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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Il clangore di metallo s'interruppe all'improvviso e Murtagh gridò: «Maledetti per non esservi rivelati prima! Maledetti! Avreste potuto aiutarci! Avreste potuto...» Per un momento Murtagh parve soffocare.

Glaedr grugnì quando un'inaspettata forza invisibile arrestò la loro caduta, con uno scossone che gli fece quasi perdere la presa sulla zampa di Castigo. Furono sollevati in alto, sempre più in alto, finché la cittàformicaio sotto di loro non fu soltanto una macchiolina indistinta. Perfino Glaedr faceva fatica a respirare l'aria rarefatta.

Che cosa fa il cucciolo umano?

si chiese Glaedr, preoccupato.

Sta cercando di uccidersi?

In quel momento Murtagh ricominciò a parlare, ma la sua voce risuonò alterata, più piena e profonda di prima, echeggiante come se si trovasse in una sala vuota. Glaedr si sentì rizzare le squame sulle spalle nell'udire la voce del loro antico nemico.

«E così siete sopravvissuti, Oromis, Glaedr» disse Galbatorix. Le sue parole erano rotonde e morbide, come quelle di un esperto oratore, e pronunciate in tono falsamente amichevole. «Da tempo sospettavo che gli elfi potessero tenermi nascosto un drago o un Cavaliere. È gratificante trovare conferma ai miei sospetti.»

«Vattene, pazzo spergiuro!» gridò Oromis. «Non ti daremo alcuna soddisfazione!»

Galbatorix ridacchiò. «Ma che saluto sgarbato. Vergognati, Oromiselda. Gli elfi hanno dimenticato la loro leggendaria cortesia in quest'ultimo secolo?»

«Non meriti più cortesia di un lupo rabbioso.»

«Suvvia, Oromis, ricordi che cosa mi dicesti quando ero dinnanzi a te e agli altri Anziani? "La rabbia è un veleno. Devi eliminarla dalla tua mente o corroderà la tua natura." Dovresti prestare ascolto al tuo stesso consiglio.»

«Non riuscirai a confondermi con la tua lingua biforcuta, Galbatorix. Sei un essere abominevole, e faremo in modo di eliminarti, a costo della vita.»

«Ma perché dovresti, Oromis? Perché dovresti metterti contro di me? Mi dispiace vedere che hai permesso all'odio di corrompere la tua saggezza. Perché un tempo eri saggio, Oromis, forse il membro più saggio di tutto il nostro ordine. Tu sei stato il primo a riconoscere la pazzia che divorava la mia anima, e sei stato tu a convincere gli altri Anziani a rifiutare la mia richiesta di un secondo uovo di drago. Fu molto saggio da parte tua. Inutile, ma saggio. In qualche modo, poi, sei riuscito a sfuggire a Kialandí e a Formora, anche dopo che ti avevano ferito, e ti sei nascosto finché non morirono tutti i tuoi nemici, tranne uno. Anche questo fu molto saggio da parte tua, elfo.»

Una breve pausa segnò il discorso di Galbatorix. «Non c'è bisogno di continuare a combattermi. Ammetto di aver commesso crimini terribili in gioventù, ma quei giorni sono ormai lontani e quando rifletto sul sangue che ho versato provo rimorso. Ma che cosa vorreste che facessi? Non posso disfare ciò che ho fatto. Ora la mia più grande preoccupazione è garantire pace e prosperità all'Impero di cui mi sono ritrovato a essere signore e padrone. Non capisci che ho perso la mia sete di vendetta? La rabbia bruciante che mi ha guidato per tutti questi anni si è ridotta in cenere. Rivolgi a te stesso questa domanda, Oromis: chi è il responsabile della guerra che si è propagata in tutta Alagaësia? Non io. I Varden hanno scatenato questo conflitto. Io mi sarei accontentato di governare il mio popolo e di lasciare gli elfi, i nani e i surdani al loro destino, ma i Varden non hanno voluto lasciarmi in pace. Sono loro che hanno scelto di rubare l'uovo di Saphira, loro che hanno ricoperto la terra di montagne di cadaveri, non io. Un tempo eri saggio, Oromis, e puoi tornare a esserlo. Rinuncia al tuo odio e unisciti a me a Ilirea. Con te al mio fianco, potremo mettere fine a questo conflitto e inaugurare un'era di pace che durerà per mille anni e più.»

Glaedr non fu affatto persuaso. Serrò le mascelle poderose, e Castigo strillò. Il grido di dolore risuonò incredibilmente forte dopo i toni suadenti di Galbatorix.

Con voce chiara e squillante, Oromis rispose: «No. Non puoi farci dimenticare le tue atrocità con un balsamo di bugie addolcite. Liberaci! Non puoi trattenerci qui ancora a lungo, e mi rifiuto di scambiare inutili chiacchiere con un traditore come te.»

«Bah! Sei soltanto un vecchio pazzo» disse Galbatorix, e la sua voce acquistò un tono aspro e malvagio. «Avresti dovuto accettare la mia offerta; saresti stato il primo e il più importante fra i miei schiavi. Ti farò rimpiangere la tua stolida devozione alla tua cosiddetta giustizia. E ti sbagli. Posso tenervi così finché voglio, perché sono diventato potente come un dio e non c'è nessuno che possa fermarmi.»

«Non vincerai» disse Oromis. «Perfino gli dei non durano per sempre.»

A quel punto Galbatorix pronunciò una terribile promessa. «La tua filosofia è inutile con me, elfo! Sono il più grande di tutti i maghi, e presto diventerò ancora più potente. La morte non mi prenderà. Tu invece morirai. Ma prima dovrai soffrire. Entrambi soffrirete oltre ogni immaginazione, e poi io ucciderò te, Oromis, e prenderò il tuo cuore dei cuori, Glaedr, e mi servirai fino alla fine dei tempi.»

«Mai!» esclamò Oromis.

E Glaedr sentì di nuovo il clangore delle spade. Aveva escluso Oromis dalla mente durante il duello, ma il loro legame scorreva più profondo del pensiero cosciente, perciò sentì quando Oromis s'irrigidì, paralizzato dagli spasmi lancinanti che l'infida malattia gli procurava. Allarmato, liberò la zampa di Castigo e cercò di allontanare il drago rosso con un calcio. Castigo ululò di dolore, ma non si mosse. L'incantesimo di Galbatorix li teneva bloccati entrambi, incapaci di spostarsi per più di qualche spanna in qualsiasi direzione.

Risuonò ancora un tonfo metallico sopra di lui, e poi Glaedr vide Naegling passargli di fianco. La spada di Oromis sfavillò di bagliori dorati mentre precipitava verso terra. Per la prima volta Glaedr si sentì afferrare dal gelido artiglio della paura. Gran parte dell'energia magica di Oromis era immagazzinata nella sua spada e i suoi incantesimi di protezione erano legati alla lama. Senza Naegling era indifeso.

Glaedr si scagliò con tutte le sue forze contro l'incantesimo paralizzante di Galbatorix, ma non riuscì a liberarsi. E proprio mentre Oromis cominciava a riprendersi dall'attacco di convulsioni, Glaedr sentì Zar'roc fendere Oromis dalla spalla all'anca.

Glaedr ululò.

Ululò come Oromis aveva fatto quando lui aveva perso la zampa.

Una forza inesorabile gli ribollì nelle viscere e senza fermarsi a riflettere se ne sarebbe stato capace oppure no si liberò di Castigo e di Murtagh con un'esplosione di magia che li spazzò via come foglie al vento. Poi ripiegò le ali e si tuffò in picchiata verso Gil'ead. Se fosse riuscito ad arrivare in tempo, forse Islanzadi e i suoi stregoni avrebbero potuto salvare Oromis.

La città però era troppo lontana. La coscienza di Oromis vacillava... si affievoliva... scivolava via...

Glaedr fece confluire la propria forza nel corpo martoriato di Oromis, nel tentativo di sostenerlo finché non fossero atterrati. Ma per quanta energia gli infondesse, non riusciva a fermare la terribile emorragia di Oromis.

Glaedr... lasciami andare, mormorò Oromis con la mente.

Un istante dopo, la voce ormai ridotta a un sussurro, disse: Non piangermi.

E poi il compagno della vita di Glaedr passò nel vuoto.

Morto.

Morto!

MORTO!

Nero. Vuoto.

Era solo.

Una nebbia cremisi scese sul mondo, pulsando all'unisono con il suo cuore. Batté le ali e risalì da dove era venuto, cercando Castigo e il suo Cavaliere. Non li avrebbe lasciati andare; li avrebbe presi e fatti a pezzi e bruciati fino a estirparli dal mondo.

Glaedr vide il rosso drago infido tuffarsi contro di lui, e allora ruggì tutto il suo dolore e raddoppiò la velocità. Il drago rosso virò all'ultimo istante nel tentativo di affiancarlo, ma non fu abbastanza veloce. Glaedr tese il collo e con un morso staccò l'ultima parte della coda del drago rosso. Una fontana di sangue sprizzò dal moncone. Latrando di dolore, il drago rosso fremette e si lanciò al suo inseguimento. Glaedr tentò di voltarsi per affrontarlo, ma il drago piccolo era troppo veloce, troppo agile. Glaedr sentì una fitta lancinante alla base del cranio. E poi la sua vista tremolò e si spense.

Dov'era?

Era solo.

Era solo e al buio.

Era solo e al buio, e non poteva muoversi né vedere.

Sentiva le menti di altre creature accanto, ma non erano le menti di Castigo e di Murtagh. No, erano quelle di Arya, di Eragon e di Saphira.

E allora capì dov'era. La verità lo travolse con tutto il suo orrore e il drago ululò nell'oscurità. Ululò abbandonandosi al dolore, senza curarsi di quello che il futuro avrebbe potuto riservargli, perché Oromis era morto e lui era solo.

Solo!

Con un sussulto, Eragon tornò in sé.

Era raggomitolato sul pavimento, il volto rigato di lacrime. Boccheggiando si rialzò, e cercò Saphira e Arya.

Gli ci volle un momento per capire ciò che vide.

La strega che Eragon era stato sul punto di attaccare giaceva davanti a lui, uccisa da un solo colpo di spada. Gli spiriti che lei e i suoi compagni avevano evocato non si vedevano da nessuna parte. Lady Lorana era ancora seduta nella sua poltrona. Saphira si stava faticosamente rialzando, dall'altro lato della stanza. E l'uomo che prima sedeva sul pavimento, fra gli altri tre stregoni, ora stava in piedi accanto a lui, e teneva Arya per la gola.

Il colore aveva abbandonato la pelle dell'uomo, lasciandolo bianco come un osso. I suoi capelli, prima castani, adesso erano di un vivido color rosso sangue, e quando lo guardò e sorrise, Eragon scoprì che anche gli occhi erano diventati rossi. L'uomo aveva gli stessi tratti e lo stesso fare di Durza.

«Il nostro nome è Varaug» disse lo Spettro. «Tremate.» Arya scalciò, ma i suoi colpi non parvero avere effetto su di lui.

La pressione bruciante della coscienza dello Spettro attanagliò la mente di Eragon, cercando di abbattere le sue difese. La potenza dell'aggressione lo paralizzò: riuscì a stento a respingere i tentacoli della mente dello Spettro, figuriamoci camminare o brandire una spada. Per chissà quale ragione, Varaug era persino più forte di Durza, ed Eragon non sapeva quanto avrebbe potuto resistergli. Si accorse che anche Saphira era stata aggredita: era seduta rigida e immobile davanti al balcone, il muso contratto in un ringhio.

Le vene sulla fronte di Arya si gonfiarono e il suo volto divenne rosso, poi viola. Aveva la bocca aperta, ma non respirava. Con il palmo della mano colpì il gomito serrato dello Spettro e gli ruppe l'articolazione con uno schianto secco. Il braccio di Varaug si abbassò e per un momento le punte dei piedi di Arya sfiorarono il pavimento, ma poi le ossa nel braccio dello Spettro tornarono a posto e lui la sollevò ancora più in alto.

«Morirai» ruggì Varaug. «Morirete tutti per averci imprigionati in questa fredda corazza di argilla.»

La consapevolezza che le vite di Arya e Saphira erano in pericolo privò Eragon di qualsiasi altra emozione che non fosse una feroce determinazione. Con la mente affilata e trasparente come una scheggia di vetro, si avventò contro la coscienza incandescente dello Spettro. Varaug era troppo potente e gli spiriti che lo possedevano troppo diversi perché Eragon riuscisse a sopraffarlo e a controllarlo, così tentò di isolarlo. Circondò la mente di Varaug con la propria: ogni volta che Varaug cercava di allungare la coscienza verso Saphira o Arya, Eragon bloccava il suo raggio mentale, e ogni volta che lo Spettro cercava di spostarsi, Eragon vanificava il suo tentativo muovendosi a sua volta.

Combattevano alla velocità del pensiero, scambiandosi affondi e parate lungo il perimetro della mente dello Spettro, un paesaggio così confuso e incoerente che Eragon temette d'impazzire se lo avesse guardato troppo a lungo. Mentre duellava con Varaug, cercando di anticipare ogni sua mossa, Eragon capì che lo scontro avrebbe potuto concludersi soltanto con la propria sconfitta, malgrado gli sforzi immani che stava mettendo in campo. Per quanto veloce, la sua mente non poteva superare le numerose intelligenze contenute nello Spettro.

Alla fine la sua concentrazione vacillò e Varaug approfittò dell'occasione per insinuarsi ancora di più nella sua mente, intrappolandolo, immobilizzandolo, sopprimendo i suoi pensieri finché Eragon non poté far altro che fissare lo Spettro con una rabbia silenziosa. Un atroce formicolio gli attraversò il corpo mentre gli spiriti lo invadevano, scivolando in ogni suo nervo.

«Il tuo anello è pieno di luce!» esclamò Varaug, spalancando gli occhi per il piacere. «Meravigliosa luce! Ci nutrirà per molto tempo.»

Ruggì di rabbia quando Arya gli afferrò il polso e glielo spezzò in tre punti. L'elfa si divincolò dalla sua stretta prima che lo Spettro avesse modo di guarirsi e cadde a terra boccheggiando.

Varaug le sferrò un calcio, ma lei lo schivò rotolando di fianco e tese una mano verso la spada che le era caduta.

Quando Eragon tentò di liberarsi della presenza soffocante dello Spettro, prese a tremare in tutto il corpo.

La mano di Arya si strinse intorno all'elsa della spada. Un urlo di belva sfuggì dalle labbra esangui dello Spettro. Si avventò su di lei e rotolarono avvinghiati sul pavimento, lottando per impossessarsi dell'arma. Con un grido selvaggio, Arya lo colpì alla tempia con il pomolo della spada. Per un momento Varaug si afflosciò e Arya indietreggiò sui gomiti e sui calcagni, poi si rialzò di scatto.

Senza pensare alla propria incolumità, Eragon riprese l'attacco contro la coscienza dello Spettro, con l'unico intento di trattenerlo per qualche altro istante.

Varaug si alzò su un ginocchio, poi, quando Eragon raddoppiò gli sforzi, vacillò.

«Ora!» urlò Eragon.

Arya fece un affondo, i neri capelli svolazzanti sulle spalle.

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