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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Non ho mai tregua dai dolori del mondo, né di notte né di giorno. Da quando Eragon mi ha dato la sua benedizione, non ho conosciuto altro che sofferenza e paura, mai felicità o piacere. Le cose più spensierate della vita, quelle che rendono tollerabile l'esistenza, mi sono negate. Mai le ho viste. Mai ho potuto viverle. Intorno a me c'è solo buio. Solo le disgrazie di uomini, donne e bambini nel raggio di un miglio, che mi travolgono come un temporale di mezzanotte. Questa benedizione mi ha privato dell'opportunità di essere come gli altri bambini. Ha costretto il mio corpo, e ancora di più la mia mente, a maturare più in fretta del normale. Eragon potrà anche cancellare questo mio terribile dono e tutti gli obblighi ad agire che l'accompagnano, ma non potrà mai restituirmi ciò che ero un tempo e nemmeno ciò che dovrei essere, almeno non senza distruggere ciò che sono diventata. Sono un mostro, né bambina né adulta, per sempre condannata a essere una reietta. Non sono cieca, sapete? Lo vedo come vi ritraete quando mi sentite parlare.» Scosse il capo. «No, mi state chiedendo troppo. Non continuerò così per il tuo bene, Nasuada, né per quello dei Varden o di tutta Alagaësia, e nemmeno della mia cara mamma, se fosse ancora viva. Non ne vale la pena. Potrei anche vivere da sola, così mi libererei dalle afflizioni degli altri, ma non voglio. No, l'unica soluzione è che Eragon provi a rimediare al suo errore.» Incurvò le labbra in un sorriso ambiguo. «E se non siete d'accordo con me, se pensate che sia stupida ed egoista, allora fareste meglio a ricordare che sono poco più di una neonata in fasce: non ho ancora compiuto due anni. Solo uno sciocco si aspetterebbe che una bambina si sacrifichi per un bene più grande. Bambina o no, comunque, ho preso la mia decisione, e niente di ciò che direte potrebbe convincermi a cambiarla. Non mi piegherò mai al vostro volere. In questo sono come il ferro.»

Nasuada tentò di nuovo di farla ragionare, ma come Elva aveva garantito, il tentativo si rivelò inutile. Alla fine la regina chiese ad Angela, Eragon e Saphira di intervenire. L'erborista si rifiutò, dicendo che non avrebbe potuto trovare parole migliori delle sue; e poi pensava che quella di Elva fosse una scelta personale, che la bambina dovesse fare ciò che voleva senza essere tormentata come un'aquila da uno stormo di ghiandaie. Eragon era più o meno della stessa opinione, ma acconsentì a dirle un'ultima cosa: «Elva, non posso suggerirti ciò che devi fare, perché solo tu puoi deciderlo, ma non respingere la richiesta di Nasuada senza riflettere. Sta cercando di salvarci da Galbatorix e se vogliamo avere qualche possibilità di successo ha bisogno del nostro sostegno. Non vedo nel futuro, ma credo che il tuo dono potrebbe essere l'arma perfetta contro di lui. Potresti prevedere ogni sua mossa. Potresti dirci come respingere le sue schiere. E soprattutto avvertiresti dove è più vulnerabile, dove è più fragile, e potresti dirci che cosa fare per ferirlo.»

«Se vuoi che cambi idea, Cavaliere, dovrai fare di meglio.» «Non voglio che cambi idea» rispose Eragon. «Voglio solo assicurarmi che tu abbia considerato quali implicazioni avrà la tua decisione, e che essa non sia stata troppo affrettata.»

La bambina si agitò un po', ma non rispose.

Poi Saphira le chiese: Che cosa c'è nel tuo cuore, Fronte Lucente?

Elva rispose con dolcezza, senza alcuna malizia. «Ho già detto cosa c'è nel mio cuore, Saphira. Aggiungere altro risulterebbe superfluo.»

Se anche Nasuada era frustrata dall'ostinazione di Elva, non lo diede a vedere, benché avesse un'espressione austera in volto, come richiedeva il tono della discussione. «Non condivido la tua scelta, Elva» le disse, «ma la rispetteremo, perché mi pare ovvio che non c'è modo di persuaderti. Suppongo di non poterti biasimare, poiché non conosco la sofferenza a cui sei esposta ogni giorno, e se fossi al tuo posto è probabile che mi comporterei alla stessa maniera. Eragon, se vuoi...»

Alla richiesta di Nasuada, Eragon si inginocchiò davanti a Elva, che lo trafisse con gli splendenti occhi viola mentre lui le prendeva le mani tra le sue. La pelle della bambina scottava, come se avesse la febbre.

«Le farà male, Ammazzaspettri?» chiese Greta con voce tremante.

«Non dovrebbe, ma non ne sono sicuro. Rompere un incantesimo è un'arte imprecisa, molto più che evocarlo. Proprio per le difficoltà che comporta, i maghi tentano una cosa simile di rado, anzi, non lo fanno quasi mai.»

Le rughe sul viso della vecchia si contrassero per la preoccupazione, poi Greta accarezzò Elva sulla testa e le disse: «Sii forte, prugnetta mia. Sii forte.» Non parve accorgersi dell'occhiataccia irritata che le rifilò la bambina.

Eragon ignorò l'interruzione. «Elva, ascoltami. Ci sono due modi per rompere un incantesimo. Prima di tutto, il mago che l'ha evocato può aprirsi all'energia che alimenta la magia e...»

«Questa è la parte in cui ho sempre avuto problemi» intervenne Angela. «Ecco perché mi affido più a piante, pozioni e talismani, magici già per loro natura, che non agli incantesimi.»

«Se non ti dispiace...»

Sulle guance dell'erborista si formarono due fossette; poi disse: «Scusami. Procedi pure.»

«Bene» ringhiò Eragon. «Allora, come dicevo, un mago può...»

«O una maga» precisò Angela.

«Vuoi lasciarmi finire, per favore?»

«Scusa.»

Eragon vide Nasuada trattenere un sorriso. «Dicevo... Il mago si apre al flusso di energia che gli scorre in corpo e recita nell'antica lingua non solo le parole dell'incantesimo ma anche l'obiettivo finale. È una cosa molto difficile, come potete immaginare. Se il mago non è animato dalle migliori intenzioni, l'incantesimo di partenza verrà solo modificato e non infranto del tutto, così alla fine da sciogliere ce ne saranno due, e per giunta sovrapposti.

«Il secondo metodo, invece, consiste nell'evocare un nuovo incantesimo che agisca contro gli effetti del primo e che, se eseguito correttamente, lo renda inefficace. Col tuo permesso, Elva, avrei deciso di procedere così.»

«Una soluzione davvero elegante» proclamò Angela, «ma ti prego, dimmi: chi fornirà il flusso continuo di energia necessaria per sostenere il controincantesimo nel tempo? E poi, visto che qualcuno dovrà pur chiederlo, che cosa potrebbe andare storto?»

Eragon tenne lo sguardo fisso su Elva. «L'energia dovrà venire da te» le disse, stringendole le mani tra le sue. «Non ne servirà molta, ma ti indebolirà lo stesso. Non sarai più in grado di correre o di portare legna come tutte le persone normali.»

«Perché non ce la metti tu?» gli chiese Elva, inarcando un sopracciglio. «Dopotutto è colpa tua se mi trovo in questo guaio.»

«Lo farei, ma in quel caso, più mi allontano da te, più sarà difficile inviartela. E se mi trovassi troppo distante - un miglio, diciamo, forse anche qualcosa in più - lo sforzo mi ucciderebbe. Quanto a ciò che potrebbe andare storto, l'unico rischio è che pronunci il controincantesimo in maniera scorretta, con il risultato di non riuscire ad annullare la mia benedizione. In quel caso dovrò evocarne un altro.»

«E se nemmeno quello va a buon fine?»

Eragon tacque. «Posso sempre ricorrere al primo metodo che ho spiegato. Preferirei evitarlo, tuttavia. È l'unico modo per annullare del tutto un incantesimo, ma se il tentativo non riesce - cosa più che possibile - ti ritroveresti in una situazione perfino peggiore di quella attuale.»

Elva annuì. «Capisco.»

«Ho il tuo permesso, dunque? Posso procedere?»

Quando la bambina abbassò di nuovo il mento, Eragon trasse un profondo respiro e si preparò. Per concentrarsi socchiuse gli occhi e poi cominciò a parlare nell'antica lingua. Ogni parola gli sgorgava dalla bocca pesante come un colpo di martello. Pronunciava con cautela ogni sillaba, ogni suono diverso dalla sua lingua, per evitare contrattempi potenzialmente terribili. Il controincantesimo era impresso a fuoco nella sua memoria. Durante il viaggio di ritorno dall'Helgrind vi aveva dedicato molte ore, aveva lavorato sodo e sfidato se stesso per trovare alternative sempre migliori in vista del giorno in cui avrebbe tentato di rimediare al torto causato a Elva. Mentre parlava, Saphira incanalò la propria forza dentro di lui. Eragon la sentì sostenerlo e vegliare su di lui, pronta a intervenire non appena avesse intuito che era sul punto di storpiare la formula magica. Il controincantesimo era molto lungo e complesso, perché doveva andare a colpire ogni possibile interpretazione della sua benedizione. Trascorsero cinque minuti buoni prima che Eragon pronunciasse l'ultima frase, l'ultima parola e, infine, l'ultima sillaba.

Nel silenzio che seguì, il viso di Elva si rabbuiò per la delusione. «Li sento ancora» disse.

Nasuada si sporse dallo scranno. «Chi?»

«Tu, lui, lei, chiunque stia soffrendo. Le voci non sono sparite! Non avverto più il bisogno di aiutare le persone, ma il dolore scorre ancora dentro di me.»

«Eragon» disse Nasuada.

Lui aggrottò le sopracciglia. «Devo aver saltato qualcosa. Datemi un istante per riflettere, poi metterò insieme un altro incantesimo che potrebbe funzionare. Ho preso in considerazione altre possibilità, ma...» La voce gli venne meno a poco a poco; era turbato perché non era riuscito nel suo intento. Ed evocare un incantesimo per bloccare il dolore di Elva sarebbe stato molto più difficile che non eliminare la benedizione nel suo complesso. Una parola sbagliata, una frase mal costruita e avrebbe potuto distruggere la capacità di Elva di immedesimarsi negli altri e precluderle la possibilità di imparare a comunicare con la propria mente, oppure soffocare il suo senso del dolore, tanto che, se si fosse ferita, non se ne sarebbe accorta subito.

Eragon si stava consultando con Saphira quando Elva esclamò: «No!»

Lui la guardò confuso.

Un bagliore estatico sembrava emanare dalla bambina. Mentre sorrideva, i denti arrotondati e bianchi come perle luccicavano e gli occhi brillavano di gioia trionfante. «No, non riprovarci più.»

«Ma, Elva, perché...»

«Perché non voglio perdere altre forze. E perché mi sono appena resa conto che posso ignorarli!» Afferrò i braccioli della sedia, tremando per l'eccitazione. «Non provando più il bisogno spasmodico di aiutare i sofferenti, posso ignorarne i problemi e non stare più male! Posso ignorare l'uomo a cui è stata amputata una gamba, posso ignorare la donna che si è appena scottata la mano, posso ignorarli tutti e non sentirmi cattiva per questo! È vero, non riesco a bloccare del tutto i loro pensieri, non ancora, perlomeno, ma... Oh! Che sollievo! C'è silenzio. Un silenzio benedetto! Basta con i tagli, i graffi, le sbucciature e le ossa rotte. Basta con le futili preoccupazioni di giovani scapestrati. Basta con l'angoscia delle mogli abbandonate e dei mariti ingannati. Basta con le migliaia di insopportabili ferite di guerra. Basta col panico che ti torce le budella e precede il buio finale.» Con le guance rigate di lacrime, rideva, un roco gorgheggio che fece venire i brividi a Eragon.

Che follia è mai questa? chiese Saphira. Anche se riesci a toglierti dalla testa il dolore degli altri, perché restarvi legata se Eragon può liberarti?

Gli occhi di Elva brillarono di una spiacevole gioia. «Io non sarò mai come gli altri. Se il mio destino è di essere diversa, allora ben venga la mia diversità. Finché riesco a controllare il mio potere, come sembra, non mi spaventa l'idea di portare questo fardello perché sarà una mia scelta, Eragon, non qualcosa che mi hai imposto con la tua magia! Ah! Da questo momento non obbedirò più a niente e a nessuno. Se aiuterò qualcuno, sarà per mio volere. Se sceglierò di mettermi al servizio dei Varden, sarà perché me lo suggerisce la mia coscienza e non perché me lo chiedi tu, Nasuada, o perché se mi oppongo mi verrà da vomitare. Farò ciò che voglio, guai a chi tenterà di fermarmi: conosco tutte le vostre paure e non esiterò a sfruttarle per veder esauditi i miei desideri.»

«Elva!» esclamò Greta. «Non dire queste cose terribili! Non posso credere che le pensi davvero!»

La bambina si volse verso di lei così bruscamente che i capelli le sventagliarono sulle spalle. «Ah, sì, mi ero dimenticata di te, domestica mia. Sempre fedele. Sempre apprensiva. Ti sono grata per avermi adottata dopo la morte di mia madre e per avermi curata fin dai giorni del Farthen Dûr, ma non mi servi più. Vivrò da sola, baderò a me stessa e non dovrò mostrarmi riconoscente a nessuno.» Intimidita, la vecchia si coprì la bocca con il bordo di una manica e si ritrasse.

Le parole di Elva lasciarono Eragon inorridito. Decise che l'avrebbe privata del suo dono, se aveva intenzione di abusarne. Con l'aiuto di Saphira, che era d'accordo con lui, scelse il più promettente tra tutti i nuovi controincantesimi che aveva contemplato nei giorni precedenti e prese fiato per pronunciarne i versi.

Veloce come un serpente, Elva gli tappò la bocca con una mano, impedendogli di parlare. Quando Saphira ringhiò, quasi assordando Eragon, che aveva un udito fuori dal comune, il padiglione fu scosso da un fremito. Indietreggiarono tutti, tranne Elva, che continuava a tenere la mano premuta contro il viso di Eragon, e Saphira gridò: Lascialo andare, pulcino!

Richiamate dal ringhio della dragonessa, le sei guardie di Nasuada fecero irruzione nella tenda brandendo le armi, mentre Blödhgarm e gli altri elfi corsero da Saphira e si piazzarono alla sua destra e alla sua sinistra, all'altezza delle spalle, scostando la parete di stoffa del padiglione così da poter vedere cosa stava succedendo. Nasuada fece loro un cenno e i Falchineri abbassarono le armi; gli elfi rimasero schierati, pronti a intervenire. Le loro spade scintillavano come ghiaccio.

In apparenza Elva non fu turbata né dal trambusto che aveva provocato né dalle lame puntate contro di lei. Abbassò il capo e guardò Eragon come se fosse uno strano insetto che aveva sorpreso a strisciare lungo il bordo della sedia, poi sorrise con un'espressione così dolce e innocente che il Cavaliere si chiese perché non aveva riposto più fiducia in lei. Con voce suadente come il miele caldo, la bimba gli disse: «Eragon, basta. Se pronunci il tuo incantesimo mi farai ancora del male come l'altra volta. E tu non lo vuoi. Altrimenti ogni sera, quando ti coricherai, penserai a me e il ricordo del torto commesso ti tormenterà. Ciò che stavi per fare era una cosa malvagia, Eragon. Sei forse il giudice del mondo? Vuoi condannarmi anche se non ho commesso alcun crimine solo perché non approvi la mia condotta? Quella strada porta al depravato piacere di controllare gli altri per la propria soddisfazione. Galbatorix sarebbe felice di te.»

Poi lo lasciò andare, ma Eragon era troppo sconvolto per muoversi. L'aveva colpito nel profondo e lui non aveva argomentazioni con cui difendersi, perché le domande e le osservazioni di Elva erano le stesse che rivolgeva a se stesso. Al pensiero che la bambina l'avesse compreso così bene sentì un brivido gelido lungo la schiena. «Ti sono grata comunque, Eragon, perché oggi sei venuto a porre rimedio al tuo errore» continuò Elva. «Non tutti sono disposti ad ammettere e ad affrontare le proprie mancanze. Tuttavia non ti sei conquistato i miei favori. Hai pareggiato il conto meglio che potevi, ma era il minimo che avrebbe fatto qualsiasi persona rispettabile. Non mi hai risarcito per tutto ciò che ho dovuto sopportare; è impossibile. Dunque, la prossima volta che le nostre strade si incroceranno, Eragon Ammazzaspettri, non contare su di me, né come amica né come nemica. Provo sentimenti contrastanti, Cavaliere; sono pronta tanto a odiarti quanto ad amarti. E molto dipende da te... Saphira, tu mi hai dato la stella sulla fronte e sei sempre stata gentile con me. Sono e sarò la tua fedele serva.»

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