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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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A Eragon sfuggì un gemito involontario mentre le articolazioni delle dita ritornavano nella loro sede, e i tendini lacerati e la cartilagine massacrata riacquistavano il pieno vigore, e i lembi di pelle che gli pendevano dalle nocche tornavano a coprire la carne viva. Quando l'incantesimo fu concluso, il giovane aprì e chiuse la mano per confermare la completa guarigione. «Grazie» disse. Lo sorprese che Arya avesse preso l'iniziativa pur sapendo che lui era del tutto capace di guarirsi da solo.

Lei parve imbarazzata. Distogliendo lo sguardo per contemplare la vastità della pianura, disse: «Sono felice di averti avuto al mio fianco oggi, Eragon.»

«Lo stesso vale per me.»

Arya gli rivolse un fugace, incerto sorriso. Indugiarono sul poggio per un altro minuto; nessuno dei due era ansioso di riprendere il viaggio. Poi lei sospirò e disse: «Dobbiamo andare. Le ombre si allungano. Prima o poi arriverà qualcuno, e quando scopriranno questo banchetto per i corvi ci daranno la caccia.»

Scesero dal poggio e si avviarono verso sud-ovest, deviando dalla strada, e correndo a grandi balzi nell'ondulato mare d'erba. Alle loro spalle, il primo mangiacarogne calò dal cielo.

OMBRE DEL PASSATO

Quella notte Eragon sedeva davanti al piccolo falò, masticando una foglia di tarassaco. Avevano cenato con radici, semi ed erbe raccolte da Arya nella campagna intorno: crude e prive di condimento, non erano certo invitanti, ma Eragon aveva preferito non arricchire la sua razione con un coniglio o un uccello, pur abbondanti nei paraggi, perché non voleva che Arya lo guardasse con disgusto. Per giunta, dopo il feroce scontro con i soldati, il pensiero di stroncare un'altra vita, fosse pure di un animale, gli dava la nausea.

Era tardi, e avrebbero dovuto rimettersi in marcia molto presto l'indomani, ma né lui né Arya davano segno di volersi coricare. Lei era seduta alla sua destra, un po' discosta, con le braccia strette intorno alle gambe raccolte e il mento sulle ginocchia. La gonna le si allargava intorno come la corolla di un fiore.

Il mento affondato nel petto, Eragon si massaggiava la mano destra con la sinistra, nel tentativo di alleviare l'intenso dolore. Mi serve una spada, pensò. Finché non me ne procuro una, devo trovare una protezione per le mani, per non storpiarmi quando colpisco qualcosa. Il problema è che adesso sono così forte che dovrei portare guanti con parecchi strati d'imbottitura, il che è ridicolo. Sarebbero troppo ingombranti, troppo caldi, e poi non posso indossare guanti per il resto della mia vita. Aggrottò la fronte. Stringendo i pugni, studiò come le ossa sporgenti alteravano il gioco di luce sulla pelle, affascinato dalla malleabilità del suo corpo. E che cosa succede se mi capita di combattere mentre porto l'anello di Brom! È di origine elfica, perciò probabilmente non devo temere di spezzare lo zaffiro. Ma se colpisco qualcosa mentre ho l'anello al dito, non mi slogherò solo qualche articolazione, mi fratturerò tutte le ossa della mano... Potrei perfino non riuscire più a riparare il danno... Strinse di nuovo i pugni e li rigirò da una parte e dall'altra, osservando le ombre spostarsi fra le nocche. Potrei inventare un incantesimo per impedire a qualunque oggetto che si avvicini a velocità pericolosa di colpirmi le mani. No, un momento, non va bene. E se fosse un macigno? O una frana? Mi ucciderei nel tentativo di bloccarli.

Be', se guanti e magia non funzionano, mi piacerebbe avere gli Ascûdgamln dei nani, i loro pugni d'acciaio. Con un sorriso ripensò al nano Shrrgnien che si era fatto impiantare in ogni nocca, tranne che nei pollici, un dado di metallo a cui avvitava dei chiodi d'acciaio. I chiodi permettevano a Shrrgnien di colpire qualunque cosa senza timore di farsi male, e si potevano anche svitare a piacimento. L'idea era allettante, ma Eragon non aveva alcuna intenzione di farsi trapanare le nocche. E poi, pensò, le mie ossa sono più sottili di quelle dei nani, troppo, forse, per inserirvi un dado di metallo senza che le articolazioni ne risentano... D'accordo, gli Ascûdgamln non sono una buona idea, ma forse potrei...

Avvicinando la bocca alle mani, mormorò: «Thaefathan.»

Il dorso delle mani cominciò a formicolargli e a prudergli come se le avesse infilate in un cespuglio di ortiche. La sensazione era così intensa e spiacevole che gli fece venir voglia di grattarsi furiosamente. Con un enorme sforzo di volontà, rimase immobile a osservare la pelle delle nocche che si gonfiava, formando un callo bianco spesso mezzo pollice su ciascuna. Somigliavano ai depositi cornei all'interno delle zampe dei cavalli. Quando fu soddisfatto della grandezza e della densità dei noduli, interruppe il flusso di magia e cominciò a esplorare con la vista e il tatto le nuove collinette che si ergevano sulle sue nocche.

Le mani erano più pesanti e rigide di prima, ma riusciva ancora a flettere le dita senza problemi. Saranno brutte, pensò, massaggiando le protuberanze della mano destra contro l'altro palmo, e la gente riderà quando le vedrà, ma non m'importa, perché serviranno allo scopo e mi terranno in vita.

Fremente di eccitazione, colpì la sommità di un masso rotondo che spuntava dal terreno fra le sue gambe. L'impatto gli riverberò nel braccio con un tonfo sordo, ma non gli causò più danni che se avesse colpito una tavola di legno coperta da diversi strati d'imbottitura. Eccitato, prese l'anello di Brom dallo zaino e s'infilò al dito la fredda fascia d'oro, controllando che il callo vicino fosse più alto dello zaffiro. Colpì di nuovo la pietra. L'unico suono fu quello delle pelle asciutta e compatta che urtava contro la dura roccia.

«Che cosa stai facendo?» chiese Arya, alzando lo sguardo attraverso la cortina di lunghi capelli neri.

«Niente.» Le mostrò le mani. «Ho pensato che sarebbe stata una buona idea, visto che probabilmente dovrò ancora colpire qualcuno.»

Arya esaminò le sue nocche. «Ti sarà difficile portare i guanti.»

«Posso sempre tagliarli sul dorso per farcele stare.»

Lei annuì e tornò a fissare il fuoco.

Eragon si appoggiò indietro sui gomiti e allungò le gambe, contento di essersi preparato per qualunque tipo di combattimento gli riservasse l'immediato futuro. Più in là non osava spingersi, per evitare di chiedersi come avrebbero fatto lui e Saphira a sconfiggere Murtagh o Galbatorix, e di farsi artigliare il cuore dal panico.

Concentrò lo sguardo sul falò, cercando di dimenticare le sue angosce e le sue responsabilità in quell'inferno palpitante. Ma la danza delle fiamme lo cullò fino a farlo scivolare in una sorta di apatia, dove frammenti di pensieri, suoni, immagini ed emozioni si agitavano dentro di lui come fiocchi di neve turbinanti in un grigio cielo invernale. E nel vortice gli apparve il viso del soldato che gli aveva chiesto pietà. Eragon lo vide di nuovo piangere, e sentì di nuovo le sue disperate invocazioni, e ancora il rumore del collo che si spezzava come un ramo secco.

Tormentato dai ricordi, strinse i denti e respirò forte dalle narici dilatate. Si sentì ricoprire da un velo di sudore freddo. Si agitò, a disagio, e si sforzò di scacciare il fantasma ostile del soldato, ma fu invano. Vattene! gridò. Non è stata colpa mia. È Galbatorix il responsabile della tua morte, non io. Io non volevo ucciderti!

In un punto remoto della pianura buia, un lupo ululò. Qui e là nelle tenebre, gli risposero una ventina di altri lupi, levando le loro voci in una melodia discorde. Eragon sentì formicolare il cuoio capelluto e le braccia nell'udire quel canto soprannaturale. Poi, per un breve istante, gli ululati si fusero in un'unica nota, simile al grido di battaglia di un Kull alla carica.

Eragon si agitò di nuovo, inquieto.

«Cosa c'è?» gli chiese Arya. «Sono i lupi? Non ci daranno fastidio, lo sai. Stanno insegnando ai cuccioli a cacciare, e non permetteranno ai piccoli di avvicinarsi a creature dall'odore strano come il nostro.»

«Non sono i lupi là fuori» disse Eragon, abbracciandosi le gambe. «Sono i lupi qui dentro.» E si batté un dito sulla fronte.

Arya annuì, un guizzo rapidissimo, da uccello, che tradì il fatto che non era una femmina umana, anche se ne aveva assunto le sembianze. «È sempre così. I mostri della mente sono ben peggiori di quelli che esistono nella realtà. Paura, dubbio e odio fanno più danni di quanti ne faccia qualsiasi bestia selvatica.»

«E l'amore» puntualizzò Eragon.

«E l'amore» ammise lei, «e l'avidità, la gelosia e ogni altra ossessione che tormenta le razze senzienti.»

Eragon pensò a Tenga, solo nelle rovine dell'avamposto di Edur Ithindra, accovacciato davanti alla sua preziosa collezione di libri, alla ricerca ossessiva della risposta che gli sfuggiva. Non disse nulla ad Arya dell'eremita, perché in quel momento non voleva parlare di quel curioso incontro. Invece le domandò: «Non ti senti turbata quando uccidi?»

I verdi occhi di Arya si ridussero a due fessure. «Né io né il resto della mia razza mangiamo carne di animali perché non sopportiamo di nuocere a un'altra creatura per soddisfare la nostra fame, e tu hai l'ardire di chiedermi se uccidere ci turba? Possibile che tu ci comprenda così poco da pensare che siamo assassini a sangue freddo?»

«No, certo che no» protestò lui. «Non era questo che intendevo.»

«E allora esprimiti meglio, e non offendere, se non è questa la tua intenzione.»

Scegliendo le parole con estrema cura, Eragon disse: «Ho fatto più o meno la stessa domanda a Roran prima che attaccassimo l'Helgrind. Quello che voglio sapere è come ti senti quando uccidi. Come dovremmo sentirci?» Guardò il fuoco, accigliato. «I guerrieri che hai ucciso tornano mai a fissarti, veri come lo sono io davanti a te?»

Arya strinse ancora di più le braccia intorno alle gambe, pensierosa. Una lingua di fuoco guizzò verso l'alto, carbonizzando una delle falene che volavano intorno al bivacco. «Ganga» mormorò, agitando un dito. Con uno sfarfallio di ali lanuginose, le altre falene si allontanarono. Senza alzare lo sguardo dai ceppi incandescenti, Arya rispose: «Nove mesi dopo essere stata nominata ambasciatrice, l'unica ambasciatrice di mia madre, in realtà, lasciai i Varden del Farthen Dûr per andare nella capitale del Surda, che era ancora un paese giovane a quei tempi. Poco dopo essere partiti dai Monti Beor, i miei compagni e io ci imbattemmo in una banda di Urgali erranti. Noi avremmo tranquillamente proseguito con le spade nei foderi, ma gli Urgali vollero sfidarci per conquistare onore e gloria fra le loro tribù. La nostra forza era superiore alla loro... fra di noi c'era Weldon, l'uomo che succedette a Brom come capo dei Varden... e fu facile sbarazzarsi di quegli Urgali. Fu la prima volta che presi una vita. Quel gesto mi ossessionò per settimane, finché non mi resi conto che sarei impazzita se avessi continuato a pensarci. Molti perdono la ragione, e sono così pieni di rabbia e dolore che non si può più fare affidamento su di loro, oppure i loro cuori si trasformano in pietra e perdono la capacità di distinguere il bene dal male.»

«Come sei riuscita a superare quello che avevi fatto?»

«Ho studiato le ragioni del mio gesto per determinare se erano giuste. Una volta stabilito che sì, lo erano, mi sono chiesta se la nostra causa era tanto importante da continuare a sostenerla, anche a costo di dover uccidere ancora. E infine ho deciso che ogni volta che mi fossero tornati in mente i morti avrei immaginato di trovarmi nei giardini del Palazzo di Tialdarí.»

«E ha funzionato?»

Arya si scostò i capelli dal viso e se li portò dietro un orecchio rotondo. «Sì. L'unico antidoto al corrosivo veleno della violenza è trovare la pace dentro di noi. È una medicina difficile da ottenere, ma ne vale la pena.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Anche la respirazione aiuta.»

«La respirazione?»

«Devi fare respiri lenti, regolari, come se stessi meditando. È uno dei metodi più efficaci per calmarsi.»

Accogliendo il suggerimento, Eragon cominciò a inspirare ed espirare con piena consapevolezza, attento a mantenere un ritmo costante e a svuotare i polmoni a ogni respiro. Nel giro di un minuto, il nodo che gli attanagliava le viscere si allentò, le rughe della fronte si spianarono e la presenza dei nemici uccisi non gli parve più così concreta... I lupi ulularono ancora, ma dopo un primo fremito d'inquietudine, Eragon li ascoltò senza più timore, perché i loro versi avevano perduto il potere di turbarlo. «Grazie» disse. Arya rispose con un leggiadro movimento del capo.

Regnò il silenzio per almeno un quarto d'ora, finché Eragon disse: «Urgali.» Lasciò la parola in sospeso per qualche istante, un monolito verbale di ambiguità. «Cosa pensi del fatto che Nasuada abbia permesso loro di unirsi ai Varden?»

Arya raccolse un fuscello che le si era impigliato nell'orlo della veste e lo rigirò fra le dita affusolate, studiandolo come se contenesse un segreto. «È stata una decisione coraggiosa, e l'ammiro per questo. Nasuada agisce sempre nell'interesse dei Varden, costi quel che costi.»

«Ha fatto infuriare parecchi Varden quando ha accettato l'offerta di aiuto di Nar Garzhvog.»

«E si è riguadagnata la loro fiducia con la Prova dei Lunghi Coltelli. Nasuada è molto abile, quando si tratta di difendere la sua posizione.» Arya lanciò il fuscello nel fuoco. «Non provo simpatia per gli Urgali, ma neppure li odio. Al contrario dei Ra'zac, loro non sono d'animo malvagio, sono solo molto bellicosi. È una distinzione importante, anche se non offre alcuna consolazione alle famiglie delle loro vittime. Noi elfi abbiamo trattato con gli Urgali prima d'ora, e lo faremo di nuovo quando sarà necessario. Vana speranza, a ogni modo.»

Arya non ebbe bisogno di spiegare perché. Molte delle pergamene che Oromis aveva dato da leggere a Eragon erano dedicate all'argomento Urgali, e una in particolare, I viaggi di Gnaevaldrskald, gli aveva insegnato che tutta la cultura Urgali si basava sul combattimento. Gli Urgali maschi potevano migliorare la propria posizione sociale soltanto razziando un altro villaggio - che fosse di Urgali, di umani, di elfi o di nani importava poco - oppure combattendo contro i propri rivali uno per uno, talvolta fino alla morte. E quando era il momento di scegliere un compagno, le femmine Urgali si rifiutavano di prendere in considerazione un maschio che non avesse sconfitto almeno tre avversari. Di conseguenza, ogni nuova generazione di Urgali non aveva scelta se non sfidare i propri pari, gli anziani e girovagare per il paese in cerca di occasioni per dimostrare il proprio valore. La tradizione era così radicata che ogni tentativo di sopprimerla era fallito. Almeno sono fedeli a se stessi, pensò Eragon. Cosa di cui pochi umani possono vantarsi.

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