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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Nasuada represse un moto di rabbia e cercò di rabbonire il condottiero. «Non intendevo offenderti. Stavo solo cercando di spiegare la mia posizione. Non nutro alcuna animosità nei riguardi delle tribù nomadi, né alcun affetto particolare. È una cosa tanto disdicevole?»

«È peggio che disdicevole, è tradimento bello e buono! Tuo padre ci ha fatto certe richieste sulla base della nostra parentela, e adesso tu ignori i nostri servigi e ci tratti come poveri mendicanti!»

Nasuada si rassegnò. E così Elva aveva ragione... è inevitabile, pensò. Un brivido di paura e di eccitazione la percorse. Se così dev'essere, allora non ho più alcun motivo di continuare questa farsa. Alzando la voce perché risuonasse forte e chiara, dichiarò: «Richieste che non avete assolutamente onorato.»

«Invece sì!»

«Non è vero. Ma se anche lo fosse, la posizione dei Varden è troppo precaria perché io vi dia qualcosa in cambio di niente. Tu mi chiedi dei favori, ma allora dimmi, cos'hai da offrirmi in cambio? Finanzierai la causa dei Varden col vostro oro e i vostri gioielli?»

«Non direttamente, ma...»

«Mi concederai i tuoi artigiani senza che debba pagarti nessun compenso?»

«Non possiamo...»

«E allora come intendi guadagnarti questi favori? Non puoi pagarmi con i tuoi guerrieri: i tuoi uomini già combattono per me, che siano fra i Varden o nell'esercito di re Orrin. Accontentati di quello che hai, capitano, e non pretendere niente di più di quanto ti spetta.»

«Tu stravolgi la verità per i tuoi scopi egoistici. Io pretendo quello che mi spetta! Ecco perché sono qui. Continui a parlare, ma le tue parole sono vuote, mentre con le tue azioni ci tradisci!» I bracciali d'oro tintinnarono mentre gesticolava, come se si stesse rivolgendo a un pubblico di migliaia di persone. «Tu ammetti che siamo la tua gente. Dunque segui ancora le nostre tradizioni e veneri ancora i nostri dei?»

Ci siamo, pensò Nasuada. Avrebbe potuto mentire e dire che aveva abbandonato le vecchie usanze, ma se l'avesse fatto, i Varden avrebbero perduto le tribù di Fadawar, e anche le altre comunità nomadi, una volta che si fosse sparsa la voce. Abbiamo bisogno di loro. Ci serve ogni singolo uomo a disposizione se vogliamo avere una minima possibilità di sconfiggere Galbatorix.

«Sì» rispose.

«Allora io dichiaro che sei inadatta a guidare i Varden e, com'è mio diritto, ti sfido alla Prova dei Lunghi Coltelli. Se vinci, ci inchineremo davanti a te e non metteremo mai più in discussione la tua autorità. Ma se perdi dovrai farti da parte, e io prenderò il tuo posto come capo dei Varden.»

Nasuada notò lo scintillio di avidità negli occhi di Fadawar. È sempre stato questo il suo obiettivo, pensò. Avrebbe invocato la prova anche se avessi accettato le sue richieste. Ad alta voce disse: «Forse ricordo male, ma mi pare che la tradizione dica che il vincitore assumerà il comando delle tribù dell'avversario, oltre a mantenere la propria carica. O mi sbaglio?» Per poco non scoppiò a ridere quando vide l'espressione sgomenta sul volto di Fadawar. Non ti aspettavi che lo sapessi, vero?

«Non ti sbagli.»

«Allora accetto la tua sfida, a patto che, se vinco, la tua corona e il tuo scettro diventino miei. D'accordo?»

Fadawar aggrottò la fronte e annuì. «D'accordo.» Batté lo scettro per terra con una tale violenza che per un istante l'asta rimase in piedi da sola, poi afferrò il primo bracciale del polso sinistro e cominciò a sfilarlo.

«Aspetta» disse Nasuada. Si avvicinò al tavolo che occupava l'altra metà del padiglione, prese una campanella d'ottone e la suonò due volte. Fece una pausa, e poi la suonò altre quattro volte.

Dopo appena un paio di secondi, Farica entrò nella tenda. Squadrò gli ospiti di Nasuada da capo a piedi, poi fece un inchino e disse: «Sì, mia signora?»

Nasuada fece un cenno a Fadawar. «Adesso possiamo procedere.» Poi si rivolse alla cameriera: «Aiutami a togliere il vestito. Non voglio sciuparlo.»

L'anziana donna fu turbata dalla richiesta. «Qui, mia signora? Davanti a questi... uomini?»

«Sì, qui. E sbrigati! Non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere con una serva.» Si rese conto di essere stata sgarbata, ma il cuore le batteva fortissimo ed era diventata incredibilmente, terribilmente sensibile: la sottoveste di morbido lino le sembrava ruvida come un sacco di iuta. Non era il momento per dare prova di pazienza e cortesia. La sua attenzione adesso era tutta concentrata sulla prova imminente.

Nasuada rimase immobile mentre Farica scioglieva le stringhe del suo abito, che partivano dalle scapole e arrivavano fino alle reni. Una volta allentate le stringhe, Farica aiutò Nasuada a sfilare le braccia dalle maniche, e il guscio di tessuto drappeggiato le ricadde ai piedi, lasciandola seminuda, coperta appena dalla candida sottoveste. Nasuada ricacciò indietro un brivido mentre i quattro guerrieri la osservavano, sentendosi vulnerabile sotto i loro sguardi cupidi. Li ignorò e fece un passo avanti, scavalcando il vestito che Farica si affrettò a raccogliere dalla polvere.

Di fronte a Nasuada, Fadawar era intento a sfilarsi tutti i pesanti bracciali d'oro, rivelando le maniche ricamate della camicia. Quando ebbe finito, si tolse la massiccia corona dalla testa e la porse a uno degli attendenti.

Voci da fuori interruppero i preparativi. Un giovane araldo - si chiamava Jarsha, ricordò Nasuada - entrò nel padiglione e si fermò a due passi dall'ingresso, annunciando: «Re Orrin del Surda, Jörmundur dei Varden, Trianna del Du Vrangr Gata, e Naako e Ramusewa della tribù Inapashunna.» Per tutto il tempo, Jarsha tenne lo sguardo debitamente rivolto al soffitto, poi girò sui tacchi e al suo posto entrò il gruppo che aveva annunciato, con re Orrin in testa. Il re vide Fadawar per primo e lo salutò dicendo: «Ah, capitano, questa sì che è una sorpresa... Confido che tu e...» S'interruppe sbalordito nel vedere Nasuada. «Ma... che significa tutto questo?»

«Vorrei saperlo anch'io» borbottò Jörmundur, stringendo l'elsa della spada e fissando accigliato chiunque osasse guardarla in maniera troppo sfacciata.

«Vi ho convocati qui» disse Nasuada «per assistere in qualità di testimoni alla Prova dei Lunghi Coltelli tra me e Fadawar, e per riferire in seguito, a chiunque voglia saperlo, l'esito del confronto.»

I due membri anziani della tribù Inapashunna, Naako e Ramusewa, parvero allarmati dalla rivelazione; con le teste vicine, cominciarono a confabulare tra di loro. Trianna incrociò le braccia - rivelando la spirale d'oro a forma di serpente che le cingeva il polso sottile - ma non tradì altra emozione. Jörmundur lanciò un'imprecazione e disse: «Hai smarrito il senno, mia signora? Questa è follia. Non puoi...»

«Posso, e lo farò.»

«Mia signora, se lo fai, allora io...»

«Prendo atto del tuo dissenso, ma la mia decisione è irrevocabile. E proibisco a chiunque di interferire.» Nasuada intuì che Jörmundur aveva una gran voglia di disobbedirle, ma per quanto desiderasse proteggerla, la lealtà era sempre stata la caratteristica più spiccata del suo ufficiale.

«Ma Nasuada» disse re Orrin, «questa prova non è quella in cui...»

«Sì, è quella.»

«Maledizione, allora! Ritirati da questa follia sconsiderata. Deve averti dato di volta il cervello per...»

«Ho già dato la mia parola a Fadawar.»

L'atmosfera nel padiglione si fece pesante come una coltre di velluto. Il fatto che Nasuada avesse dato la sua parola significava che non poteva rimangiarsi la promessa senza passare per una spergiura, una persona abietta che gli uomini d'onore avrebbero soltanto potuto maledire e mettere al bando. Orrin esitò un istante, poi insistette. «A quale scopo? Voglio dire, se perdi...»

«Se perdo, i Varden non risponderanno più a me, ma a Fadawar.»

Nasuada si era aspettata un coro di proteste. Invece seguì un silenzio in cui la collera ardente che animava i lineamenti di re Orrin si raffreddò, si stemperò e acquistò una qualità tagliente. «Non gradisco affatto la tua scelta di mettere a repentaglio la nostra causa.» A Fadawar disse: «Non vorresti ripensarci e liberare Nasuada dal suo impegno? Ti ricompenserò profumatamente se accetti di abbandonare questa tua malsana ambizione.»

«Sono già ricco quanto mi basta» replicò Fadawar. «Non ho bisogno del tuo oro di bassa lega. No, non c'è nulla, tranne la Prova dei Lunghi Coltelli, che mi possa ricompensare per le calunnie che Nasuada ha indirizzato al mio popolo e a me.»

«Adesso fammi da testimone» disse Nasuada a Orrin.

Orrin serrò con rabbia le pieghe del mantello, ma s'inchinò e disse: «D'accordo, farò da testimone.»

Dalle ampie maniche dei loro abiti, i quattro guerrieri di Fadawar estrassero dei piccoli tamburi di pelle di capra. Si accovacciarono, misero i tamburi fra le ginocchia e cominciarono a suonare un ritmo così forsennato che le mani divennero nere macchie indistinte. La musica primitiva cancellò tutti gli altri suoni, come anche il vortice di pensieri che tormentava Nasuada. Il suo cuore pareva tenere il tempo con il ritmo frenetico che l'assordava.

Senza smettere di suonare, il più anziano degli uomini di Fadawar si frugò nella veste e trasse due lunghi coltelli ricurvi, che lanciò verso il punto più alto della tenda. Nasuada guardò i coltelli roteare in aria, affascinata dalla bellezza del movimento.

Quando le arrivò vicino, Nasuada alzò un braccio e afferrò al volo un coltello. L'impugnatura tempestata di opali le graffiò il palmo.

Fadawar fu altrettanto lesto a intercettare la propria lama.

Nasuada lo vide arrotolarsi la manica sinistra fino al gomito e ne studiò l'avambraccio, sodo e muscoloso. Ma non era questo che le importava: le doti atletiche non servivano a vincere quel tipo di sfida. Quello che Nasuada cercava erano le cicatrici che, se c'erano, dovevano solcare la parte morbida dell'avambraccio.

Ne contò cinque.

Cinque! pensò. Così tante. La sua sicurezza vacillò mentre contemplava la prova della resistenza di Fadawar. L'unica cosa che le impedì di perdere il controllo fu la profezia di Elva: la ragazza aveva detto che Nasuada avrebbe vinto. Nasuada si aggrappò al ricordo delle sue parole come fosse una zattera in un mare in burrasca. Ha detto che posso farcela, perciò devo riuscire a battere Fadawar... Devo!

Dato che era stato lui a lanciare la sfida, fu lui a cominciare. Tese il braccio sinistro con il palmo rivolto verso l'alto, posò il coltello sull'avambraccio, appena sotto l'incavo del gomito, e passò la lama lucida e affilata sulla carne. La pelle si aprì come una fragola matura e il sangue sgorgò dall'incisione cremisi.

Il suo sguardo incontrò quello di Nasuada.

Lei sorrise e si posò il coltello sul braccio. Il metallo era freddo come il ghiaccio. La loro era una prova di resistenza per scoprire chi avrebbe sopportato più tagli. La convinzione era che chiunque aspirasse a diventare capotribù, o persino capo militare, doveva essere disposto a sopportare più dolore di chiunque altro per il bene del suo popolo. Altrimenti come potevano le tribù essere certe che il loro capo avrebbe anteposto gli interessi della comunità ai propri desideri personali? Nasuada era convinta che quella pratica incoraggiasse l'estremismo; d'altro canto, capiva come attraverso quel gesto si potesse guadagnare la fiducia della gente. Anche se la Prova dei Lunghi Coltelli era una tradizione esclusiva delle tribù dalla pelle scura, battere Fadawar avrebbe rafforzato la sua posizione anche fra i Varden e, sperava, fra i sudditi di re Orrin.

In silenzio offrì una breve preghiera a Gokukara, la dea mantide religiosa, poi premette il coltello. L'acciaio affilato le penetrò la carne così facilmente che Nasuada si sforzò di non andare troppo a fondo. Rabbrividì. Avrebbe voluto gettare il coltello, stringersi la ferita e urlare.

Non fece nessuna di queste cose. Tenne il muscolo rilassato; se lo avesse contratto, il dolore sarebbe stato molto più intenso. E continuò a sorridere, mentre la lama le lacerava il corpo. Il taglio durò appena tre secondi, ma in quegli istanti la sua carne offesa lanciò migliaia di grida di protesta, e ciascun grido rischiò di farla smettere. Mentre abbassava il coltello, notò che gli uomini della tribù continuavano a battere sui tamburi, ma lei non sentiva altro che il battito del proprio cuore.

Fadawar si ferì una seconda volta. I nervi tesi del collo spiccarono in rilievo, mentre la vena giugulare si gonfiava fin quasi a scoppiare.

Nasuada capì che toccava di nuovo a lei. Sapere quello che l'aspettava non fece che aumentare il suo timore. L'istinto di conservazione - un istinto che l'aveva preservata in molte altre occasioni - lottò contro l'ordine che il suo cervello inviava al braccio e alla mano. Disperata, cercò di concentrarsi sul desiderio di salvare i Varden e sconfiggere Galbatorix: le due cause a cui aveva dedicato la sua intera esistenza. Con gli occhi della mente, vide suo padre e Jörmundur ed Eragon e i Varden, e pensò: Per loro! Lo faccio per loro. Sono nata per servire, e questo è il mio servigio.

Procedette con l'incisione.

Un istante dopo, Fadawar si aprì un altro squarcio nell'avambraccio, e altrettanto fece Nasuada.

Il quarto taglio seguì subito dopo.

E il quinto...

Nasuada si sentì pervadere da uno strano torpore. Era molto stanca, e aveva freddo. Si rese conto che la sopportazione del dolore poteva non essere decisiva quanto chi sarebbe svenuto per primo a causa dell'emorragia. Rivoletti di sangue le scorrevano sul polso e fra le dita, raccogliendosi in una pozza ai suoi piedi. Una pozza simile, se non più grande, si allargava intorno agli stivali di Fadawar.

I rossi tagli paralleli sul braccio del capitano ricordarono a Nasuada le branchie di un pesce, un pensiero che le parve stranamente buffo: si morse la lingua per non ridere.

Con un ringhio, Fadawar si procurò il sesto taglio. «Fai di meglio, strega incapace!» gridò al di sopra del rullo di tamburi, e cadde su un ginocchio.

Nasuada fece di meglio.

Fadawar tremò spostando il coltello dalla mano destra alla sinistra: la tradizione imponeva un massimo di sei ferite per braccio, altrimenti si rischiava di recidere le vene e i tendini più vicini al polso. Quando Nasuada imitò la sua mossa, re Orrin scattò fra i due, gridando: «Basta! Non vi permetterò di continuare. Vi state uccidendo.»

Tese una mano verso Nasuada, ma indietreggiò quando lei lo minacciò col coltello. «Non t'immischiare» ringhiò la regina a denti stretti.

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