Volodyk - Paolini2-Eldest
Era una domanda retorica, ma quando Oromis rimase in silenzio, i suoi occhi a mandorla fissi su un terzetto di passeri che piroettavano nel cielo, Eragon capì che stava riflettendo su come dargli la risposta più adeguata. Gli uccellini s'inseguirono per alcuni minuti. Quando scomparvero dalla visuale, Oromis disse: «Non è opportuno discutere di questo aspetto al momento.»
«Allora lo sai?» esclamò Eragon, sbalordito.
«Sì. Ma questa informazione dovrà aspettare che tu abbia approfondito il tuo addestramento. Non sei ancora pronto.» Oromis lo guardò, come se si aspettasse una protesta.
Eragon chinò il capo. «Come vuoi tu, maestro.» Non avrebbe mai estorto l'informazione a Oromis finché l'elfo non avesse voluto rivelarla, quindi che senso aveva insistere? Eppure non poteva fare a meno di domandarsi che cosa ci fosse di tanto pericoloso da imporre il silenzio, e perché gli elfi avessero tenuto il segreto perfino con i Varden. Lo attraversò un altro pensiero, e lo espresse ad alta voce. «Se le battaglie con i maghi vengono condotte come dici, allora perché Ajihad mi ha fatto combattere nel Farthen Dùr senza incantesimi di protezione? Non sapevo nemmeno di dover tenere la mente aperta in cerca di nemici. E perché Arya non ha ucciso gran parte degli Urgali, se non tutti? Non c'era nessuno stregone in grado di resisterle, tranne Durza, e lui non poteva difendere le sue truppe da sottoterra.» «Ajihad non ti ha fatto proteggere da Arya o da qualcuno del Du Vrangr Gata?» chiese Oromis.
«No, maestro.»
«E tu hai combattuto così?»
«Sì, maestro.»
Gli occhi di Oromis si oscurarono, mentre si chiudeva in se stesso, restando immobile sul prato. Riprese a parlare di getto. «Mi sono consultato con Arya, e lei sostiene che i Gemelli dei Varden avevano ricevuto l'ordine di esaminare le tue capacità. Hanno detto ad Ajihad che eri esperto in ogni sorta di incantesimo, compresi quelli di protezione. Né Ajihad né Arya hanno dubitato del loro giudizio.»
«Quei luridi vermi, cani rognosi, serpi dalla lingua biforcuta» imprecò Eragon. «Hanno cercato di farmi uccidere!» Passando alla propria lingua, proseguì con altri insulti più coloriti.
«Non appestare l'aria» lo ammonì Oromis. «Non serve... A ogni buon conto, sospetto che i Gemelli ti abbiano fatto scendere in battaglia senza difese non per farti uccidere, ma perché Durza ti catturasse vivo.»
«Cosa?»
«Secondo il tuo racconto, Ajihad sospettava che i Varden fossero stati traditi quando Galbatorix cominciò a colpire i loro alleati nell'Impero con mira infallibile. I Gemelli erano a conoscenza dell'identità dei collaboratori dei Varden. Inoltre ti hanno attirato nel cuore di Tronjheim, separandoti da Saphira, per spingerti tra le grinfie di Durza. Che fossero loro i traditori è l'unica spiegazione logica.»
«Che fossero i traditori» disse Eragon «ormai non conta più: sono morti e sepolti.»
Oromis inclinò il capo da un lato. «E sia. Arya sostiene che gli Urgali avevano degli stregoni nel Farthen Dùr e che ne ha combattuti molti. Nessuno di loro ti ha attaccato?»
«No, maestro.»
«Prova ulteriore del fatto che tu e Saphira dovevate essere catturati da Durza per essere portati da Galbatorix. Una trappola ben congegnata.»
Durante l'ora seguente, Oromis insegnò a Eragon una dozzina di metodi per uccidere, nessuno dei quali richiedeva più energia di quanta ne occorresse per sollevare una penna. Quando ebbe finito di memorizzare l'ultimo, a Eragon sovvenne un pensiero che lo fece sogghignare. «La prossima volta che incroceranno la mia strada, i Ra'zac non avranno scampo.»
«Non devi sottovalutarli» lo ammonì Oromis.
«Perché? Tre parole, e saranno morti stecchiti.» «Che cosa mangiano i martin pescatori?» Eragon lo guardò stupito. «Pesce, naturalmente.» «E se un pesce fosse più svelto e più intelligente dei suoi simili, riuscirebbe a sfuggire a un martin pescatore?» «Ne dubito» disse Eragon. «Almeno non per molto.» «Proprio come i martin pescatori sono fatti per essere i migliori cacciatori di pesce, i lupi sono i migliori cacciatori di cervi e altra selvaggina, e ogni animale possiede i requisiti più idonei a perseguire il suo obiettivo, anche i Ra'zac sono perfetti per predare gli umani. Sono i mostri annidati nel buio, i viscidi incubi che tormentano le notti della vostra razza.»
Eragon si sentì formicolare la nuca dall'orrore. «Che razza di creature sono?»
«Non sono elfi, né umani, né nani, né draghi, né bestie di terra, di cielo o di mare, né rettili, né insetti, né qualsiasi altra categoria di animali.»
Eragon emise una risatina nervosa. «Sono piante, allora?» «Nemmeno questo. Si riproducono deponendo le uova, come i draghi. Quando queste si schiudono, i piccoli, detti pupe, sviluppano un esoscheletro nero che ricorda vagamente le sembianze umane. È un'imitazione grottesca, ma sufficiente a convincere le vittime a farsi avvicinare dai Ra'zac senza destare allarme. In tutti gli aspetti in cui gli umani sono deboli, i Ra'zac sono forti. Riescono a vedere in una notte nuvolosa, a fiutare una traccia come un segugio, a saltare più in alto e a muoversi più in fretta. Tuttavia la luce forte li infastidisce e hanno una paura morbosa dell'acqua, perché non sanno nuotare. La loro arma più potente è il loro fiato pestilenziale, che annebbia la mente degli umani, rendendoli incapaci di reagire, anche se ha meno effetto sui nani e gli elfi ne sono immuni.»
Eragon rabbrividì al ricordo di quando aveva visto per la prima volta i Ra'zac a Carvahall, e di come era stato incapace di fuggire quando lo avevano scorto. «Mi sembrava di trovarmi dentro un incubo in cui volevo fuggire, ma non riuscivo a muovermi, per quanto mi sforzassi.»
«Una buona descrizione» disse Oromis. «Sebbene i Ra'zac non sappiano usare la magia, non bisogna sottovalutarli. Se sapessero che dai loro la caccia, non si mostrerebbero, ma rimarrebbero nell'ombra, dove sono più potenti, in attesa di tenderti un agguato come hanno fatto a Dras-Leona. Persino l'esperienza di Brom non è riuscita a proteggerlo da essi. Non essere mai troppo sicuro di te, Eragon. Non diventare arrogante, perché compiresti azioni avventate, e i tuoi nemici approfitterebbero della tua debolezza.»
«Sì, maestro.»
Oromis piantò i suoi occhi severi su di lui. «I Ra'zac restano pupe per vent'anni, finché maturano. Al sorgere della prima luna piena del loro ventesimo anno, si liberano dall'esoscheletro, dispiegano le ali ed emergono come adulti pronti a cacciare tutte le creature, non soltanto gli umani.»
«Perciò le cavalcature dei Ra'zac, quei mostri su cui volano, sono...»
«Sì, i loro genitori.»
Immagine di perfezione
finalmente ho capìto la natura dei miei nemici, pensò Eragon. Temeva i Ra'zac da quando erano comparsi a Carvahall, non soltanto per le loro azioni scellerate, ma perché sapeva ben poco di quelle creature. Nella sua ignoranza, aveva attribuito ai Ra'zac molti più poteri di quanti ne possedevano in realtà, e li aveva considerati con un timore quasi superstizioso. Incubi. Ma adesso che la spiegazione di Oromis li aveva spogliati della loro aura di mistero, non gli sembravano più così formidabili. Il fatto che fossero vulnerabili alla luce e all'acqua lo portava all'assoluta convinzione che al loro prossimo incontro avrebbe distrutto i mostri responsabili dell'uccisione di Garrow e di Brom. «Anche i loro genitori si chiamano Ra'zac?» domandò.
Oromis fece no con la testa. «Lethrblaka, li chiamiamo. E laddove la loro progenie è di mente limitata, sebbene astuta, i Lethrblaka possiedono l'intelligenza di un drago. Un drago crudele, malvagio e perverso.»
«Da dove vengono?»
«Con ogni probabilità, dai territori che i tuoi antenati abbandonarono. È facile supporre che siano state le loro scorrerie a costringere re Palancar a emigrare. Quando noi Cavalieri ci accorgemmo della nefanda presenza dei Ra'zac in Alagaèsia, facemmo del nostro meglio per estirparli, come facciamo con la ruggine delle foglie. Purtroppo il nostro successo fu parziale. Due Lethrblaka riuscirono a fuggire, e sono stati loro, insieme alle pupe, la causa delle tue sofferenze. Dopo aver ucciso Vrael, Galbatorix li rintracciò e strinse con loro un patto perché lo servissero in cambio di protezione e del permesso di servirsi a volontà del loro cibo preferito. Ecco perché Galbatorix consente loro di vivere vicino a Dras-Leona, una delle maggiori città dell'Impero.»
Eragon serrò la mascella. «La pagheranno.» E la pagheranno cara, se andrà come dico io.
«Già» convenne Oromis. Tornando al capanno, varcò il vano oscuro della porta e ricomparve portando una mezza dozzina di tavolette di ardesia, larghe mezzo piede e lunghe uno. Ne porse una a Eragon. «Lasciamo stare questi argomenti sgradevoli per un po'. Ho pensato che forse ti va d'imparare a realizzare un fairth. È un eccellente metodo per focalizzare i pensieri. La tavoletta è abbastanza impregnata di inchiostro per coprirla con qualsiasi combinazione di colori. Ti basta quindi concentrarti sull'immagine che desideri catturare e dire "Quello che vedo con l'occhio della mente sia replicato sulla superficie di questa tavoletta".» Mentre Eragon osservava la lastra, Oromis indicò la radura. «Guardati intorno, Eragon, e trova qualcosa che valga la pena di preservare.»
I primi soggetti che Eragon notò gli parvero troppo ovvi, troppo banali: un giglio giallo vicino ai suoi piedi, il capanno di Oromis, il ruscello, e il panorama. Non c'era niente di particolare. Non c'era niente che avrebbe fornito all'osservatore un'introspezione del soggetto del fairth o di chi lo aveva creato. Le cose che cambiano e vanno perdute, ecco cosa vale la pena di preservare, pensò. Il suo sguardo si posò sui germogli verde pallido che crescevano sulla punta dei rami di un albero, e poi sulla profonda, stretta ferita che marchiava il tronco dove una tempesta aveva spezzato un ramo, portando via un pezzo di corteccia. Gocce di resina trasparente incrostavano la cicatrice, catturando e rifrangendo la luce.
Eragon si dispose a fianco del tronco, perché le galle rotonde della linfa rappresa dell'albero sporgessero di profilo, incorniciate da un ventaglio di nuovi aghi. Poi fissò la scena nella sua mente meglio che potè e mormorò la formula magica.
La superficie della tavoletta grigia s'illuminò di lampi di colore, che si mescolavano per produrre la giusta gamma di sfumature. Quando alla fine i pigmenti cessarono di muoversi, Eragon si ritrovò a guardare una strana copia di quanto aveva voluto riprodurre. La linfa e gli aghi erano resi con vibranti e precisi dettagli, mentre tutto il resto era sfuocato e scuro, come visto attraverso le palpebre socchiuse. Era lontano mille miglia dalla limpidezza universale del fairth di Ilirea che aveva realizzato Oromis.
A un cenno dell'elfo, Eragon gli porse la tavoletta. Oromis la studiò per un minuto, poi disse: «Hai un insolito modo di pensare, Eragon-finiarel. La maggior parte degli umani ha difficoltà a raggiungere la giusta concentrazione per creare un'immagine riconoscibile. Tu, d'altro canto, osservi con attenzione minuziosa tutto quello che ti interessa, ma il tuo fuoco è ristretto. È lo stesso problema che hai con la meditazione. Devi rilassarti, allargare il campo della tua visuale, e lasciarti assorbire da tutto quello che ti circonda senza giudicare che cosa è importante e che cosa no.» Mettendo da parte la lastra, Oromis ne raccolse una seconda da terra e la porse a Eragon. «Riprova...»
«Salve, Cavaliere!»
Sorpreso, Eragon si volse e vide Orik e Arya sbucare fianco a fianco dalla foresta. Il nano sventolò il braccio per salutarlo. La sua barba era rasata di fresco e intrecciata, i capelli tirati indietro in una coda ordinata, e indossava una nuova tunica - dono degli elfiche era rossa e marrone, e ricamata con fili d'oro. Il suo aspetto non conservava alcuna traccia delle miserevoli condizioni della notte precedente.
Eragon, Oromis e Arya si scambiarono il saluto tradizionale, poi, abbandonando l'antica lingua, Oromis chiese: «A cosa devo l'onore di questa visita? Siete entrambi i benvenuti nella mia dimora, ma come potete vedere sono impegnato con Eragon in una lezione, ed è molto importante.»
«Ti porgo le mie scuse per averti importunato, Oromiselda» disse Arya, «ma...»
«La colpa è mia» intervenne Orik. Scoccò una rapida occhiata a Eragon prima di continuare. «Sono stato mandato qui da Rothgar per assicurarmi che Eragon riceva la dovuta istruzione. Non ho dubbi al riguardo, ma sono obbligato ad assistere con i miei stessi occhi, affinchè, quando tornerò a Tronjheim, io possa riferire al re quanto e avvenuto.» Oromis disse: «Ciò che insegno a Eragon non dev'essere divulgato ad altri. I segreti dei Cavalieri riguardano lui soltanto.»
«Comprendo benissimo. Tuttavia viviamo in tempi incerti; la pietra che un tempo era salda e solida, adesso è instabile. Dobbiamo adattarci per sopravvivere. Molto dipende da Eragon, e pertanto noi nani abbiamo il diritto di verificare che il suo addestramento proceda come promesso. Non ritieni che la nostra richiesta sia ragionevole?» «Ben detto, mastro nano» disse Oromis. Si tamburellò le dita fra loro, imperscrutabile come sempre. «Presumo quindi che sia una questione di dovere per te.»
«Dovere e onore.»
«E niente ti farà recedere dalla tua posizione?»
«Temo di no, Oromis-elda» disse Orik.
«E sia. Puoi restare a guardare per tutta la durata di questa lezione. Dopo ti riterrai soddisfatto?» Orik aggrottò la fronte. «Lavorate da molto?»
«Abbiamo appena iniziato.»
«In questo caso sì, mi riterrò soddisfatto. Per il momento, almeno.»
Mentre i due parlavano, Eragon cercava di incrociare lo sguardo di Arya, ma lei aveva occhi soltanto per Oromis. «... Eragon!»
Il giovane trasalì, immerso com'era nelle proprie fantasticherie. «Sì, maestro?»
«Non ti distrarre, Eragon. Voglio che tu faccia un altro fairth. Tieni la mente aperta, come ti ho detto prima.» «Sì, maestro.» Eragon prese la tavoletta, le mani un po' sudate al pensiero che Orik e Arya avrebbero giudicato il suo lavoro. Voleva fare qualcosa di bello per dimostrare che Oromis era un buon maestro. Tuttavia non riusciva a concentrarsi sugli aghi di pino e sulla linfa; Arya lo attirava come una calamita, rubandogli l'attenzione ogni volta che tentava di pensare a qualcos'altro.
Alla fine si rese conto che era inutile resistere all'attrazione. Compose un'immagine di lei nella mente - che gli richiese non più tempo di un battito di cuore, poiché conosceva i suoi lineamenti meglio dei proprie formulò l'incantesimo nell'antica lingua, riversando tutta la sua adorazione, il suo amore, e la sua paura nel flusso della magia. Il risultato lo lasciò esterrefatto.
Il fairth ritraeva la testa e le spalle di Arya su uno sfondo nero e indistinto. Un raggio di luce la colpiva da destra, e lei guardava l'osservatore con occhi saggi; appariva non come era, ma come lui la pensava: misteriosa, esotica, la più bella donna che avesse mai visto. Ancora una volta era un fairth imperfetto, con troppe zone d'ombra, ma possedeva una tale intensità e una tale passione che turbò Eragon nel profondo. È così che la vedo? Chiunque fosse quella donna, era così saggia, così potente, così affascinante da consumare qualunque uomo di minore fermezza.