come un lago di montagna, la regina si aggiustò la veste prima di rispondere: «Non importa. È solo che il gioco si è fatto un po' più complicato del previsto, tutto qui. E c'era da aspettarselo, visto che ci stiamo avvicinando sempre più a Urû'baen e a Galbatorix.»

Un istante dopo Eragon sentì un sibilo nell'aria, come se stesse per essere colpito da un oggetto in volo. Trasalì, ma, per quanto rapido, non fece in tempo a evitare il sonoro schiaffo che gli fece voltare la testa da una parte e lo scaraventò barcollando contro una sedia. Rotolò al di là e poi si rialzò, il braccio sinistro levato per respingere un secondo schiaffo, il destro caricato all'indietro e pronto a intervenire con il coltello da caccia che nel frattempo aveva estratto dalla cintola. Con sua grande sorpresa, vide che era stata Angela a schiaffeggiarlo. Gli elfi erano riuniti pochi pollici dietro l'indovina, pronti a immobilizzarla se l'avesse attaccato di nuovo e a scortarla via se Eragon l'avesse ordinato. Solembum era ai suoi piedi, denti e artigli sfoderati, il pelo ritto sulla schiena.

In quel preciso istante, a Eragon degli elfi non importava nulla. «Perché mi hai colpito?» le domandò, e trasalì, perché parlando la ferita che aveva sul labbro di sotto si era aperta un po' di più. Eragon sentì sulla lingua il sapore metallico del sangue caldo.

Angela scosse la testa. «Adesso mi toccherà passare i prossimi dieci anni a insegnare a Elva come comportarsi! Non è questo che avevo in mente!»

«Insegnarle come comportarsi?» esclamò Eragon. «Non te lo permetterà. Te lo impedirà con la stessa facilità con cui ha fermato me.»

«Mmm. Non credo proprio. Non sa come importunarmi né ferirmi. L'ho capito il giorno in cui ci siamo conosciute.»

«Vuoi spiegarlo anche a noi?» chiese Nasuada. «Dopo gli ultimi sviluppi, mi pare prudente trovare un modo per proteggerci da Elva.»

«No, non credo che lo farò» rispose Angela; poi anche lei uscì dal padiglione a grandi falcate e Solembum la seguì furtivo, facendo ondeggiare la coda con estrema grazia.

Gli elfi rinfoderarono le spade e indietreggiarono fino a trovarsi a una certa distanza dalla tenda.

Nasuada si massaggiò le tempie con movimenti circolari. «Ah, la magia!» imprecò.

«Già, la magia» convenne Eragon.

Quando Greta si gettò a terra e cominciò a piangere e a lamentarsi strappandosi i radi capelli, i due sobbalzarono. «Oh, la mia bambina! Ho perso il mio agnellino! L'ho perso! Cosa ne sarà di lei, tutta sola? Oh, povera me, il mio fiorellino mi ha cacciata. Che vergognosa ricompensa per il mio lavoro. Mi sono spaccata la schiena come una schiava per lei. Che mondo duro e crudele, non fa che renderti infelice.» Gemette. «La mia prugnetta. La mia rosellina. Il mio pisellino dolce. Se n'è andata! Chi baderà a lei? Ammazzaspettri! La proteggerai?»

Eragon la prese per un braccio e la aiutò a rialzarsi, poi per consolarla le promise che lui e Saphira avrebbero tenuto d'occhio Elva. Se ci riusciamo, disse Saphira a Eragon, perché potrebbe tentare di infilarci un coltello tra le costole.

DONI D'ORO

Eragon era accanto a Saphira, a una cinquantina di iarde dal padiglione rosso di Nasuada. Felice di essersi liberato della confusione scoppiata attorno a Elva, alzò lo sguardo al terso cielo turchino e si massaggiò le spalle, già stanco per gli eventi della giornata. Saphira voleva raggiungere in volo il fiume Jiet e fare un bagno nelle sue placide acque profonde; lui invece era meno sicuro sul da farsi. Doveva ancora finire di oliare l'armatura, prepararsi per il matrimonio di Roran e Katrina, andare a far visita a Jeod, trovare una spada, e poi... Si grattò il mento.

Quanto starai via? le chiese.

Saphira dispiegò le ali, pronta a spiccare il volo. Qualche ora. Ho fame. Quando sarò pulita, catturerò due o tre di quei cervi paffuti che ho visto pascolare lungo la riva ovest del fiume, anche se i Varden ne hanno abbattuti parecchi. Forse prima di trovare qualche preda che valga la pena di cacciare dovrò volare cinque o sei leghe verso la Grande Dorsale.

Non allontanarti troppo, la mise in guardia lui. Potresti fare spiacevoli incontri con l'Impero.

D'accordo, ma se per caso dovessi imbattermi in un solitario manipolo di soldati... Si leccò i baffi. Un veloce combattimento non mi dispiacerebbe. Gli esseri umani sono gustosi quanto i cervi.

Saphira, dimmi che stai scherzando...

Gli occhi della dragonessa brillarono. Forse sì, forse no. Dipende se indossano l'armatura o meno. Detesto addentare il metallo, ed estrarre il cibo dal guscio è altrettanto fastidioso.

Capisco. Eragon scoccò un'occhiata all'elfo più vicino, una donna alta dai capelli argentei. Gli elfi non vogliono che tu vada da sola. Ti spiace caricartene in groppa un paio? Altrimenti non riusciranno mai a starti al passo.

No. Oggi voglio andare a caccia da sola! Battendo le ali, prese il volo, librandosi in alto nel cielo. Mentre virava verso ovest, diretta al fiume Jiet, la sua voce risuonò nella mente di Eragon, affievolita dalla distanza. Al mio ritorno ce lo facciamo un voletto insieme, vero?

Sì, quando tornerai andremo a fare un voletto insieme, solo tu e io. Il piacere che provò la dragonessa a quella proposta lo fece sorridere mentre la osservava sfrecciare lontano.

Vedendo Blödhgarm correre verso di lui, svelto come un gatto selvatico, Eragon abbassò lo sguardo. L'elfo gli chiese dove stesse andando Saphira e non parve felice della spiegazione; tuttavia, se anche aveva qualcosa da obiettare, lo tenne per sé.

«D'accordo» si disse Eragon mentre Blödhgarm tornava dai compagni. «Prima le cose veramente importanti.»

Attraversò l'accampamento e raggiunse un ampio spiazzo quadrato in cui una trentina di Varden si stavano esercitando con un vasto assortimento di armi. Con suo grande sollievo, erano troppo occupati per accorgersi della sua presenza. Si accovacciò e appoggiò la mano destra sulla terra battuta, col palmo rivolto verso l'alto. Scelse con cura le parole nell'antica lingua, poi mormorò: «Kuldr, rïsa lam iet un malthinae unin böllr.»

Benché il suolo sembrasse intatto, sentì l'incantesimo filtrare sottoterra per centinaia di piedi in ogni direzione. Non più di cinque secondi dopo, la superficie del terreno cominciò a ribollire come l'acqua in una pentola lasciata sul fuoco troppo a lungo e si ricoprì di una brillante patina gialla. Eragon aveva imparato da Oromis che la terra conteneva sempre minuscole particelle quasi di ogni elemento, troppo piccole e disperse per poter essere estratte con i metodi tradizionali; pero un mago esperto poteva riuscirci, seppur con grande sforzo.

Dal centro della macchia gialla di terra si levò un getto arcuato di polvere luccicante che gli ricadde sul palmo. Ogni granello scintillante si fuse con quello accanto fino a formare tre sfere d'oro zecchino, ciascuna delle dimensioni di una grossa nocciola.

«Letta» disse Eragon, e pose fine alla magia. Si accovacciò sui talloni e si appoggiò con le mani al terreno, sopraffatto dalla stanchezza. La testa gli ciondolava in avanti; socchiuse le palpebre perché gli si annebbiava la vista. Trasse un profondo respiro e ammirando i globi dorati che aveva nella mano, lisci come specchi, attese che gli tornassero le forze. Che meraviglia, pensò. Se solo ne fossi stato capace anche quando vivevamo nella Valle Palancar... Quasi quasi, però, sarebbe stato più facile estrarre l'oro a colpi di piccone. Era da quando ho trasportato Sloan giù dalla vetta dell'Helgrind che un incantesimo non mi prosciugava tanto.

Infilò l'oro in tasca e riprese il cammino. Trovò la tenda delle cucine e consumò un lauto pasto; del resto ne aveva bisogno, dopo aver evocato tanti incantesimi complessi. Poi andò verso le tende degli abitanti di Carvahall. Nell'avvicinarsi udì un clangore metallico. Incuriosito, procedette in quella direzione.

Aggirò tre carri disposti in fila davanti all'imbocco di un vialetto e vide Horst in mezzo a due tende, distanti fra loro una trentina di metri, che reggeva una sbarra di metallo lunga cinque piedi. L'estremità opposta, di un vivo rosso ciliegia, era posata su un'immensa incudine di duecento libbre issata sopra un gran ceppo basso. Su entrambi i lati, i due corpulenti figli del fabbro, Albriech e Baldor, facevano roteare la mazza sopra la testa in ampi cerchi e poi colpivano l'acciaio a turno. Dietro di loro ardeva una forgia improvvisata.

Il fragore dei colpi era così assordante che Eragon rimase a debita distanza finché i due ragazzi non ebbero finito di appiattire e modellare il metallo e Horst non ebbe rimesso la sbarra nella forgia. Agitando il braccio libero, l'uomo lo salutò a gran voce: «Salute, Eragon!» Poi alzò un dito, anticipando la risposta di Eragon, e si tolse un tappo di feltro dall'orecchio sinistro. «Ah, adesso sì che ci sento. Che ci fai da queste parti?» Mentre parlava, i suoi figli presero dell'altro carbone da un secchio e lo gettarono nel fuoco, poi cominciarono a riordinare pinze, martelli, stampi e altri utensili sparsi a terra. Erano tutti e tre madidi di sudore.

«Volevo capire da dove proveniva questo frastuono» spiegò Eragon. «Avrei dovuto immaginarlo che eri tu. Solo un abitante di Carvahall potrebbe fare un simile fracasso!»

Horst rise, puntando la folta barba a forma di badile verso il cielo, finché quello sfogo di ilarità non si fu esaurito. «Ah, così stuzzichi il mio orgoglio. Proprio tu, che ne sei la prova vivente...»

«Lo siamo tutti» rispose Eragon. «Tu, io, Roran, chiunque venga da Carvahall. Quando ce ne saremo andati, Alagaësia non sarà più la stessa.» Indicò la forgia e le altre attrezzature. «Che ci fai qui? Pensavo che tutti i fabbri fossero...»

«Sì, in effetti è così, Eragon. Tuttavia, ho convinto il capitano responsabile di questa parte dell'accampamento a lasciarmi lavorare più vicino alla nostra tenda.» Horst strattonò l'estremità della barba. «Per via di Elain, sai com'è... Questo bambino la sta facendo penare e considerato ciò che abbiamo passato per arrivare fin qui non c'è da stupirsene. È sempre stata delicata, e adesso ho paura che... be'...» Si scrollò come un orso che si libera dalle mosche. «Magari, quando ti capita, potresti darle un'occhiata e vedere se riesci ad alleviarle il dolore.»

«Contaci» promise Eragon.

Con un grugnito di soddisfazione, Horst estrasse metà sbarra dalla brace per valutare meglio la colorazione dell'acciaio, poi la ricacciò nel fuoco e fece un cenno con il mento a Albriech. «Su, pompa un po' d'aria. È quasi pronta.» Mentre il figlio azionava il mantice di cuoio, Horst fece un gran sorriso a Eragon. «Quando ho detto ai Varden che lavoro facevo, erano felici come se fossi stato anch'io un Cavaliere dei Draghi. Sai, qui i fabbri scarseggiano. E mi hanno perfino procurato gli attrezzi che mi mancavano, compresa quell'incudine. Quando lasciammo Carvahall, piansi all'idea che non avrei più potuto esercitare il mio mestiere. Non sono in grado di forgiare spade, ma qui... ah, qui c'è abbastanza lavoro da tenere me, Albriech e Baldor occupati per i prossimi cinquant'anni. La paga è quella che è, ma almeno non siamo appesi a testa in giù nei sotterranei di Galbatorix.»

«E nemmeno mangiucchiati dai Ra'zac» osservò Baldor.

«Giusto, ben detto.» Horst fece cenno ai figli di riprendere le mazze e poi, portandosi il tappo di feltro accanto all'orecchio sinistro, disse: «Ti serve altro, Eragon? L'acciaio è pronto, non posso lasciarlo nel fuoco un secondo di più, altrimenti si piega.»

«Sai dov'è Gedric?»

«Gedric?» La ruga tra le sopracciglia di Horst si fece più profonda. «Credo che si stia esercitando con spada e lancia insieme agli altri uomini, laggiù, a circa un quarto di miglio da qui.» Gli indicò la direzione con il pollice.

Eragon lo ringraziò e si avviò. Il ripetitivo clangore metallico riprese, chiaro quanto i rintocchi di una campana, acuto e penetrante come un ago di vetro che fende l'aria. Eragon si tappò le orecchie e sorrise. Lo confortava che la determinazione di Horst non fosse venuta meno, anche se aveva perso casa e ricchezza, e che fosse rimasto quello di prima. Per certi versi la coerenza e la determinazione del fabbro rinnovarono la sua fiducia nel fatto che, se fossero riusciti a detronizzare Galbatorix, alla fine sarebbe tornato tutto al suo posto, e la sua vita e quella degli altri abitanti del villaggio avrebbe riacquistato una parvenza di normalità.

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